Probabilmente per molti è un'osservazione superflua, ma vorrei rivolgermi a quanti stanno criticando il nuovo disco di Ozzy solo perchè poco "heavy".
Ordinary man potrà essere buono o pessimo, ma non per la sua grammatura metallica, giacchè Ozzy, da un pezzo, non è più l'icona hard&heavy degli ottimi esordi da solista.
Da tempo produce infatti lavori mainstream rock, coadiuvato da una squadra di session man, produttori e manager che servono ad assicurarsi che il "prodotto" finale sia abbastanza commerciale. Nel farlo, a volte riescono a riannodare gli esilissimi fili della storia artistica di Ozzy, e a volte no.
Mai come in questo caso la premessa è doverosa, per affermare che il ritorno sulle scene, da solista, del primo cantante dei Black Sabbath, dieci anni dopo il (lo possiamo dire) pessimo Scream, non è da buttare.
L'incipit di Straight to hell cerca di coniugare il nuovo e il vecchio Ozzy, come accennavo, con un testo blandamente maledetto, steso sopra un hard rock ruffiano, che funziona (così come l'inconfondibile "alright now" in apertura).
Ad aprire l'interminabile lista di ospiti illustri e musicisti da studio che corroborano il lavoro dell'artista inglese, nel pezzo d'apertura suona metà formazione dei migliori Guns 'n' Roses (Slash e Duff McKagan), oltre a Chad Smith (RHCP).
Smith e McKagan sono presenti per quasi tutto l'album, mentre Slash torna con uno dei suoi classici solo, nella riuscita ballata che dà il titolo al disco, interpretata da Ozzy assieme a sir Elton John (ospitata che in altri tempi sarebbe stata "blasfema" e che qui invece risulta funzionale).
Così come stonerebbe un'altra ospitata piazzata per ragioni commerciali, quella di Post Malone, che si prende la scena nella coda del disco, con due brani consecutivi: It's a raid (dove troviamo anche Tom Morello) e Take what you want, ballad con influenze nu soul, in questo caso davvero evitabile, perchè completamente fuori contesto e perchè la traccia era comunque già inclusa nell'ultimo album di Post Malone, Hollywood's bleeding.
Non sempre un prodotto nato e costruito per vendere, prima che per afflati artistici, con una lista di collaboratori lunga una pagina (leggere per credere), riesce a mantenere un filo conduttore, una coerente omogeneità. Ordinary man, che di certo non è il disco dell'anno, riesce invece a suonare come un album coeso, toccando qualche picco di rilievo (All my life; Goodbye; Straight to hell; Eat me) e regalando qualche testo che lascia il segno (Under the graveyard).
Tutto sommato è un bell'accontentarsi, anche in considerazione delle precarie condizioni di salute di quest'uomo qui.