lunedì 28 ottobre 2019

Lords of Chaos (2018)


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Oslo, seconda metà degli ottanta, un gruppo di ragazzi cerca il proprio posto nel mondo attraverso l'ascolto massivo di musica metal estrema e, soprattutto, attraverso un atteggiamento oppositivo caratterizzato da una professione di satanismo intrecciata a filosofie naturaliste e dottrine pagane.
Capitanati dal più intraprendente di loro, tale Øystein Aarsethaka Euronymous, i ragazzi cominciano ad improvvisare la loro musica attraverso una band chiamata Mayhem, e quando trovano il cantante giusto nello svedese Per Yngve Ohlin, detto Dead, sembra che tutto cominci a girare nel verso giusto. Peccato che Dead, vittima di abusi da bambino, soffra di una gravissima forma di depressione che lo conduce inevitabilmente al suicidio.
Ma i Mayhem, che hanno costruito un'immagine di satanisti e di cultori della morte, non possono certo fermarsi di fronte a questa tragedia, anzi in qualche modo ne traggono vantaggio, mettendo sulla copertina di un loro album le foto di Dead con il cranio aperto dopo la fucilata che l'ha ucciso e alimentando voci di cannibalismo post mortem.
All'allegra combriccola, che nel frattempo ha aperto l'Helvet, un negozio di dischi "a tema", che funziona da ritrovo per tutti i blacksters locali, si unisce Kristian Vikernes, un ragazzino goffo e introverso che da tempo ronzava attorno alla band, ma che dalla quale era stato in precedenza allontanato a causa dei suoi gusti musicali, pur sempre metal, ma troppo morbidi.
L'insediamento di Kristian porterà ad un "livello superiore" i comportamenti anti-sociali/satanici/criminali del gruppo, forzando azioni concrete in luogo di quella che era solo un'immagine pubblica del gruppo, fino alle conseguenze più tragiche e drammatiche.

Questo film meriterebbe due recensioni distinte. Una per il valore in sè della pellicola. Un'altra per la sua verosomiglianza coi fatti trattati, i famigerati crimini commessi dal cosiddetto black circle norvegese, nei primi anni novanta. Da questo punto di vista la pellicola è stata stroncata pressochè unanimemente dai die hard fan del black metal, d'altro canto anche il libro da cui è tratto, scritto da Moynihan e Didrik Søderlind, non fu esente da critiche. 

Ma dicevamo del film.

La scelta di storytelling del regista Akerlund premia il personaggio di Aarseth/Euronymous (interpretato in maniera convincente da Rory Culkin, fratello del noto Macaulay di Mamma, ho perso l'aereo, e per uno strano cortocircuito, somigliante in modo impressionante a Fenriz dei Darkthrone), dipingendolo come un bravo guaglione che usa in maniera innocua e al solo fine di un sano spirito di ribellione giovanile, coniugato con la volontà di provocare ed ottenere visibilità per i Mayhem e per la sua carriera di discografico, gli elementi esoterici, l'anti clericalismo o il satanismo, ma che non torce un capello a nessuno, nemmeno agli animali che invece il sodale Dead uccide appena ne ha occasione.
La macchina da presa sta quindi molto addosso a questo character, non lesinando primi piani che Culkin gestisce con molta espressività.

Il doppelganger cinematografico di Euronymous è Kristian (Emory Cohen), aka Varg, aka Burzum, aka Count Grishnack, che, a differenza di Aarseth, si intuisce essere caratterialmente complicato, represso ed insicuro, ma al tempo stesso senza remore morali ne scrupolo alcuno.
Varg appare come un perfetto personaggio di un film dei fratelli Coen, caratterizzato cioè da quel mix di stupidità, goffaggine e crudeltà, tipico dei characters che abbiamo imparato ad amare con Fargo (film e serie), Blood simple o Ladykillers.
Ad ogni modo il rapporto tra i due è esplorato in maniera abbastanza chiara. Euronymous è refrattario alla catena di crimini commessi e fomentati da Varg, ma non può sottrarsi al contesto macabro che lui stesso ha creato, pena la perdita di "reputazione" e l'estromissione dal circolo.

Attorno a loro ruotano altri personaggi, il più importante dei quali è senza dubbio Dead,interpretato da Jack Kilmer (figlio di Val), che si lega profondamente con Euronymous, il cui ricordo continua a tormentare Aarseth attraverso incubi e visioni.
Diverso lo spazio dato a Faust (batterista degli Emperor), il quale emerge dal gruppo solo quando uccide un uomo che tenta di adescarlo, mentre del tutto estranei ai crimini sono Necrobutcher e Hellhammer, rispettivamente bassista e batterista di quella formazione dei Mayhem.

Il film, inteso come opera di finzione, funziona bene, con una buona la messa in scena ed un ritmo coinvolgente, di certo aiuta il background del regista che aveva fatto parte per un breve periodo della formazione dei Bathory, altro gruppo seminale di metal estremo che, a detta di molti, è il vero progenitore del black.
La prima parte di Lord of Chaos cerca di spiegare, sebbene in maniera sintetica, lo spirito di questo sottogenere musicale, e, anche nel proseguo, ad un occhio esperto i riferimenti "storici" sono davvero molti, dal mitologico mercato clandestino dei tape traders, all'odio per qualunque altro genere metal (persino i fondamentali Morbid Angel, in quanto death, sono definiti posers), passando per l'ammirazione per i Venom, e via discorrendo.

Il crescendo degli avvenimenti, dal rancore covato dai due protagonisti, alla volontà di rivaleggiare con i crimini commessi dagli altri membri del circolo, alla paura di essere espulsi da quella famiglia disfunzionale, all'ansia di primeggiare ed essere riconosciuti dalla comunità, dai media e dall'opinione pubblica, sono resi in maniera efficace, considerato che si parla di ragazzi in qualche caso nemmeno ventenni.
Ad un livello di sottotesto emerge anche un'assenza del tutto nordica delle famiglie, i genitori di questi giovani sono, non a caso, sempre fuori campo o sfocati, si sentono le loro voci salutare i figli che escono o per chiamarli a tavola, sono loro, i padri e le madri, che si fanno carico dell'affitto del negozio di dischi di Aarsteh o del debutto discografico di Burzum, senza accorgersi minimamente di come i loro figli stiano infrangendo le barriere tra il pensiero e l'azione.  

Ma il film mostra anche un agghiacciante realismo nei suoi momenti più efferati, cioè nei due omicidi: le vittime dei carnefici Faust e Varg muoiono dopo un vero e proprio martirio, colpite più volte, in un spazio di tempo angosciante ed interminabile.
E, purtroppo, sulle ricostruzioni dei delitti non può esserci spazio per polemiche o interpretazioni di sorta, esse rispecchiano infatti fedelmente lo svolgimento dei fatti, come ricostruito dalle indagini e, nel caso della morte di Euronymous, come raccontato, senza il minimo accenno di pentimento, anzi con auto compiacimento, da parte dello stesso Varg, nel film documentario Until the light take us (il che aprirebbe un enorme dibattito sull'efficacia erga omnes del modello penale nordico, che prevede, a scopo riabilitativo, un massimo di pena detentiva di circa vent'anni, indicativamente la stessa condanna inflitta al terrorista nero Breivik che, in Norvegia, sterminò settantasette persone).

Ma Lords of chaos possiede anche una chiave di lettura in qualche modo leggera, ironica, a partire dalla voce narrante di Euronymous, usata nella modalità genialmente introdotta a suo tempo da Viale del tramonto, e che, nelle ultimissime sequenze prima dei titoli di coda, si contrappone, in maniera davvero inaspettata al mood del racconto.

Tornando per un momento alla realtà dei fatti, è interessante notare come tutta la scena black norvegese si sia schierata contro il film, proseguendo una tradizione che la vede opporsi a qualunque "revival" di quegli anni, a prescindere che sia veicolato da libri, interviste o documentari, nonostante, tutto sommato, un'importante esposizione potrebbe contribuire, in termini pubblicitari, al rilancio di band che sono ancora in giro. 
E invece, non so se per un integralismo radicale o per una pervicace ricerca del basso profilo, un film che parla di black metal, a causa dell'ostracismo della scena, non ha potuto utilizzare le musiche originali delle formazioni più importanti del genere, infatti, l'attuale formazione dei Mayhem, protagonista della storia, ha negato i diritti alla produzione, seguita a ruota dai Darkthrone e da Burzum. Poi certo, Varg si è fatto ancora una volta riconoscere, criticando anche la scelta "etnica" dell'attore individuato per interpretarlo (di origini ebree), ma nel suo caso non c'è nemmeno da prestargli più di tanta attenzione, nazistello del cazzo.
Ovviamente è stata criticatissima anche la scelta di affidare ai Sigur Ros, che col metal non centrano nulla (anche se ci sarebbe da fare un lungo discorso sull'ambient black), la scelta del soundtrack, che è caduta su Dio, Accept, Sarcofago, Tormentor, Bathory, Grotesque, Cathedral, oltre agli stessi Sigur Ros.

Personalmente ho trovato Lord of chaos un film che evita con bravura le trappole potenzialmente disseminate dentro un'operazione come questa. 
Compie delle scelte, romanza la vita del protagonista scelto (Euronymous) in maniera forse discutibile, ma descrive gli eventi, tra fatti oggettivi e leggende tramandate, così come sono andati, o perlomeno come li abbiamo imparati a conoscere. 
D'altro canto il regista ammette subito i limiti della verosomiglianza, quando, all'inizio del film, compare sullo schermo l'avviso: based on truth...lies... and what really happened. Come dire: non c'è nessuno al mondo, nemmeno i superstiti a quegli eventi che potrebbe mettere scientificamente in fila tutto ciò che è accaduto, senza che qualcun altro alzi il dito e dica che si tratta di un mucchio di stronzate.
In questo scenario la pellicola passa da una ricostruzione maniacale fin nel più piccolo dettaglio di alcuni aspetti della storia (la casa nei boschi dove si suicida Dead, l'Helvet) a qualche scivolone sentimentale, forse inevitabile visto il profilo mainstream della produzione.

Per quanto mi riguarda il giudizio è positivo, rafforzato anche da un termometro emotivo. Infatti quando un film mi trasmette qualcosa, nei giorni successivi alla visione continuo a tornarci con la mente.  
E, con tutte le sue imperfezioni e i suoi difetti, con Lords of chaos mi è successo proprio questo, al punto da non escludere una seconda visione a breve.

lunedì 14 ottobre 2019

Dinosaur Pile-Up, Celebrity mansions

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Altra rilevante scoperta di un anno estremamente proficuo, questi Dinosaur Pile-Up, band di Leeds, UK, che, in barba ai miei tempi di carotaggio, è attiva da una decina di anni con quattro album all'attivo, di cui Celebrity mansions è l'ultimo.
La cover del disco rimanda l'immagine di un gruppo di allegri cazzoni e la percezione non è del tutto errata, anche se questa definizione andrebbe estesa e completata:  si tratta infatti di un gruppo di allegri cazzoni con una capacità fuori dal comune di mettere insieme riff e parole, dotati di un radar musicale affollato da una pletora di influenze.

Ci vuole davvero poco per innamorarsi dei DP-U. Basta che parta il primo pezzo del disco, che, a dire la verità, conquista già da titolo, Thrash metal cassette, ma che poi stende definitivamente per tiro e incipit del testo:  "Thrash metal on the stereo / Sixteen hours a day / Yeah, drivin' on a shitheap splitter / We got to get to LA".
A questo punto l'ottovolante è partito e non c'è più modo di scendere, cioè di premere stop sul lettore. 
Back foot è infatti un'altra mazzata che impone anche ai corpi più agè, sgraziati e fuori forma di raggiungere un pit immaginario e pogare come non ci fosse un domani.

Non mi sono soffermato sul genere musicale proposto dai Dinosaur Pile-Up (a proposito, la formazione è un classico power trio capitanato dal chitarrista/cantante/leader/frontman Matt Bigland, unico componente originale, più basso e batteria ) e non vorrei si pensasse ad un disco "banalmente" (e lo dico con tutto il mio noto affetto per il genere) metal. 
Quelli bravi li definiscono alternative-rock, ma in realtà le influenze del gruppo sono davvero svariate e trasversali. 
Ascoltando e riascoltando Celebrity mansions quella che emerge è piuttosto una spiccatissima sensibilità nineties, quando, soprattutto nelle prima metà di quegli anni, la parola d'ordine era contaminare stili e generi.
Non solo grunge quindi (tuttavia, quanto avrebbe spaccato nel 1993 un pezzo come Round the bend?), ma Foo Fighters (Pouring gasoline, altro anthem, o Black Limousine), e anche, nell'attitudine, Red Hot Chilli Peppers, poi Faith No More (la title track), Smashing Pumkins, il punk (Stupid heavy-metal broken hearted loser punk) e il power pop dei Weezer (K West).

Un disco enorme, fonte di inesauribile divertimento. 
Da questo punto di vista, senza esitazione alcuna, il migliore dell'anno.
Consigliato a palla di cannone. 

giovedì 10 ottobre 2019

Rambo - Last Blood

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La mia idea di cinema di genere è che debba sempre avere una quota parte di assenza di pudore. E' un anticorpo naturale di quel cinema popolare, necessario a compensare la carenza di affetto da parte della critica colta.
E' solo così che esso può trovare il coraggio, nel 2019, di far uscire nelle sale il quinto episodio di una saga, quella di John Rambo, legata così saldamente agli anni ottanta, che nemmeno Reagan, la Milano da bere, le spalline sotto la giacca o i capelli cotonati.

Dunque, John Rambo, al termine degli eventi narrati nell'ultimo film del 2008, si è ritirato in un ranch in Arizona, dove oggi alleva cavalli assieme ad una vecchia donna ed una ragazzina (Yvette Monreal) che si intuisce essere una sorta di figlia adottiva.
Bene, questa ragazzina, ovviamente non ascoltando i consigli della donna (sua zia?) e di cotanto patrigno, decide di recarsi nei peggiori bassifondi messicani a cercare il padre che l'ha abbandonata. 
Ovviamente finirà in cattivissime mani e la sua sorte scatenerà la vendetta e la rabbia (soprattutto la rabbia) del vecchio soldato.

Chiariamolo subito, molto nel film: situazioni, dialoghi, personaggi di contorno, sembrano scritti negli anni ottanta e, quindi, fastidiosamente fuori tempo massimo, a partire dall'inutile ed irritante prologo/filler, con Stallone/Rambo eroe a cavallo dentro una tempesta.
Però, a un certo punto tutto cambia.

Succede quando John Rambo si accanisce all'arma bianca contro la sua prima vittima, uno del cartello che aveva adescato la figlia adottiva per consegnarla al cartello, colpendolo prima al torace ed infilando poi le dita nella ferita per farsi dare le informazioni richieste.
Si passa poi ad un brutale assalto a colpi di martello che fracassa teste e ossa dei malcapitati gangster con generosissimi fiotti di sangue ad imbrattare le pareti. Il tutto in previsione dell'attesa mattanza finale.

Il film resta quindi nel cinema di genere, ma vira dall'action puro ad un semi slasher violento e liberatorio (per Rambo), e così farà fino alla fine, con lo showdown tra il nostro e l'esercito del cartello messicano, che si consuma (remore forse delle tattiche vietcong contro gli americani) nei tunnel costruiti da John sotto la sua fattoria, per una lunga sequenza davvero avvincente, ipercinetica e violentissima, rigogliosamente accompagnata da Five to one dei Doors ( la canzone dal famoso verso "No one here gets out alive"), sparata da Rambo a tutto volume per confondere il nemico, in ossequio ad un'altra nota tattica di battaglia.

Insomma, Rambo Last blood chiede allo spettatore un enorme sforzo di sospensione dell'incredulità (come quando assistiamo ad un pestaggio ai danni di un settantenne che prende in cinque minuti più legnate di chiunque altro in tutta la sua esistenza e qualche giorno dopo è in piena forma), ma in cambio intrattiene e diverte, riconciliando con il franchise e senza bruciarsi nessun ponte, visto il finale subdolamente aperto.

lunedì 7 ottobre 2019

Randy Rogers Band, Hellbent

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Una quindicina d'anni di attività per il texano Randy Rogers e la sua band, al debutto sulle pagine virtuali di Bottle of smoke con il disco numero otto: Hellbent.

Con la RRB siamo nell'ambito di un country-rock sopraffino e di una formazione che, essendo insieme da sempre, fa respirare all'ascoltatore tutta la propria  grande sintonia, grazie alla quale il leader Randy può esprimersi su livelli d'eccellenza, disegnando liriche su temi che calzano il genere come un guanto (amore/abbandoni/alcol-unico-rimedio-universale), imbullonate su melodie dalla grande presa ed efficacia.
Lo si capisce subito, dalla partenza di Drinkin' money, che sulle prime mi ha riportato alla memoria lo Springsteen di brani come Better days o Lucky town, e, più in generale il country rock di quel periodo (primi novanta) fatto apposta per deflagrare dal vivo.
Provare per credere tre pezzi anthemici come I'll never get over you, Comal line e Fire in the hole, talmente trascinanti da spostare le montagne. 
D'altro canto non c'è da meravigliarsi che le composizioni di Hellbent nascano come se fossero già road tested, da sempre quella concertistica è la vocazione primaria della Randy Rogers Band, sin dal suo esordio discografico del 2010, proprio con un album dal vivo (Live at Cheatham Street Warehouse).
Ma, per fugare ogni dubbio, garantisco che la band sa anche essere estremamente emozionale, attraverso l'utilizzo quel tipo di poesia applicata alla semplicità della vita quotidiana e all'esistenza della gente comune, tipica del lato malinconico del country. 
In questo ambito Anchors away, You me and the bottle e, soprattutto, quel mezzo capolavoro che risponde al titolo di Wine in a coffee cup, potrebbero fare scuola.
Insomma, dentro Hellbent  non c'è spazio per canzoni fuori posto o filler.

Potete anche continuare ad ignorare musicisti come la Randy Rogers Band, non saprete mai quello che vi state perdendo.