Sliding doors. E se Little Steven non avesse frequentato Bruce Springsteen, conducendo la propria carriera affrancato dall'ingombrante sodale, come sarebbe cambiata la sua storia, a fronte dell'enorme talento che madre natura gli ha regalato?
Beninteso, per me, anche rispettando il corso reale della storia, il suo lavoro è comunque a livelli d'eccellenza: cinque album fino al 1999 all'insegna di un percorso musicale continuo, mai stagnante, e un songwriting sontuoso, che avercene oggigiorno in giro.
Il debutto Men without women è del 1982: nello stesso anno in cui Bruce si rinchiude tra le quattro mura introspettive di Nebraska, Steve se ne esce con un'apoteosi rock and soul, nel quale ogni pezzo è da celebrare.
Nel lustro 1984/89 il nostro è incendiato da un vigoroso impegno politico, che si traduce in un trittico di dischi dai titoli inequivocabili (Voice of America; Freedom, No comprimise e Revolution), oltre ad un progetto contro l'apartheid in Sud Africa, nei quali si scaglia contro le nefandezze del proprio paese, sia in ambito interno che, soprattutto, estero (leggi America Latina), attraverso un sound che spazia dal rock più muscolare al reggae, dal mainstream rock al funk elettronico, cogliendo anche un discreto successo con un pezzo, Bitter fruit, eseguito insieme a Ruben Blades, che si può derubricare sotto la voce pop-salsa.
Poi si ferma, Miami Steve, per una decina d'anni, e nel 1999 ritorna con Born again savage, dieci composizioni sature di (hard) rock settantiano, ultimo capitolo della sua discografia prima del ricongiungimento con Springsteen, che continua ancora oggi, solido e redditizio, in ciò che rimane della storica E Street Band.
Fin qui, brevemente, la storia del personaggio, rispetto alla quale ci sarebbe molto altro da aggiungere (un capitolo a sé meriterebbe infatti la carriera da attore), ma è bene arrivare al punto del post.
Little Steven torna, nel 2017, con un album che è la summa di tutta la sua vita artistica, un album che recupera autentiche gemme, regalate in passato ai vecchi amici Southside Johnny e Gary U.S. Bonds, in coabitazione con cover illustri e pezzi nuovi, all'insegna, al tempo stesso, di uno stile ormai consolidato e di un altrettanto acquisita imprevedibilità artistica.
Infatti, se l'inedita Soulfire, title track posta in apertura, è un gran pezzo classic rock, ruvido ed elegante, con una struttura vintage e un tiro potente, e i recuperi di Coming back (brano soul irresistibile, donato a Southside Johnny per Better days, disco strepitoso, tra gli imperdibili degli anni novanta) o I don't want to go home (altro regalo all'amico Southside, stavolta per l'album di debutto del 1976) stanno all'interno della comfort zone del chitarrista, con la torrida esecuzione di Blues is my business (standard noto per l'interpretazione che ne fece Etta James), in pieno stile Steve Ray Vaughan, così come con l'inedita ballata doo-wop/rock and roll The city weeps tonight o il raffinato esercizio di blaxpotation Down and out in New York city, siamo invece trasportati in ben altri suggestivi scenari, grazie alla magia di questo eclettico personaggio, eterno innamorato della musica.
Che dire poi di un rhythm and blues come Love on the wrong side of the town, che solo dei pazzi (o delle persone disinteressatamente generose) come lo stesso Steve e Bruce, possono decidere di non tenere per sé, ma regalare al fratello di vita Southside Johnny?
Non credo serva aggiungere altro: Soulfire è il disco emozionale di questo 2017.
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