ASCOLTI Thunder, Rip it up Gang, Calibro 77 Battle Beast, Bringer of pain Moving Hearts, Platinum collection Steel Panther, Lower the bar Marty Stewart and his Fabulus Superlatives, Way out west The Mavericks, Brand new day Mastodon, Empire of the sun Depeche Mode, Spirit Grand Magus, Hammer of the north Steve Stevens, Atomic playboys The Rece Jay Band, Enjoy the ride The Waterboys, This is the sea Pallbearer, Heartless
Playlist
Miles Davis, 1981/1991 KISS, 1975/1977 CLUB D.O.G.O.
VISIONI
The Walking Dead, 7/parte due Rectify, 4 Billions, 2 24: Legacy Sherlock, 1-3
LETTURE
Kent Haruf, Canto della pianura Bruce Springsteen, Born to run
Di norma i miei ascolti hanno due precise modalità di pescaggio: o roba nuovissima o materiale molto invecchiato. Non ho vie di mezzo. Fortuna vuole che curiosando tra gli album del 2015 mi sia invece venuta la voglia di ascoltare il disco di una band che ha significato molto per la mia formazione musicale ma che avevo abbandonato da tempo immemore. Per essere precisi, più che di un gruppo sarebbe più opportuno parlare dell'alter ego di un solo uomo, Mike Scott, visto che insieme al fido Steve Wickham, è l'unico superstite di quei Waterboys che negli anni ottanta coniarono per il loro sound il termine di big music e che regalarono al mondo quel pezzo sognante di storia musicale che risponde al nome di Fisherman blues (oltre all'altrettanto valido This is the sea e al buono Room to roam).
Quasi trent'anni e sette album dopo, i Waterboys tornano con un album che ha ancora il blues nel titolo, ma che all'epica della terra di smeraldo lascia solo qualche deliziosa suggestione.
Tuttavia, con Modern blues è ancora grande musica quella che sentiamo, a partire dalla maestosa (non c'è altro modo per definirla) apertura di Destiny entwined, un affare che metterebbe d'accordo The Band, Neil Young e Van Morrison, una composizione così pregnante da riuscire a sollevarti lo spirito tra pastose tastiere vintage e nervose elettriche che accompagnano l'inconfondibile stile vocale di Scott.
Se non bastasse a certificare il ritrovato stato di forma, i Waterboys infilano due pezzi come November tale e Still a freak che urlano a gran voce e pieno diritto il nome tutelare del Bob Dylan elettrico, per poi giocarsi la carta della delicatezza quasi pop con la sfuggente ed elegante The girl who slept for Scotland.
Insomma, Modern blues si dimostra una piccola perla che ho rischiato di non scorgere, nel marasma delle uscite strombazzate. Una perla che risplende di una luce obliqua tutta sua, e che utilizza un richiamo al quale l'esercito di noi dinosauri musicali non può che rispondere presente!
Danko Jones non molla. La band di Toronto festeggia gli oltre vent'anni di carriera (quindici discograficamente parlando) con un ottavo album che racchiude le caratteristiche ormai note del gruppo (vigore, linearità delle composizioni e refrain assassini) completando però l'opera di affrancamento dai modelli di metal anni ottanta (Motley, AC/DC, GNR), che avevano caratterizzato suoi album precedenti come Below the belt e Rock n' roll is black and blue, attraverso un'operazione di ulteriore arretramento della macchina del tempo, fino alla seconda metà dei settanta.
Fermo restando il brand di pezzi che riescono nella non semplice operazione di coniugare immediato impatto e buona longevità, il suono di Wild cat risulta subito essere più asciutto ed essenziale: basso/chitarra/batteria non si perdono in fronzoli e vanno diritto al punto richiamando appunto la stagione del primo hard rock dei settanta e band come Aerosmith, Kiss, Queen, Thin Lizzy (una clamorosa You are my woman) e perfino Hendrix, che si affaccia sulla conclusiva Revolution (but then we make love).
Il rock, inteso come argomento, e i rapporti con l'altro sesso si prendono la centralità del songwriting, ma anche qui siamo lontani dalle smargiassate misogine di qualche anno fa: la crescita della band si misura anche in questo.
Sebbene risulti evidente che non stiamo parlando di un disco che cambierà le sorti della musica, sarebbe un errore bollare Wild cat dopo un primo e magari frettoloso ascolto come "la solita roba dei Danko".
Con un pò di fiducia questo lavoro potrebbe viceversa regalare momenti di esaltante intrattenimento rock.
Non sono un fanatico dei coccodrilli (in gergo giornalistico i pezzi commemorativi), anzi, se non ricordo male nell'anno horribilis 2016 non ne ho scritto nemmeno uno. Però se mi toccava un'eccezione non poteva che essere per Charles Edward Anderson "Chuck" Berry, scomparso ieri a novant'anni suonati. Al netto delle accuse di plagio, dell'essere spregevole che sapeva essere, di come sapesse fottersene di tutto ad eccezione dei soldi, sono straconvinto che non saremmo qui a menarla ancora con il rock and roll se non fosse (per buona quota parte) per quello che ha inventato quest'uomo, che, al netto dei suoi pezzi più epocali, all'ingenuo giornalista che gli chiedeva quale fosse la canzone del suo repertorio a cui fosse più legato, rispondeva My ding a ling, il cui testo parla in maniera quasi esplicita dell'...ahemm... pistolino del cantante. Nel corso dell'anno uscirà un nuovo album, al quale Chuck aveva lavorato in questi ultimi mesi, che segue di ben trentotto anni l'ultima fatica di studio. Lo ascolteremo con l'attenzione per l'evento e la strafottenza che il personaggio richiede. Bye bye Chucky. Chucky bye bye.
Dei tanti figli bastardi della grande epoca del combat folk (e/o del celtic punk) e quindi principalmente dei Pogues, i Tossers non sono certo quelli che hanno raccolto i maggiori consensi, nonostante la band abbia emesso i suoi primordiali vagiti qualche anno prima dei più acclamati Dropkick Murphys e Floggin Molly. Il che significa che con Smash the windows il combo di Chicago si appropinqua al suo venticinquesimo anniversario e al suo nono album di studio, senza considerare quindi altri progetti (split, EP, e live recordings).
Un buon risultato, non c'è che dire. Celebrato come si deve, con whiskey, birra e irish pride che scorre a fiumi tra le diciassette tracce di un album che consolida lo stile del gruppo, derivativo finchè volete, ma con una capacità di songwriting non comune, in grado di suonare credibile oltre che dannatamente divertente.
Per buona metà della tracklist il disco è una vera e propria frustata, con una manciata di canzoni (Erin Go Bragh, Smash the windows, la strumentale Humors of Chicago, Drinkin all the day), che, immaginate dal vivo, metterebbero a dura prova la sopravvivenza di chiunque non avvezzo al pogo che è facile prevedere si scateni sotto il palco. La parte centrale dell'album rallenta ad arte le atmosfere con un trittico di ballate che fanno perno sull'enorme traditional Danny Boy, reso in maniera solenne dal leader T. Duggins e dai suoi sodali, e che preparano il terreno ad un altro furioso punk celtico dal titolo programmatico (Whiskey) e dal richiamo più forte ai padri fondatori Pogues.
La parte finale dell'album è un pò meno coesa, ma senza mai perdere la mission aziendale, fino al secondo traditional scelto dai Tossers e deputato a chiudere il lavoro, la chiamata alle armi sotto forma di ballata The foggy dew.
E' da molto tempo che un disco con queste caratteristiche non mi divertiva così.
E' uno storia piccola, marginale, per molti insignificante, quella di Lindi Ortega. Tuttavia mi ha molto colpito, forse per il modo più che realistico scelto dall'artista per raccontarla. Originaria di Toronto (da genitori messicano/irlandesi), dove si fa notare nei primi anni zero presso i circuiti indie guadagnandosi l'appellativo di "Toronto's best kept secret", dopo aver esordito con il full lenght Little Red Boots, nel 2011 prova il grande salto trasferendosi a Nashville, patria del country, il genere che la Ortega, seppur in maniera personale e indipendente, interpreta.
Qui la cantautrice comincia ad incidere una serie di album esaltati dalla critica, il primo di essi è Cigaretters and truckstops, poi è la volta di Tin star e infine, nel 2015, Faded Gloryville. I riscontri sono sempre positivi, il nome circola nei salotti buoni, i dischi ricevono diverse nomination per i grammy country, ma tutto ciò non permette a Lindi di vivere della sua arte. Questo aspetto ovviamente emerge solo oggi, grazie alla stessa artista che, nel comunicare la sua decisione di tornare in Canada, ha scelto di andare diritto al punto: “I thought I was done. Having done music since I was 16, it got to the point I couldn’t pay the rent. When you make a carton of eggs last a week, it’s time for a realization that maybe I’m done. I left my former label, management, and just sat. I wasn’t commercial. I’m not making money.”
Impossibile non tornare con la memoria all'imperdibile Nashville, di Robert Altman, che pur essendo un film di oltre quarant'anni fa, illuminava con lucidità assolutamente attuale ipocrisie e menzogne di una città che da sempre rappresenta per la musica popolare americana quello che rappresenta Hollywood per il cinema: la meta più ambita per artisti veri, sognatori e cercatori di fortuna senza talento. Nessun dubbio che Lindi Ortega appartenesse alla prima di queste categorie. Staremo a vedere come saprà rialzarsi. Dopotutto, non ha mai permesso ai suoi demoni di prendere il sopravvento.
ASCOLTI Thunder, Rip it up Gang, Calibro 77 Battle Beast, Bringer of pain Son Volt, Notes of blue Veronica Grim & The Heavy Hearts, Revelator David Bowie, The rise and fall of Ziggy Stardust Bruce Springsteen and The E Street Band, L.A. Sports Arena, California - 1988/04/23 Playlist: Eighties (AA/VV) U2 Bob Dylan Tool Van Morrison VISIONI The Walking Dead, stagione 7 / parte 2 Atlanta Rectify, stagioni 3 e 4 Billions, 2 Le regole del delitto perfetto, 3
LETTURE Kent Haruf, Benedizione Bruce Springsteen, Born to run