La sesta e conclusiva stagione dei I Soprano l'ho custodita gelosamente per anni, come un buon vino che vuoi consumare solo al momento propizio. A quel punto però restava da capire quale fosse il momento davvero propizio: cosa sarebbe mai dovuto succedere per terminare una saga che ho iniziato a seguire con la prima messa in onda italiana, nel 2001, sull'onda delle recensioni che arrivavano da oltreoceano e per la curiosità di vedere all'opera nelle (allora) inedite vesti di attore Little Steven.
Alla fine ho deciso di rompere gli indugi e chiudere il cerchio, anche perché, per una serie conclusasi ormai da nove anni, è praticamente un miracolo non essere ancora incappato in qualche spoiler. E poi, hai visto mai che dovessi lasciarci le penne improvvisamente senza essermi goduto la conclusione dei Soprano?!?
Così, a tre anni dalla visione della quinta stagione, mi sono immerso di nuovo in questo angolo di provincia americana (il New Jersey) e nelle vicende di Tony Soprano, sempre sospeso tra le difficoltà dei rapporti di subalternità con la più rilevante mafia newyorkese e la gestione di famiglia e affiliati.
La prima parte della sesta stagione (complessivamente composta da ventuno episodi, divisi però in due sezioni separate, originariamente trasmesse a circa un anno di distanza una dall'altra) procede con un ritmo estremamente lento, ma non per questo meno suggestivo. Tony resta infatti gravemente ferito da un colpo partito dalla pistola dello zio Junior, che affetto da demenza, non riconosce il nipote e gli spara scambiandolo per un avversario. Il ricovero di T. in ospedale permette a Chase e agli sceneggiatori di misurarsi con la realizzazione di episodi in gran parte onirici, nei quali assistiamo ai sogni di Tony durante il suo periodo di coma. Già nel corso delle precedenti stagioni l'aspetto onirico (e dunque psicologico) aveva sempre avuto il suo spazio, ma qui si prende interi spezzoni di puntate diventando quasi il centro della narrazione.
Sullo sfondo una storyline controversa e struggente: viene infatti sviluppato il tema dell'omosessualità del luogotenente di Tony, Vito Spatafore, da lui tenuta accuratamente nascosta.
Spatafore, una volta scoperto, per eludere la vergogna e le conseguenze che il suo orientamento sessuale comporterebbero nell'organizzazione mafiosa, fugge dal New Jersey e trova occasionalmente rifugio nel New Hampshire, dove riesce a vivere la sua condizione in maniera quasi serena. Purtroppo i sensi di colpa, l'affetto per la famiglia e la volontà di essere di nuovo accettato dai suoi sodali mafiosi lo portano a tornare sui suoi passi e così verso il proprio inevitabile destino.
La seconda parte della stagione ci mostra invece gli aspetti più meschini di Tony Soprano, quasi che gli autori volessero cancellare ogni forma di identificazione dello spettatore verso il personaggio interpretato da James Gandolfini.
T. ci viene mostrato allora al suo peggio: egoista, narcisista, spietato, egocentrico, irascibile, dissoluto, totalmente privo di empatia verso le altre persone, comprese quelle più care (come le decisioni che assume per vendicarsi dell'amico di lunga data Hesh, verso in quale era in forte debito, o addirittura verso il figlioccio Chris Multisanti, in ultima analisi considerato uno sfigato, uno iettatore, stanno a dimostrare). E poi c'è sempre la depressione, a cui la terapia con la dottoressa Melfi non sembra trovare rimedio.
Sullo sfondo di episodi nei quali, per la grande abilità degli showrunner, sembra non succedere mai niente, in un'apparente placida routine che va dalle nottate al Bada Bing ( per i curiosi qui l'origine del curioso nome) alle giornate trascorse fuori da Satriale's Pork Store, si muove invece, strisciante ma inarrestabile, anche la tensione con i vertici mafiosi ora gestiti da Phil Leotardo, un tipo che ha seri motivi di rancore nei confronti di Tony.
Il finale lascerà molti cadaveri a terra, letteralmente decimando personaggi storici della serie, oltre a introdurre un nuovo, pericoloso processo penale per il protagonista. La sequenza conclusiva, come tradizione, mostra una riunione di famiglia, ma stavolta i presenti sono solo Tony, la moglie Carmela e il viziatissimo figlio A.J. (apparentemente guarito da una depressione che l'ha anche portato a tentare il suicidio) seduti in un locale. L'altra figlia Meadow è in ritardo. La macchina da presa indugia sul particolare irrilevante, e proprio per questo allarmante, di lei che ripete più volte una manovra per parcheggiare l'auto all'esterno del ristorante. Nel locale uno sconosciuto osserva compiaciuto la famiglia Soprano. Sembrano le classiche situazioni che precedono eventi tragici. La figlia entra di corsa nel locale, lo schermo diventa nero per diversi secondi e poi partono i titoli di coda. Un finale subdolamente aperto, micidiale e coraggioso, che lasciava la porta aperta a qualunque interpretazione dello spettatore e, chi lo sa, magari nelle intenzioni degli autori, anche ad un sequel (per un po' si è parlato di un film), prima che l'improvvisa morte di James Gandolfini mettesse fine ad ogni speculazione in merito.
A David Chase, autore, sceneggiatore e occasionalmente regista della serie, andrebbe eretto un monumento per il concepimento e la realizzazione di questa enorme saga che ha influenzato in maniera incisiva la cultura (e non mi riferisco solo a quella pop) americana. The Sopranos è stata tra le primissime serie televisive moderne, adulte, di qualità, con niente da invidiare a molto cinema, ad essere prodotta e ancora oggi è un punto di riferimento per molteplici produzioni televisive. La figura tragica, tremenda e contraddittoria di Tony Soprano, la cui immagine in boxer, canottiera e accappatoio di spugna bianco intento a scrutare nel frigo per cercare qualcosa che soddisfi il suo pantagruelico appetito è ormai entrata nella leggenda, così come alcune sequenze, modi di dire e atteggiamenti, irrimediabilmente bollati come: "alla soprano".
I Soprano doveva finire prima di perdere spessore e credibilità, ed è stata chiusa al momento giusto con una final season praticamente perfetta, ma ciò non toglie un grammo alla tristezza e alla nostalgia che si prova per la perdita. Anche e soprattutto per il destino amaro e maledetto che si è portato via James Gandolfini.
Capolavoro assoluto.
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