Se provate a chiedere a dieci metallari quali siano i loro dischi preferiti del 2014, sarete fortunati se nelle diverse liste troverete due-tre titoli in comune. Questo perchè il metal, più che qualunque altro genere, possiede una forte componente soggettiva, nella quale percezione e sensibilità dell'ascoltatore spesso prevalgono sul (presunto o reale) valore oggettivo dell'opera. Caratteristica questa che si sposa frequentemente con la ricerca spasmodica da parte dei cosiddetti metalheads dei fenomeni underground più reconditi, da custodire gelosamente come una reliquia o, all'opposto, da esibire come un vanto personale.
Ecco, partiamo proprio da questo aspetto per recensire Sound of the beast di Ian Christie, visto che lo scrittore svizzero usa il fenomeno dei tape traders come perno centrale della narrazione, ricordando come già dalla fine dei settanta eserciti di ragazzi di mezzo mondo alimentavano un sottobosco culturale estremamente ramificato attraverso il frenetico scambio di cassette duplicate, costituendo così, inconsapevolmente, le fondamenta per l'esplosione della musica metal e forgiando il tratto distintivo e fortemente identitario dell'essere metal kid. Infatti, non solo gli adolescenti potevano ascoltare musica che faceva inorridire i propri genitori, ma questa musica era anche celata ai più e, almeno fino all'emersione pubblica delle band (dinamica che non sempre si verificava), introvabile nei negozi di dischi. In pratica un eccitante linguaggio segreto patrimonio di una tribù variegata e trasversale.
Gli artisti e le formazioni citate da Christie sono innumerevoli, ma un ruolo centrale nella sua visione d'insieme lo rivestono Black Sabbath prima e Metallica poi. Al gruppo di Lars Ulrich, dagli esordi all'imborghesimento, è concesso lo spazio più ampio del libro e qualche indulgenza di troppo relativamente al periodo successivo alla pubblicazione del black album.
Nelle quattrocento pagine che compongono l'opera c'è spazio per tutte le tappe cruciali di questo genere musicale, dai suoi inizi fino all'alba del nuovo secolo. Lo start up dall'Inghilterra con Sabbath prima e NWOBHM poi, lo sbarco negli USA, le fanzine, le prime compilation, il ruolo di MTV, la bigotta offensiva del Parent's Music Resource Center (PMRC), l'espansione mondiale del metal, i dischi di platino, le formazioni metal provenienti praticamente dall'intero pianeta.
Più di tutto emerge chiara la mission dell'heavy metal: suonare più forte, più veloce, più aggressivo, più tecnico, più oltraggioso, più blasfemo, più esplicito, più offensivo di qualunque altra musica esistente. Per fare questo, nel corso degli anni, migliaia di bands (composte spesso da giovanissimi: si pensi ad esempio ai Possessed o ai Death Angel che hanno realizzato pietre miliari del movimento alternando l'attività musicale alla frequentazione del liceo) hanno caricato strumenti e, idealmente, aspirazioni dentro un furgone scassato per raggiungere i posti dove, in quel preciso momento, se si suonava un determinato sottogenere, bisognava stare: la Bay Area di San Francisco per il thrash, la Florida per il death, Hollywood per il glam, Seattle per il grunge o ancora la Norvegia per il black, la Svezia per il melodic death o la Germania per lo speed.
Gli effetti causati dall'ascolto del metal, ovviamente contestualizzati ai costumi delle diverse epoche, non erano così dissimili da quelli che si erano registrati negli anni precedenti con l'avvento di be-bop, blues elettrico e rock and roll. Tutti questi generi avevano una tremenda, scatenante forza innovativa rispetto alla quale l'audience spesso perdeva i freni inibitori. Solo che al posto di isteria, balli convulsivi e movenze provocanti, il pubblico heavy-metal celebra il proprio coinvolgimento attraverso spettacolari esibizioni di stage diving, headbangin' o mosh pit. E ancora, come la musica metal, anche i precedenti generi di rottura dovettero affrontare le reazioni di una società impreparata, chiusa e bigotta che temeva che Charlie Parker, Elvis o Muddy Waters portassero alla dannazione le anime dei propri figli.
Chistie si sofferma anche su questi aspetti, sulle "persecuzioni" (termine che uso nella sua accezione più elastica) dei metallari, che in alcuni momenti e non solo nei paesi in cui erano presenti dittature religiose o politiche, hanno dovuto affrontare le conseguenze di quella che a conti fatti era solo una passione musicale, trovandosi spesso emarginati nei piccoli centri di periferia, obbligati a trattamenti sanitari in istituti psichiatrici e, in alcuni casi, coinvolti di agghiaccianti ingiustizie (il celebre caso dei tre di West Memphis).
Il libro è infine arricchito da numerose schede contenenti i titoli dei migliori album divisi per sotto genere e, come chiosa, dei migliori venticinque album in assoluto (ovviamente secondo il giudizio dell'autore).
Avendo vissuto, seppure in fasi alterne, l'epoca d'oro del metal ho sviluppato abbastanza giudizio critico per non condividere in toto le considerazione espresse da Ian Christie all'interno della narrazione. Al contrario, in più di un'occasione mi sono trovato a dissentire su come venivano illustrati alcuni argomenti (un esempio su tutti il trattamento riservato al glam, liquidato sostanzialmente come stile untrue). Nonostante ciò riconosco il valore dell'opera, una delle poche (almeno tra quelle disponibili in italiano) ad offrire una panoramica ampia e documentale di una scena che continua a rappresentare, anche e soprattutto dal punto di vista delle vendite, una componente essenziale della musica rock.
Se proprio vogliamo, il limite di Sound of the beast sta nei dieci anni trascorsi dalla sua pubblicazione, elemento questo che impedisce al libro di analizzare accuratamente il fenomeno dell'esplosione di internet, del file sharing (solo accennato per la controversia Metallica - Napster) e dei numerosi spazi che il web dedica all'heavy metal.
Ecco, un'appendice all'opera sarebbe quanto mai opportuna e gradita.