ASCOLTI
Pilgrim II, Void worship
Slash, World on fire
U2, Songs of innocence
Imelda May, Tribal
John Mellencamp, Plain spoken
Paul Rodgers, The royal sessions
Ryan Adams, self titled
Billy Joe Shaver, Long in the tooth
The Gaslight Anthem, Get hurt
Old Crow Medicine Show, Remedy
Lionel Richie, Tuskegee
Old 97's, Most messed up
Lake Street Dive, Bad self portraits
MONOGRAFIE/DISCOGRAFIE PARZIALI
Van Halen, Lee Roth era/Hagar era
Rush, Moving pictures / Signals
Motorhead, 1990/2013
Thunder, 1995/2008
SERIAL
Sons of Anarchy, final season
Mad Men, stagione 2
LETTURE
Davis Stephen, Il martello degli dei. La saga dei Led Zeppelin
lunedì 29 settembre 2014
sabato 27 settembre 2014
Chronicles 40
C'ho messo 46 anni, ma alla fine è successo: mi sono fatto ciulare il portafogli. Probabilmente ho facilitato il lavoro dello spettabile disonesto dimenticandolo sul bancone di un bar, non riesco a ricordare. So che un momento prima ce l'avevo e quello dopo...puf! sparito. Il misfatto è accaduto a Roma, dove, a seguito della recente elezione ad una carica regionale del sindacato, mi devo recare più spesso. Fatto sta che questo evento, come potete immaginare, ha comportato una rottura di coglioni epocale che a saperlo avrei consegnato spontaneamente i miseri trenta euro custoditi nel portafogli in cambio di tutti i miei documenti. Infatti nei giorni successivi il misfatto sono stato impegnato in un tour che ha toccato: uffici di polizia (denuncia furto/smarrimento e sostitutivo patente); banca (bancomat), poste (poste pay); ASL (tessera sanitaria) e Comune (carta d'identità). Per fortuna hanno inventato i biglietti elettronici, per cui basta un codice sul telefonino per salire sul Frecciarossa, altrimenti sarei dovuto tornare dalla Capitale in autostop. Anche quello sarebbe stato un inedito (almeno su distanze così impegnative) arrivato poco prima della mezza età. Se questo è l'inizio del mio quarantaseiesimo anno di vita, sono vagamente preoccupato di scoprire il resto.
giovedì 25 settembre 2014
Io, Stefano e i One Direction 2/2
Nell'arco della mia vita ho assistito ad un discreto numero di concerti, ma posso tranquillamente affermare di non aver mai sentito un boato dell'assordante intensità di quello che il pubblico di San Siro tributa ai One Direction. Non esagero, una roba che fa tremare lo stadio fino alle sue vecchie fondamenta.
Anticipati dagli anonimi (veri) musicisti che prendono posto nella parte tradizionale del palco, Niall, Zayn, Liam, Harry e Louis (visto? mi sono documentato...) fanno il loro ingresso on stage e subito gratificano la folla con Midnight memories, il cui refrain è supportato da cinquantamila voci gaudenti. I ragazzi si piazzano lungo la passerella centrale e lì resteranno per tutto il concerto, dandosi a turno il cambio all'estremità di essa per eseguire ognuno la propria canzone, mentre gli altri attendono (talvolta un po' annoiati, devo dire) su una panchina posta all'inizio della lingua di palco. E' noto che gli show di Milano verranno immortalati su di un apposito dvd (in uscita a Natale) e quindi ogni atteggiamento dei cantanti appare ancora meno spontaneo di quanto non lo sia già normalmente. Per l'intera esibizione è tutto un invitare la folla al botta e risposta, un elogiare i fan italiani e un proclamare l'emozione di trovarsi nella Scala del calcio. Parti integranti dello spettacolo anche gli immancabili selfie e l'utilizzo di twitter, piattaforma attraverso la quale la boy band risponde ad una manciata di domande inviate al loro profilo dai fans di mezzo mondo. In un'ipotetica classifica dei più sovraesposti la parte del leone mi sembra la facciano Liam, Harry e Liam, con gli altri due un po' più sacrificati.
Scorre la setlist, e, benché permanga forte la sensazione di trovarsi dentro un talent show più che ad un concerto, su qualche pezzo, come Kiss you, Live while you're Young - la mia preferita - , C'mon c'mon, Diana , nemmeno io mi sottraggo al singalong (lo so, vi sarebbe piaciuto vedermi). Tra un effetto speciale e un gioco di luci, con What makes you beautiful si chiude lo show, in attesa dei bis, che, sotto un gradevole drizzle molto english, si aprono con You and I. E' poi il turno di Story of my life, che sarebbe anche un brano piacevole, se il titolo non mi riportasse all'omonimo pezzo dei Social Distortion e, che te lo dico a fare, con Mike Ness che ti rimbomba nella testa finisce ogni suggestione pop. Con Best song ever siamo ai saluti con tanto di coriandoli e stelle filanti.
Stefano, dopo un inizio concerto che l'aveva reso malmostoso (ancora oggi non ne ho capito il motivo) è stato progressivamente sempre più coinvolto dallo show, al punto dal voler rimanere fino all'ultimo, nonostante la pioggia. Fuori dallo stadio la sua eccitazione è al massimo, e, come gli accade in questi casi, parla a manetta, rovesciandomi addosso impaziente domande e riflessioni a rullo. Lungo la strada antistante il piazzale dello stadio è interminabile la fila dei genitori in piedi accanto alle auto parcheggiate sul marciapiede con le quattro frecce accese, che attendono il ritorno dei figli impegnati (immagino) nella prima libera uscita della loro giovane vita.
Ripensando al concerto, mi rendo conto che non ci sono state grosse sorprese rispetto a come me l'ero figurato. L'esibizione in se stessa mi ha lasciato proprio pochino, ma l'entusiasmo dei ragazzini, beh, quello è stato veramente contagioso e mi ha trasmesso vibrazioni positive, genuine. Penso che un giro da queste parti avrebbe fatto bene anche a tanti dinosauri musicali un po' snob che ormai la sanno tutta ancora prima che gliela racconti e che non vogliono avvedersi di come i giovanissimi fans delle pop star moderne potrebbero diventare i sostenitori di ben altra musica domani. D'altro canto, anche per molti di noi la curva di apprendimento è iniziata con una qualche passione che probabilmente oggi ci vergogniamo un po' a tirare fuori dagli armadi.
In fondo, per vedere gli AC/DC c'è sempre tempo.
lunedì 22 settembre 2014
U2, Songs of innocence
La premessa potrebbe durare poche righe o dieci cartelle, ma il concetto di base è semplice. Per quale ragione un gruppo (che è stato) seminale come gli U2 si ostina a voler continuare a proporre nuova musica, quando è evidente come, da quindici anni almeno (dico io, che salvo la loro produzione fino a All you can't leave behind compreso), non ne azzecca una che sia una?
Non rispondete strofinando pollice ed indice a suggerire l'attaccamento al vil denaro: a parte lo stato di milionaria agiatezza già raggiunto, basterebbe un tour mondiale ogni tre anni, anche in assenza di materiale nuovo, anzi proprio per l'assenza della zavorra di materiale nuovo, per sistemare le quindicesime generazioni a venire di Bono e soci.
Anche perchè ormai di dischi se ne vendono talmente pochi che non rappresentano più la primaria fonte di guadagno di un artista, giusto? Sì, cioè no.
Perchè proprio qui sta la genialata dei quattro: cedere i diritti del nuovo disco per una cifra abnorme (ho letto cento milioni di dollari ma non avevo voglia di sbattermi per cercare conferme) alla Apple, la quale a sua volta lo regala, inserendolo nella famigerata libreria itunes, ai propri utenti. Risultato economico, mediatico e di penetrazione del mercato raggiunti (si parla di quasi quaranta milioni di ascoltatori), ma rapporto con vecchi fans e puristi in picchiata verticale (rischio calcolato: sono la netta minoranza).
Bene. Ma...la musica? Ho voluto evitare la superficialità dei molti che hanno criticato il nuovo album di Springsteen senza nemmeno averlo ascoltato un paio di volte, e pertanto nell'ultima settimana ho messo in buona rotazione Songs of innocence, ricavandone un'impressione sì di mediocrità e futilità artistica unita ad arrangiamenti spesso ridondanti e incomprensibili, ma anche qualche spiraglio di luce. Ci sono sprazzi di cose buone in Every breaking wave che purtroppo si perdono nell'onnipresente e irritante falsetto di Bono, così come in Iris il cuore sobbalza nel sentire quel pattern di chitarra di The Edge, ma anche qui, quando sembra che abbiano azzeccato una melodia ci pensano quei dannati coretti uh-uuh a farti cambiare idea. Il meglio sta nella coda, con l'old style di Raised by wolfes (sull'IRA e il conflitto in Irlanda del Nord),una Cedarwood road che rimanda all' hard rock dei settanta, l'elegante l'elettronica di Sleep like a baby tonight (a ricordarci la produzione di Danger Mouse) e l'inevitabile slow finale The troubles, eseguita da Bono in duetto con Lykke li.
In conclusione, se si trattasse davvero di un vecchio ed anonimo ellepì, come la spartana scelta della cover suggerisce, esprimerei due voti distinti per ognuna facciata: decisamente insufficiente la prima, più compiuta la seconda.
Insomma, non siamo dalle parti dell'attesa resurrezione musicale, ma forse il becchino ha smesso, per un attimo, di piantare chiodi sulla cassa degli U2.
giovedì 18 settembre 2014
Io, Stefano e i One Direction (1/2)
All'inizio dovevamo vedere gli AC/DC. Non lo dico per giustificarmi, non mi vergogno per niente di aver assistito al concerto dei One Direction con mio figlio. Anzi, sono più che felice di aver condiviso insieme a lui questa sua prima volta. Ma, sul serio, qualche mese fa, quando si era sparsa la voce di un nuovo tour mondiale degli australiani, avevamo pattuito di andare a vederli (Stefano adora Thunderstruck e You shook me all night long) qualora fossero passati dalle nostre parti. Il rumor si è poi rivelato non veritiero (per dirla tutta, dopo la notizia del tour è circolata la voce di segno opposto di uno scioglimento della band a causa di una grave malattia che ha colpito Malcom Young) ma tanto è bastato per farci assumere l'impegno di assistere asap (as soon as possible) al primo concerto che riscontrasse anche solo un poco del nostro interesse.
Ora, i One Direction non sono esattamente i cantanti preferiti da Stefano ("piacciono alle ragazze" la solida motivazione portata al dibattito), ma immagino che oggigiorno siano un po' la tassa da pagare per i teen ager che attenzionano la musica.
Semplice curiosità o interesse vero, qualunque possa essere stato l'elemento che ha fatto scattare la molla, l'adesione di mio figlio alla proposta di tornare a San Siro, stavolta per assistere ad un evento musicale e non ad una partita di calcio, è stata immediata. Io, con la sicumera del matusa, non mi sono preoccupato di recuperare in anticipo i biglietti, nella convinzione che il gruppo terzo classificato all'X-Factor britannico del 2010 non riuscisse a riempire due serate alla scala del calcio. Ebbene, questo errore di valutazione ha rischiato seriamente di rendermi artefice di una cocente delusione ai danni del ragazzo.
Infatti, nonostante l'anticipo di due ore con il quale arriviamo allo stadio il 29 giugno, le mie certezze sulla facilità di trovare i tagliandi vacillano. Laddove, quando c'è disponibilità di tagliandi i bagarini ti fanno la posta già ad un paio di chilometri da piazzale Lotto, ci troviamo invece a camminare tranquillamente fino ai cancelli senza che nessuno si proponga. Al contrario, pullula di persone che agitano il cartello "compro". L'apprensione che aveva cominciato a prendermi lo stomaco si trasforma ora interrore puro. Nonostante gocce di sudore freddo mi imperlino la fronte faccio finta di niente per non allarmare Stefano, ma ovviamente penso che il premio di peggior papà del mondo non me lo toglierebbe nessuno se l'avessi pompato per l'evento per poi farlo tornare a casa con le pive nel sacco.
Finalmente, dopo interminabili minuti di tremenda angoscia, veniamo avvicinati da un buon samaritano che ci propone un prato a cinquanta euro (il prezzo originario è di trenta). Sollevato, inizio l'inevitabile trattativa e quando troviamo una possibile mediazione intorno ai quaranta accade l'imprevisto: arriva la Guardia di Finanza e comincia a sequestrare i biglietti ad un gruppo di bagarini complici amici di quello con il quale sto mercanteggiando. Il tizio si allontana di soppiatto lasciandomi il corpo del reato (i biglietti) tra e mani, intimandomi con lo sguardo e il movimento all'insù del mento di seguirlo per effettuare il pagamento in luogo sicuro. Così, qualche decina di metri più avanti, sgancio, con una disinvoltura modello Bodie in The Wire, quattro banconote da venti ad un altro del giro che fa segno al mio che è tutto okay. Si può entrare.
Già all'esterno dello stadio si sentiva distintamente, ma una volta dentro l'effetto diventa un onda in piena. L'entusiasmo del pubblico è incontenibile. Sul palco c'è la band di supporto e i ragazzini che affollano spalti e prato si scatenano sostenendoli a pieni polmoni. Il gruppo è quello dei 5 Seconds of Summer, combo australiano di pop punk per teen agers che, a quanto pare, sta facendo sfracelli con il suo disco di debutto. Perlomeno, a differenza dei 1D, appaiono come una vera band: suonano i loro strumenti (due chitarre basso e batteria) e propongono uno show più assimilabile ai concerti ai quali sono abituato piuttosto che ad uno show televisivo (ambito nel quale invece, come vedremo, si muovono gli headliner).
Il palco è qualcosa di enorme. Occupa due terzi in lunghezza del campo da gioco, ad ogni lato ha degli schermi grandi anch'essi come palchi e al centro una passerella che arriva quasi alle tribune opposte. I 5SOS si destreggiano bene (cosa non difficile, vista la predisposizione dell'audience) e toccano l'apice dell'eccitazione collettiva con il singolo Don't stop piazzato a metà esibizione.
Al termine della loro gig spiego a Stefano che ci vorrà una mezzoretta buona perché attacchino i One Direction, per cui ci mettiamo a girare un po' per ammazzare l'attesa. Tra l'altro nel prato spazio ce n'è abbastanza, visto che il pubblico è tutto ammassato sotto palco e passerella. Attorno a noi, come prevedibile, molte ragazzine in età da scuola media accompagnate da genitori con atteggiamenti che attraversano tutta la gamma delle emozioni, dall'annoiato al partecipe, dall'imbarazzato al divertito. Di rigore il sorriso di complicità scambiato con una mamma che sfoggia una maglietta dei Sex Pistols quando le cade lo sguardo sulla mia dei Pantera.
Mentre i megaschermi ai lati del palco mandano le hit del momento (per dire dell'incontenibile eccitazione dei presenti, anche i video vengono accompagnati da robusti singalong) ci concediamo un'occhiata al merchandising e l'acquisto di una t-shirt dei One Direction che dura addosso a Stefano il tempo di scattare la foto qui sotto, visto il suo ripensamento sul portare in giro sti cinque faccioni che genera la richiesta (esaudita dalla gentile commessa) di scambiarla con una nera riportante il logo dei 5 Seconds, molto più rock style. Un paio di gelati più tardi arriva il momento tanto agognato dai presenti. S'interrompe la musica in diffusione, si spengono le luci e s'illumina lo stage. I cinque One Direction stanno per salire sul palco.
continua...
lunedì 15 settembre 2014
Orange is the new black, season 1 e 2
Piper Eressea Kerman nasce in una famiglia benestante di Boston con genitori e parenti avvocati, medici ed insegnanti. A 24 anni inizia una relazione sentimentale con una trafficante di droga durante la quale si presta a trasportare e "lavare" soldi sporchi. Diversi anni dopo, a relazione sentimentale e attività criminale interrotta, è scoperta dall'F.B.I. ma, in relazione all'occasionalità delle sue attività illegali, del suo rango, della sua fedina penale pulita e della piena confessione resa, viene condannata a soli quindici mesi di reclusione in un carcere di minima sicurezza. Questa esperienza la porterà a scrivere un libro di memorie che la rete web netflix ha portato in tv attraverso una serie già dipanata in due stagioni.
La season one è quella più riuscita e conforme alla storia originale. Con un tono che va dal leggero al drammatico (riassunto bene dal termine anglosassone dramady: drama/comedy) assistiamo agli ultimi momenti di Piper Chapman (Taylor Schilling) con il fidanzato Larry (Jason Biggs) prima dell'ingresso nel carcere femminile di Litchfield. La narrazione fa perno sulla situazione della protagonista, una viziata w.a.s.p., tra disavventure e flashback, ma trova ulteriori elementi di forza nelle storie delle altre detenute, quasi tutte appartenenti a classi sociali più povere (molte nere e ispaniche, qualche bifolca del sud), nel personale della prigione e nella sagoma iperbolizzata della donna in carriera rappresentata dalla direttrice Figueroa. Linguaggio e dialoghi sono estremamente espliciti così come alcune scene, al livello di lesbo soft porno. Il divertimento è comunque assicurato da battute micidiali e situazioni paradossali, anche se, verso la fine della stagione, a prevalere è il tono più drammatico del progetto, fino all'apoteosi del cliffhanger della final season.
La seconda stagione si allontana dal soggetto originale e si vede. Innanzitutto la narrazione è molto meno piper-centrica, poi alcuni sviluppi risultano poco credibili (come la tresca tra Larry e Polly, migliore amica di Piper) ed infine il personaggio di Alex (la conturbante Laura Prepon) esce dalla storyline principale. Subentrano invece la scaltra e manipolatrice Vee e l'ingenua giappo-scozzese Soso. Gli highlights della stagione si registrano a mio avviso con alcuni flashback dedicati alla vita precedente alla detenzione di alcune inmates. In particolare vengono finalmente svelate le storie della Morello e del suo "promesso sposo" Christopher e di Mrs Rosa, alla quale è dedicata un'uscita di scena (?) spettacolare. Una vera e propria metamorfosi è quella che spetta invece all'ufficiale amministrativo Joe Caputo, che scopriamo bassista di una band, e che si prende una bella (effimera?) rivincita su quella stronza della Figueroa.
Orange is the new black si è indubbiamente ritagliato il suo spazio nella fitta concorrenza dei serial americani, tutto sta a capire se la terza stagione (già confermata) tornerà ai fasti della prima o s'incaglierà come, a tratti ha fatto la seconda, in alcune secche di sceneggiatura.
lunedì 8 settembre 2014
John Mellencamp, Live at Town Hall - July 31, 2003
Che John Mellencamp non sia un tipo facile è ormai ampiamente assodato. Non per niente gli avevano appioppato il soprannome di Little Bastard. Orgoglioso, irascibile , dannatamente testardo, ha applicato i suoi tratti caratteriali anche alla gestione della sua carriera, andando ostinatamente sempre, e a prescindere, nella direzione artistica che si era prefissato. Questa determinazione, se nella vita privata gli ha provocato più di un conflitto, in quella discografica gli ha permesso, dal 1982, anno della release di American Fool, ad oggi, di pubblicare musica che non è mai uscita dal range che va dal buono allo straordinario e di girare il mondo in lungo e in largo per proporla dal vivo (evitiamo di tornare sulla parziale delusione dell'unica data italiana, arrivata solo tre anni fa e recensita qui e qui ). Per questa ragione l'assenza dalla sua discografia di un live ufficiale (diversamente dai bootleg, prodotti a bizzeffe) mi è sempre apparsa un'inspiegabile anomalia nella carriera di uno che è nell'ambiente da quasi quarant'anni.
Alla fine quel live tanto atteso è arrivato, ma per quanti si aspettavano una mastodontica operazione antologica sullo stile di Springsteen e dei suoi cinque LP (o tre CD) di Live 1975/85, è arrivata l'ennesima lezione dell'ex coguaro: Live at Town Hall propone per undici canzoni, sulle quindici complessive, la tracklist di Trouble no more, l'album del 2003 nel quale John aveva espresso una forte denuncia politica contro l'amministrazione Bush attraverso vecchie canzoni folk-blues riarrangiate con il suo inconfondibile stile roots fatto di fisarmonica, violino e (in questo caso) slide-guitar. Un disco coraggioso e intenso, ma non certo il suo più venduto. Laddove le vecchie rockstar tronfie suonano per intero i loro lavori storici per grattare un pò di popolarità e riportare i fans ai concerti, il Piccolo Bastardo, ancora una volta, ha deciso dunque di nuotare controcorrente.
La delusione che di primo acchito può aver pervaso i fans per l'impopolare decisione di escludere in pratica tutti i classici (gli unici presenti in scaletta sono Pink houses, Paper in fire e Smalltown ) è subito superata dall'eccezionale qualità di queste incisioni, con la band che riesce a ricreare un'atmosfera densa e pregnante e Mellencamp che offre interpretazioni appassionate ed evocative. La partenza ricalca l'incipit di Trouble no more: Stones in my passway di Robert Johnson e Death letter di Son House, poi però la scaletta assume un ordine diverso, emozionando con To Washington, indignando per le sopraffazioni cantate in Joliet Bound, piegando dolcemente sulle curve della memoria con Highway 61 di Dylan e con il tradizional John the revelator, fino ad una Small town rallentata ed intensa, durante la quale JM si diverte a modificare qualche strofa ("mia moglie aveva tredici anni quando ho scritto questa canzone / adesso è small town proprio come me"), e via fino ai saluti sull'immancabile Pink houses.
A sessantatre anni da compiere tra qualche settimana, con un ruolo da custode e diffusore della old time music americana che nessuno può negargli (in caso contrario si faccia un giro sul sopra citato Trouble no more o sul più recente, strepitoso, No better than this ) e a ridosso dell'uscita del suo ventesimo album in studio (Plain spoken), John Mellencamp ha messo a segno un altro dei suoi colpi. E se qualcuno la pensa in modo diverso può farsi fottere. O almeno così, ne sono certo, risponderebbe Little Bastard.
venerdì 5 settembre 2014
martedì 2 settembre 2014
Donato Carrisi, Il suggeritore
Nel genere letterario del noir il filone dei serial killer è da tempo abbandonato dagli autori più importanti (che di norma l'hanno usato come fase di transizione per arrivare a temi più sviluppati) e, pur essendo una vena che continua a riscuotere vasto interesse, è ormai relegato ad una sorta di limbo o di seconda fascia che si rivolge esclusivamente ad un pubblico di affezionati, fidelizzato anch'esso alla serialità delle uscite dei personaggi creati dai vari Deaver, Cornwell, Reichs e compagnia bella.
Gli italiani che si sono misurati con il genere non si sono mai del tutto scrollati di dosso gli schemi narrativi dei maestri americani peccando spesso di poca originalità, per questo ho sempre guardato con sospetto l'enfasi dietro le loro (poche) opere di successo.
Ecco perchè, sebbene appassionato di thriller/noir, nel 2009 non mi sono scapizzato a leggere Il suggeritore, opera prima di Donato Carrisi molto apprezzata dalla critica e venduta in più di un milione di copie, con i diritti acquistati da mezzo mondo e in attesa di trasposizione cinematografica negli USA.
L'ho fatto solo qualche settimana fa approfittando di un week-end in montagna, nella consapevolezza che l'unico modo di riprendere la lettura sarebbe stato quello di dedicarmi ad un titolo che mi inchiodasse. Proposito raggiunto, visto che ho divorato le oltre quattrocento pagine del libro in meno di tre giorni.
Merito di opera che nasce da uno spunto interessante (la sparizione di sei bambine) ma facile da buttare nel cesso in mano ad uno scrittore che avesse puntato tutto su di un forte impatto iniziale ma con poca originalità nel gestirlo. Carrisi invece, seppur con qualche passaggio nel quale chiede un faticoso supplemento di sospensione dell'incredulità al lettore, costruisce un meccanismo ad orologeria strepitoso, nel quale i progressi compiuti dalla squadra di investigatori marciano di pari passo con lo schema architettato dal subdolo criminale, per arrivare ad una serie di colpi di scena finali che sfido anche il più sgamato dei lettori ad anticipare o prevedere.
Certo, parliamo di un romanzo d'evasione, ma scritto con tutti i crismi, la competenza e il taglio cinematografico (non a caso Carrisi si è occupato di anche sceneggiature) che si richiede ad opere di questa natura. Consigliato.
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