All'età di quindici anni pensavo di avere perfettamente chiaro ciò di cui avevo bisogno: qualche soldo in più in tasca, un aspetto migliore, una ragazza e maggior talento nel giocare a calcio. Ignoravo però che da quella lista mancasse un ulteriore elemento. Una componente di cui non avvertivo consapevolmente l'assenza ma il cui ingombro albergava in me come un agente segreto dormiente, in paziente attesa di essere attivato.
L' elemento mancante era la musica e in particolare quell'enorme bacino nel quale confluiscono a dozzine tutti i generi e gli stili riassunti per semplicità sotto il termine rock. Ci sono diversi modi per essere iniziato a questa particolare forma d'arte: qualcuno l'ha approcciata attraverso i dischi dei fratelli maggiori, altri dalle amicizie giuste, qualcuno (pochi all'epoca, molti di più oggi) dai genitori.
Per me l'occasione si è presentata inaspettatamente una sera d'autunno, in un ottimo cinema di periferia, che per quella proiezione era praticamente deserto. La persona presente con me alla visione mi confidò in seguito che gli altri due spettatori paganti oltre a noi erano niente di meno che Edoardo Bennato e il suo manager. Non ho mai saputo se questa informazione rispondesse o meno a verità, ma ricordo bene come, in seguito, lessi un'intervista nella quale l'artista napoletano citava Strade di fuoco come uno dei suoi film preferiti di sempre.
Dietro la macchina da presa della pellicola c'era un Walter Hill nel pieno della cresta dell'onda, reduce com'era dal successo di Driver l'imprendibile, I guerrieri della notte e 48 ore, senza dimenticare il ruolo da produttore per Alien. Il sottotitolo del film era A rock and roll fable e questa è a tutti gli effetti la migliore sinossi possibile. In una città ed un'epoca di fantasia (se diciamo una Chicago alternativa ferma agli anni cinquanta ci andiamo vicino) c 'è la principessa/rockstar in pericolo (Diane Lane); l'eroe ribelle e tenebroso (Michael Parè); il cupo villain (Willem Dafoe) e l'imbranato buono di cuore (Rick Moranis), tutti characters interpretati da giovani attori alle prime apparizioni, ma che in seguito (chi più chi meno), nonostante il flop della pellicola, avrebbero fatto la loro bella carriera hollywoodiana.
Spesso di discute del valore delle prime volte, e di come, sia che si parli di sesso che di eroina, per il resto della vita si cerchi di ritrovare quelle sensazioni potentissime e sconquassanti, riuscendo ahimè raramente nell'intento. Ecco, dentro il mio bisogno quotidiano, compulsivo, fisico di ascoltare in continuazione musica, abbeverandomi dalla fonte di chitarra, basso, batteria (e banjo) c'è molto dell' imprinting ricevuto quella sera di trent'anni fa, quando, non appena le luci del cinema si sono spente, davanti alle immagini di una città avvolta dalla pioggia e dall'oscurità, sono partite le note di Nowhere fast.
Nowhere fast è un bigino di come si può costruire un pezzo rock giovanilista. Il mood è quello del rock/rhythm and blues, le liriche sfacciatamente generazionali come tante ne sono state scritte prima, soprattutto nei sessanta (pensate a We gotta get out of this place degli Animals), sul tema del giovane emarginato che fugge da una realtà alienante (There's nothing wrong with goin nowhere baby / But we should be goin' nowhere fast), il pattern è costruito su un drumming puntuale e potente (scoprirò leggendo le note dell'ellepì che il batterista dei Fire Inc, gruppo di session men assemblato per l'occasione, era Max Weinberg della E Street Band di Springsteen: un segno del destino!) a cui fa da contrappasso un tappeto di tastiere vagamente honky tonk. Sullo schermo un'incantevole Diane Lane strizzata in un vestitino di raso rosso e guanti neri lunghi fino ai gomiti, cantava in playback sulle voci registrate di Holly Sherwood e Laurie Sargent. Un connubio che oggi troverei banale e un po' maschilista, quello tra rock, fatalone indifese, Harley Davidson cavalcate da motocilisti in tute di pelle nera ed eroi in impermeabile armati di fucile a canne mozze, ma che all'epoca fece non pochi danni al mio immaginario già abbondantemente compromesso da fumetti e fantasie assortite.
Per la verità già prima di quella fatidica sera avevo capito che qualcosa di meraviglioso, e sì, eccitante, si nascondeva tra le note e nell'immagine del rock. Ricordo che da bambino avevo provato vibrazioni inedite ed inebrianti mentre osservavo Elvis Presley cantare Jailhouse rock nella celebre coreografia inserita nel film Il delinquente del rock and roll. Era stato un attimo, un flash improvviso che pure mi aveva lasciato una fastidiosa sensazione di incompiutezza, un prurito mentale, come quando hai l'impressione di trascurare qualcosa di importante ma proprio non riesci a metterlo a fuoco.
Quella sera al cinema, finalmente, l'imene che mi impediva di godere appieno della meraviglia musicale venne definitivamente lacerato, aprendomi un mondo che, nel bene e nel male, avrebbe cambiato l'ordine della priorità dei miei interessi per gli anni a venire.
La colonna sonora di Streets of fire era curata da Ry Cooder e Jimmy Iovine, ed è dunque a loro che si deve la scelta di artisti e pezzi, la contestualizzazione della musica con le immagini, il bilanciamento perfetto tra episodi veloci e dolci ballate all'interno della tracklist e infine il coinvolgimento dei Blasters, band che lascia il segno più di chiunque altro, in virtù di due pezzi monstre come One bad stud e Blue shadows e di un cameo nel quale interpretano (una versione di) loro stessi in concerto nel covo della cattivissima bike gang dei Bombers. Diversa la situazione per il cantante pop-soul Dan Hartman la cui hit I can Dream about you è consegnata ad un gruppo doo-wop nero di fantasia, perfetto anche nell'interpretazione di un pezzo tanto semplice quanto portentoso come Countdown to love, di Greg Phillinganes.
Le due ballate più potenti, nella migliore tradizione delle canzoni-spezzacuore, sono lasciate alle suggestive ugole di Maria McKee, in libera uscita dai Lone Justice (Never be you) e Marylin Martin (Sorcerer).
La caratteristica principale dei dischi della vita è che pur conoscendoli in lungo e in largo in tutti i loro aspetti (musica, testi, alternanza delle canzoni) ti capita ancora, a volte, di trovarci dentro nuove sfumature. E' per questo che ancora oggi non mi sottraggo al rito dell'ascolto di Streets of fire. Perché ogni volta mi dico che un pezzo new wave come Deeper and deeper dei Fixx non dovrebbe avere molto senso nel registro stilistico complessivo dell'album e invece si amalgama con il resto, giocando sullo stesso contrasto gastronomico del miele sul pecorino stagionato. E' per questo che ogni volta mi abbandono a Hold that snake, spensierato rock and roll di Ry Cooder dal testo infarcito di doppi sensi, sorridendo al pensiero che da quel momento in avanti il maestro avrebbe iniziato una ricerca alle radici della musica che l'avrebbe portato a imparare e insegnare dall'Africa a Cuba, con risultati che rimarranno nella storia. E' per questo che, nel tempo e grazie al web, ho fatto ricerche su ricerche per individuare molti degli oscuri autori e session men dietro a questo progetto trovando più di una carriera interrotta ed artisti che sono spariti dal radar delle scene musicali.
Ma più di ogni altra cosa, con l'esperienza maturata, riguardando Streets of fire e soprattutto riascoltandone per milionesima volta il soundtrack, ho messo a fuoco una verità: il rock vive per buona parte di illusioni, prime fra tutte quella dell'eterna giovinezza, come ci ricorda, svolgendo il compito nel migliore dei modi, Tonight is what is mean to be young, secondo ed ultimo pezzo dei Fire Inc. incluso nella OST.
Nelle mani dell'industria (oggigiorno non solo discografica), la musica nata originariamente dalla sofferenza del blues e dalla natura dopolavoristica del country è diventata un prodotto buono per vendere abbigliamento, elettronica, moto, macchine, alcolici e profumi, più che dischi.
Lo scenario che ha ospitato il set del film era un teatro di posa, Diane Lane cantava per finta, i musicisti erano attori: era tutta una messa in scena. Così come, allargando il discorso, lo è molta della musica che ascolto: derivativa, rassicurante, suonata da gente che ha l'età di mio padre quando è andato in pensione e sulla cui urgenza creativa non scommetterei un centesimo. La curva d'apprendimento iniziata trent'anni fa si può dire sia terminata.
Nondimeno questa forma artistica esercita ancora un potere straordinario su di me.
E se oggi, con il traguardo dei cinquanta più vicino di quanto lo sia la tappa dei quaranta, ancora mi ostino a segnare concerti sul calendario della cucina e a programmare complicate trasferte per assistere alle esibizioni di allucinati countryman o metallari impenitenti, e ancora, se quando infilo un cd nel lettore o abbasso la puntina su di un vinile si ripete la magia di quel formicolio alla base del collo e di quell'immotivata eccitazione primordiale, il merito è anche di un film dimenticato e assolutamente prescindibile e della sua folgorante colonna sonora.
Mi sembra superfluo sottolineare come il post mi serva anche per inaugurare la nuova veste del blog, rigorosamente a tema.