lunedì 30 settembre 2013

New wave of american country music: Rachel Brooke, A killer's dream


Sono stato indeciso fino all'ultimo sull'opportunità di inserire Rachel Brooke in questa rubrichetta sui nuovi nomi del true country. La ragione è presto detta: questo interessante A killer's dream, opera numero tre della cantautrice americana, non ha, tra le undici tracce che la compongono, un solo pezzo in qualche modo riconducibile alla redneck music (se escludiamo un accenno allo yodel che impreziosisce Old faded memory). La ragazza però è inequivocabilmente collegata all'universo dell'underground country, come testimonia la citazione di questo album tra i migliori del 2012 in molti siti che a questa musica si approcciano in maniera indipendente e come dimostra il disco registrato in coppia con il gothic countryman Lonesome Wyatt, leader di quella accolita di folli che risponde al nome di Those poor bastards. 

Fatta la dovuta premessa occupiamoci di A killer's dream. Che non è neanche, nonostante le immagini raccolte in rete ci raccontino di una passione per i fifties di Rachel, un disco di rockabilly. Siamo invece dalle parti del blues acustico, ma di quelli che evocano il jazz, i locali notturni per soli uomini ammirati nei film degli anni quaranta, dove questa musica era incarnata con sensualità e malizia da interpreti femminili. Non a caso in più di un'occasione, e di certo in Late night lover, il pensiero corre a Why don't you do right? , originariamente composta nel 1936 da Kansas Joe McCoy, portata al successo da Peggy Lee e l'orchestra di Benny Goodman nel 1942, ma da tutti noi conosciuta grazie alla versione di Jessica Rabbit nel film di Zemeckis Chi ha incastrato Roger Rabbit.  
Musica notturna dunque, come nel caso del jazz di Ashes to ashes, da ascoltare rigorosamente con il bicchiere di bourbon liscio nella mano, le cicche accumulate nel  posacenere e la disillusione nello sguardo.
Spiazza felicemente la scelta di chiudere il disco con una title-track dalle atmosfere pop sixties sbarazzine, in netto contrasto con il mood sornione dell'opera.
Tenete d'occhio questa signora.

 

domenica 29 settembre 2013

Chronicles 31

Non ci voleva tanto, in fondo. Bastava pronunciare la parola giusta: fallimento. Dopo tutti questi mesi passati a consumarsi come una candela su congetture, strategie, consulenze, suggestioni, traettorie e ipotetici punti di caduta, la brutale verità è emersa. La mia azienda sarà fallita entro la fine dell'anno. Unico paracadute possibile, creare una nuova impresa dalle ceneri dell'attuale, caratterizzata anch'essa da una parola breve, semplice ma drammaticamente efficace: meno
Meno dipendenti. Meno salario. Meno tutele. Meno diritti.
Perchè le parole sono importanti.


 

venerdì 27 settembre 2013

MFT, settembre 2013

MUSICA

"Have no fear/ Say sincere/ Are you metal?" Chiedevano un po' truzzi gli Helloween in un loro recente album (7 Sinners, 2010). Sì amici, in questo periodo mi sento proprio tanto tanto metal. Il che va oltre l'ascolto di un genere musicale specifico, ma ha a che fare più, almeno per come la vedo io, con un attitudine ad ascoltare roba fuori dagli schemi mainstream, a volume alto, e che spesso ben si accompagnerebbe a colossali bevute. A riprova di ciò, su quindici album in rotazione, sono solo cinque quelli riconducibili ad un'ottica di rock pesante (Letlive, Avenged Sevenfold, Carcass, Helloween e Volbeat, che vedrò in concerto l'11 ottobre assieme agli amici blogger Filo e Ale), mentre gli altri spaziano tra il country d'autore/indipendente (Austin Lucas, Hellbound, The Good Luck Thrift Store Outfit, Joe Buck Yourself, Kellie Pickler), il blues e soul con tutte le contaminazioni del caso (Rachel Brooke, Seasick Steve, Gov't Mule), l'indie-rock (Hanni El Khatib) e l'indie-pop (Arctic Monkeys). Il tutto in attesa del nuovo materiale di Hank III, la cui uscita è ormai imminente.

Austin Lucas, Stay Reckless
Volbeat, Beyond hell/Above heaven
Seasick Steve, Hubcap music
Letlive, The blackest beautiful
Avenged Sevenfold, Hail to the king
Hanni El Khatib, Head in the dirt
Gov't Mule, Shout!
Carcass, Surgical steel
Hellbound, Old highs and new lows
The Good Luck Thrift Store Outfit, Old excuses
Joe Buck Yourself, Who dat?
Rachel Brooke, A killer's dream
Helloween, Keeper of the seventh keys
Arctic Monkeys, AM
Kellie Pickler, 100 Proof


VISIONI

Trattengo il fiato in attesa dell'episodio 5x16 di Breaking Bad, che concluderà definitivamente la serie. Le parole non bastano per definire la grandiosità di quest'opera. Cercherò comunque di metterne insieme qualcuna per una recensione, appena  emotivamente sarò in grado di farlo. E' ripreso anche Sons of Anarchy (siamo alla 6x3)mentre entro la metà di ottobre ripartirà The Walking Dead (siamo alla quarta). Per quanto riguarda i grandi recuperi sto finalmente dedicando il tempo che merita a Mad Men.

 


LETTURA

Al momento di chiudere le valigie da mandare sull'aereo per la Spagna mi sono accorto che La verità sul caso Henry Quebert, il libro di Joel Dicker, non andava bene a causa di dimensioni e peso eccedenti. Ho ripiegato allora sull'ottimo classico L'amico americano di Patricia Highsmith. Prima o poi conto di parlarvene.

mercoledì 25 settembre 2013

Max Stèfani, Wild Thing


Dopo essermi dilungato sui retroscena che mi hanno portato a diventare possessore di una copia del libro Wild Thing di Max Stèfani e dopo averlo finito di leggere da tempo, rubo qualche minuto per un breve commento. 
Commento e non recensione, perché non mi viene molto da scrivere se non che considero Wild Thing un'enorme occasione sprecata. "L'avventura intellettuale di Mucchio Selvaggio attraverso la biografia del suo fondatore e direttore", come recita la breve sinossi sulla copertina, poteva essere qualcosa di speciale, di importante per la stampa di settore italiana, quel Mystery Train di Greil Marcus o più prosaicamente quell'Alta Fedeltà di Hornby che ancora oggi manca nel panorama dell'editoria musicale nostrana (anche se L'ultimo disco dei mohicani di Blatto ha provato a colmare la lacuna): poteva essere per Stèfani il romanzo di una vita, la conclusione di una traettoria che l'ha visto protagonista di quasi mezzo secolo di cultura pop italiana.
E invece. Invece Wild Thing dà l'impressione di essere stato allestito in fretta e furia, con il conseguente florilegio di errori di battitura, con uno stile letterario che vorrebbe essere discorsivo e che invece risulta semplicistico e poco efficace, con tanto, troppo veleno in coda, nei confronti di ex-collaboratori e responsabili della defenestrazione di Stèfani dalla conduzione del Mucchio e con affermazioni incredibilmente controproducenti in merito alla gestione allegra delle (tante) risorse finanziarie che lo stato erogava (eroga?) alla rivista, a fronte della costituzione di una cooperativa editoriale.
Certo, non nego che in alcuni passaggi, soprattutto quando l'attenzione è rivolta ai periodi pionieristici della stampa musicale e quando l'accento è posto sull'arretratezza del nostro Paese nei confronti del fenomeno rock a cavallo tra i sessanta e i settanta, tra pretese di musica gratis per tutti, scontri di piazza, processi a cantautori e molotov nei palazzetti, la suggestione che esce dalle pagine sia forte, ma, insomma, probabilmente più per la rievocazione di una stagione che per come questa stagione venga narrata.

Come dicevo, un'occasione sprecata. Peccato.

lunedì 23 settembre 2013

Hank 3 / David Allan Coe, The outlaw ways (singolo)

The Outlaw Ways

Proprio mentre l'attesa per le nuove release di Hank 3, previste per il primo ottobre, comincia a farsi pressante, ho scoperto casualmente che qualche mese fa è stato pubblicato, a fari spenti, un singolo tra il nipote del re del country e David Allan Coe (per gli amici DAC), artista che ha da poco compiuto i settantaquattro anni e che insieme ai più noti Merle Haggard, Willie Nelson e Waylon Jennings ha praticamente inventato il sottogenere Outlaw. E anche l'unico artista di questa levatura che, oltre ad un solido songbook classico (The mysterious rhinestone cowboy, Longhaired redneck e Texas moon i suoi album più noti; You never even call me by my name, Willy Waylon and me, Take this job and shove it,Jack Daniels if you please, Mona Lisa lost his smile le sue hit di maggior successo), può anche permettersi un solido archivio di canzoni sconcie (robe del tipo Pussy whipped again, Little Susie shallow throat, Masturbation blues o Fuckin in the butt, tutte raccolte nell'imperdibile 18 X - Rated hits), nonchè un album di hard rock (Rebel meets rebel) concepito in embrione insieme ai membri dei Pantera e concluso nel 2006 con i soli Vinnie Paul e Rex Brown, dopo la tragedia che ha colpito Dimebag e l'insanabile frattura con Anselmo.

Poteva una sagoma di questo tipo non essere l'archetipo dell'eroe di Hank? Certo che no. Ecco perché ritroviamo DAC tra i Country Heroes cantati nel pezzo omonimo incluso in Straight to hell ("Im drinking some George Jones / and a little bit of Coe") ed ecco perché da tempo circolava la voce di un progetto tra i due, e anche se in molti speravano in un più compiuto full-lenght, questo singolo da oltre sette minuti riesce comunque a non deludere le aspettative.

Vista la propensione dei due ad eccedere con alcol e stupefacenti non è difficile immaginare che The outlaw ways sia il frutto di uno o più giorni passati a consumare le rispettive riserve di moonshine  parlando dei vecchi tempi, del country e di come questa musica abbia perso la propria anima (citazione dovuta per Thrown out of the bar, sempre dalla pietra miliare Straight to hell). Di questo parla il pezzo. Che inizia con i reciproci complimenti in un'atmosfera talmente rilassata da apparire svogliata, talmente rilassata e svogliata che il ritornello arriva solo dopo due minuti, un'eternità in questa epoca di ascolti fugaci con il dito nervoso sul tasto skip come se fosse il grilletto di una colt prima di un duello.
Già, tutto considerato questa canzone non poteva che uscire in condizioni di quasi assoluto anonimato, senza clamore e lontano dalle bright lights della fabbrica di musicisti che è diventata Nashville. Cosa c'azzecca uno degli ultimi grandi outlaw viventi e il suo erede più fulgido con tutta quella roba prefabbricata che esce dalla ex music city con la stessa spontaneità (e la medesima qualità) di un Big Mac da un fast food? Qui si canta dei Williams senior e junior, di Waylon Jennings, della gloriosa stazione radio Lousiana Heyride, di come The ride (di Coe) abbia cambiato la vita a Hank 3 e di come Dick in dixie (di Hank 3) abbia colpito il vecchio countryman. Si parla di coerenza, di integrità, di passione per una musica e uno stile di vita controversi e pieni di contraddizioni, ma,  forse proprio per questo, vissuti fino in fondo in maniera orgogliosa, ostile e, va da sè, autodistruttiva. 
Se capite cosa intendo.


CHORUS
Together: It’s The Outlaw Ways, living day by day,
                   it’s in the songs that we play, it’s in the things that we say.
Hank3: Might smoke a little, might drink a lot.
DAC: Brothers of the road with broken hearts
Hank3: If you think you might understand our crazy ways
DAC: You might be living The Outlaw Ways
 

domenica 22 settembre 2013

Chronicles 30

A proposito di abitudini nocive e poco giustificabili. Da sempre preferisco l'orrendo caffè delle macchinette a quello del bar. E vi garantisco che non è per tirchieria. Più probabilmente è perchè con il bicchierino di plastica bianca posso allontanarmi per cinque minuti dal casino, uscire fuori, infilarmi le cuffiette del lettore mp3, accendermi una lucky e, mentre i Carcass mi sfondano, pensare che tutto sommato non va così male. 
Cazzate, ovviamente.


venerdì 20 settembre 2013

80 minuti di Kid Rock

Non fosse per la propensione alla vita sregolata, con tanto di parolacce tirate giù come se piovesse, Kid Rock, a partire dal monicker che s'è attribuito, potrebbe essere un pò il Jovanotti americano. Partito con il rap, l'artista del Michigan, ha infatti progressivamente allargato il suo campo d'azione ai generi più radicati nella cultura americana: il country e l'hard rock, senza farsi mancare incursioni nel new errebì più commerciale e nel pop. Esordisce nemmeno diciannovenne nel 1990 e da allora non si ferma più: undici album sfornati a cadenza regolare, milioni di copie vendute e centinaia di collaborazioni a trecentosessanta gradi che gli conferiscono l'attributo di prezzemolino del rock USA. 
Intriso di cultura americana fino al midollo, con molta probabilità repubblicano convinto ("I'm so proud to be livin' in the USA", canta in You never met a motherfucker quite like me), per un bel pò questo tamarrone mi è stato pesantemente sui maroni (così come ad Hank III, che gli ha dedicato la strofa "Just so you know / So it's set in stone / Kid Rock don't come where I come from" in Not everybody likes us), il mio atteggiamento è leggermente mutato quando ho letto un paio di sue interviste nelle quali emerge la sua vena prevalentemente cazzona e dove è arrivato ad assolvere i ragazzi che scaricano illegalmente i suoi album perché tanto lui ha raggiunto una posizione economica talmente agiata che non gli servono altri dollari. Lo so, sembra una banalità, ma guarda caso, non l'ho mai sentita pronunciare da altri miliardari della musica. 
E poi, alla fine, ad uno che canta "I like Johnny Cash and Grandmaster Flash" (in American Badass) non si può non volere un pò di bene.

P.S. Nella composizione della playlist mi sono dovuto districare in una mole di materiale impressionante, la mia bussola è stata quella di selezionare almeno una traccia da ogni disco pubblicato di Kid Rock: se ne avrò la voglia e il tempo mi dedicherò ad un volume due.


1. Yo-da-lin in the valley
2. Bawitdaba
3. You never met a motherfucker quite like me
4. Cold and empty
5. Rock 'n' roll Jesus
6. Redneck paradise
7. Three sheets to the wind
8. Devil without a cause
9. American badass
10. Picture
11. So hott
12. Rock bottom blues
13. Cowboy
14. Forever
15. Celebrate
16. Only God knows why
17. All summer long


mercoledì 18 settembre 2013

Turbo

Locandina italiana Turbo

Stavolta ho rischiato grosso. Partiti da casa con (mia) mestizia, in direzione cinema per guardare il film sui One Direction, sono stato letteralmente salvato dall'allergia di Stefano al 3D. Il film sugli idoli dei teen agers era infatti proposto solo in quel formato, e pertanto abbiamo dirottato la nostra attenzione sull'ultimo cartoon Dreamworks.

Il pomeriggio ne ha indubbiamente beneficiato. Turbo è infatti una produzione che segue un canovaccio tutt'altro che originale (l'outsider che corona il suo sogno impossibile) ma lo fa in maniera divertente e senza particolari ambizioni intellettuali, "accontentandosi" si svolgere il suo servizio di intrattenimento per i bambini entro i dieci anni. Nel fitto campionario di animali utilizzati nella storia dei film d'animazione mancavano giusto le lumache. Gli autori Dreaworks sono riusciti a colmare questo vuoto creando dei personaggi efficacissimi che, nonostante siano obbligati a concentrare sulle espressioni del viso tutto il loro modo di comunicare, suscitano simpatia e affetto.

Chi volesse vedere la versione originale, potrebbe godere dei doppiaggi di Paul Giamatti, Samuel L. Jackson e Snoop Dogg. 


lunedì 16 settembre 2013

The Winery Dogs, self titled


C'è chi dice che la grande stagione dell'AOR americano sia stata spazzata via dal grunge, nei primi anni novanta. In realtà credo che sua formula avesse cominciato a mostrare la corda anche prima che raggiunsero il successo Soundgarden, Nirvana, Pearl Jam and co. Dentro l'Adult Oriented Rock (o Album Oriented Rock, che dir si voglia) convivevano decine di stili ed influenze, ma in campo hard rock due erano i filoni principali: quello che si rifaceva ad uno stile patinato, non lontano dal pop, con molte tastiere e cori a profusione, e quello più tecnico/muscolare, che riusciva a coniugare una certa durezza dei suoni con una perfetta fungibilità radiofonica.

I Winery Dogs appartengono senza discussione a questa seconda branchia stilistica. La band, formatasi a New York l'anno scorso, è quello che si definisce un supergruppo, visto che il trio annovera al suo interno il chitarrista/cantante Richie Kotzen (una lunga carriera da session man ed ex membro di Poison e Mr. Big); Mike Portnoy (batterista dei Dream Theater e per un paio di album degli Avenged Sevenfold, con molte partecipazione collaterali al suo attivo) e, soprattutto, Billy Sheehan, bassista che adoro, e che in passato ha suonato con David Lee Roth, i Mr Big, lo stesso Kotzen e diversi altri.

Nelle parole dei suoi componenti, l'album è un raccordo tra i grandi gruppi dei settanta come i Grand Funk Railroad, gli Zeppelin, i Cream e quelli dei novanta, come i Soundgarden, i Black Crowes o gli Alice in Chains. In tutta onestà,pur apprezzando il lavoro, mi trovo d'accordo solo parzialmente con questa sinossi. La  riscontro sicuramente nella perizia tecnica, ma meno nelle composizioni, laddove a prevalere è invece un hard-rock potente ma arioso e sempre radio friendly, con l'equalizzatore dei singoli strumenti tarato bello alto e tanti pezzi che avrebbero sicuramente proiettato il lavoro nelle parti altissime della classifica. Se fossimo nel 1989.

Il self titled si apre con Elevate, che subito definisce le regole del gioco: un rock poderoso, con una grande attenzione alle parti vocali e con un interpretazione al microfono da parte di Kotzen che mi stupisce due volte, perchè non sapevo che l'axeman cantasse e che lo facesse in maniera così convincente, poi. A seguire Desire un massiccio funk-rock che, posso dirlo?, mi riporta alla mente i trascurati Dan Reed Network. Tutta la prima parte dell'opera è un fiume in piena che fa la felicità degli adepti del genere, non ci sono flessioni o momenti di calo, la ballad di rigore (I'm no angel) è piazzata alla posizione numero quattro della tracklist, dopo l'eccellente We are one e prima della doppietta Other side, forse la mia preferita del lotto, e You saved me che richiama i meno virtuosi ma sempre ottimi Whitesnake. Un altro gruppo che amo alla follia e che non è mai riuscito ad emergere in tutto il suo valore sono gli inglesi Thunder, a mio avviso clamorosamente omaggiati dai tre con One more time.
Le pirotecniche montagne russe rappresentate dai pezzi più scatenati dell'album si prendono una pausa solo verso la parte conclusiva del disco, con pezzi tendenti al lento o al midtempo, come l'ulteriore richiamo al Serpente Bianco di Coverdale rappresentato da Criminal,  Dying (la traccia maggiormente seventies dell'intera raccolta) o Regret, preposta al commiato dell'opera.

Non sappiamo quanto i rapporti e i rispettivi impegni personali di Sheehan, Portnoy e Kotzen lascino spazio alla continuità di quest'avventura, potrebbe seguire il fulgido esempio dell'altra all-star band Black Country Communion, oppure,viceversa, dissolversi all'orizzonte. Il risultato non cambierebbe la sostanza. Sebbene derivativo (ma non dimentichiamo che uno come Billy Sheehan ha contribuito a scriverla, la storia dell'AOR), The Winery Dogs resta un ottimo lavoro che non mancherà di infiammare i cuori dei fan di monicker come Mr. Big, Bad English, Van Halen, Whitesnake e tutto il resto di quella ciurma. Ecco, se nel leggere questi nomi vi viene la psoriasi passate oltre, in caso contrario questo album fa per voi.

7,5/10

mercoledì 11 settembre 2013

I Soprano, stagione 5


Dopo anni di resistenza dovuta perlopiù a pigrizia, sono ormai quasi del tutto convertito alla visione dei serial in lingua originale (sottotitolati in italiano). Davvero, non c'è paragone tra il gusto di ascoltare le versioni originali rispetto a quelle confezionate per il nostro mercato. Ecco, coi Soprano questa mia decisione è stata messa duramente alla prova, perché, dopo tanti anni, la mia fidelizzazione al doppiaggio dei protagonisti aveva raggiunto livelli quasi patologici. E' stato difficile passare dalla voce piena, autorevole e un pò roca di Stefano De Sando (Tony Soprano) a quella originale di Gandolfini, che, al contrario, è nasale e, a tratti, un pò da Paolino Paperino. Ma anche Paulie, Christopher, la Melfi e "Zio Junior" per me erano indissolubilmente legati ai nostri doppiatori e inizialmente m'è parso quasi contro natura ascoltarli con una voce differente. Nonostante questo, a partire dalla quarta stagione, ho cominciato la graduale conversione italiano/americano e, ovviamente, col tempo, ne ho ricavato piena soddisfazione. Anche perché se avessi continuato a seguire il serial in italiano mi sarei perso, nell'episodio dodici, una fulminante battuta di Multisanti, il quale, chiamato a giustificare il suo ritardo ad una riunione di famiglia, con la faccia seria dei giorni peggiori ha affermato: "You know, the highways was jammed with broken hero on a last chance powerdrive", che altro non è che un'inconfondibile strofa della canzone-manifesto Born to run di Bruce Springsteen. E tanto per completare il concetto: sapete come è stato tradotto l'omaggio al Boss? "Sono stato rapito dagli alieni". No, per dire.

In questa quinta stagione succedono un sacco di cose. Tony e Carmela sono separati e lui ne approfitta per darci dentro duro con alcol e scopate ("Beh, cos'è cambiato rispetto a quando eri sposato?", gli fa caustico Silvio/Little Steven), mentre dal punto di vista degli affari l'improvvisa morte per infarto del boss newyorkese Carmine Lupertazzi scatena l'ascesa al trono dell'ambizioso Johnny Sack, e i rapporti tra le cosche ai due lati del fiume Hudson cominciano ad incrinarsi. Escono di prigione dopo diversi anni di detenzione Feech La Manna (Robert Loggia), ex compare di Giovanni Soprano e, sopratutto, Tony Blundetto (interpretato da Steve Buscemi), grande amico di Tony e considerato da tutti come suo cugino. Quest'ultimo personaggio, considerata la bravura di Buscemi, è poco utilizzato dagli sceneggiatori, nonostante abbia un'evoluzione non scontata e svolga un ruolo importante ai fini della storia. Carmela (che appare, complice la separazione, più attraente che in passato), scomparso Furio, si toglie uno sfizio con un professore del figlio A.J. mentre Tony cerca di corteggiare la dottoressa Melfi, ma viene respinto. Giunge a conclusione anche la vicenda Adriana/F.B.I., non prima di aver regalato alla sua interprete, Drea De Matteo, una stagione da protagonista. Nelle varie digressioni che come di consueto fanno da sfondo alla storia principale trovano spazio la rivelazione della omosessualità del luogotenente Vito Spatafore; la rievocazione dell'amante storica del padre di Tony, una corrosiva satira sui premi Emmy, di cui nella realtà I Soprano ha fatto incetta (un tossico indebitato con Chris cerca di rivenderli ma lo strozzino non ne vuole sapere: "non è mica un Oscar", gli dice),  e quasi un intero episodio dedicato ad un sogno premonitore di Tony. Da segnalare inoltre, per l'episodio 6, un gradito cameo alla regia di Pete Bogdanovich.

Tutte le divagazioni che tengono lo spettatore lontano dalla storia principale (ammesso che le vicende della mafia lo siano) sarebbero, in un altro serial, dei banali riempitivi, dei fill-in, come li chiamano gli anglosassoni, preposti a nascondere lacune della sceneggiatura e/o ad allungare il brodo fino al numero di episodi concordati. Ne I Soprano invece rappresentano una virtù, una caratteristica primaria della serie, un elemento divenuto, col tempo, irrinunciabile. Come si potrebbe considerare, ad esempio, una puntata minore quella in cui Tony fa la conoscenza della comare (l'amante fissa) di suo padre? Vedere il boss grande grosso e irascibile tornare improvvisamente bambino ed assecondare un'anziana (di gran classe) rimasta ormai sola con i suoi ricordi è un tassello fondamentale per capire la psicologia del personaggio, anche se è un elemento destinato a rimanere isolato nella narrazione principale.

Ecco, giunto alla vigilia dell'ultima stagione di questa meravigliosa serie mi prende quella malinconia da distacco, tipica di quando stai per terminare un libro che ti ha coinvolto emotivamente e che vorresti non finisse mai. Sensazione amplificata dalla scomparsa di James Gandolfini che ha messo, nel modo più triste e definitivo, la parola fine su tutti i rumors riguardanti una nuova, ulteriore, stagione o addirittura di un film su The Sopranos.
Questa è la ragione per la quale mi prenderò una bella pausa prima di regalarmi le ultime gesta di Tony e sodali: prolungare quel piacere più a lungo possibile.






lunedì 9 settembre 2013

The Dogs D'Amour, Cyber recordings 2013


Il bang bang, la scintilla, l'imprinting primordiale, la ragione che ci ha fatto diventare music-alchoolic, è principalmente, quella che ascoltare rock (inteso nel senso ampio del termine) ci faceva stare bene, ci regalava momenti di benessere, per non dire di felicità. No, lo dico perchè col passare del tempo ci si dimentica il motivo di questa compulsione (quasi patologica) che ci porta, nonostante la non più tenera età, a bruciare dischi, canzoni ed artisti senza soluzione di continuità, avvicinandoci in qualche modo alla dinamica che sollecita l'eroinomane a continuare a bucarsi anche se non riuscirà mai a ritrovare appieno l'effetto del primo trip.
Occasionalmente però la magia si ripete, proiettandoti ai tempi delle medie o delle superiori quando, durante le lezioni, un brano cominciava ad insinuarsi nei tuoi pensieri e non vedevi l'ora di andare a casa a premere play sullo scassato mangiacassette di cui disponevi per godere appieno di quella meraviglia.
 
Qualche giorno fa ho vissuto questa bella sensazione con il nuovo four-tracks EP dei gloriosi Dogs D'Amour, ed in particolar modo con la ballata Walk away, nel quale la leggendaria voce di Tyla segue un fraseggio di chitarra  di Jo Dog tanto semplice quanto efficace per condurci nel paradiso delle canzoni per i cuori infranti, laddove albergano le migliori love songs di sempre. "How can you just walk away when you say i'm the one you love", canta il leader della band, e a leggerlo suona banalotto, ma il punto tante volte non è il cosa ma il come lo si fa. E i Dogs D'Amour, uno dei gruppi di punta dello sleaze (sottogenere che racchiude le branchie dell'hard rock glam-metal, hair-metal, pop-metal), nati per caso in Inghilterra ma più californiani di molti gruppi d'oltreoceano, lo fanno, da sempre, alla grande.
 
La band era assente dalle scene da otto anni, e molti la davano ormai per defunta, vista l'intensa attività solistica del singer Tyla (Timothy Taylor), che infatti ha pubblicato un nuovo album proprio quest'anno. E invece, a sorpresa e solo per i cosiddetti negozi digitali, i Dogs hanno dato alle stampe questo EP, praticamente senza promozione e senza indicazioni su un eventuale seguito a full-lenght. Beh, poco importa alla fine, anzi, vi dirò che discograficamente parlando il formato breve sta cominciando a soddisfarmi sempre più: riesco ad ascoltarlo per intero, è privo di riempitivi e non ti sazia, lasciandoti il desiderio di volerne ancora. Nel caso specifico, Cyber recordings 2013 ti lascia letteralmente affamato di Dogs D'Amour, e della loro speciale abilità di scrivere ballate, come la sopra citata Walk Away o come Hotel Daze, che in quanto a bellezza gli sta a fianco, anche se poi il combo ha optato per la più vivace opener Flameboy quale video destinato a rappresentare il disco.
 
Se non si fosse capito, quello dei Dogs D'Amour è un ritorno che, per quanto parziale, non ha tradito di un grammo le aspettative che tutti gli amanti del genere ripongono nella band.  
Che sia l'antipasto di un ritorno in grande stile o un definitivo canto del cigno, Cyber Recordings 2013 è comunque una raccolta di canzoni perfette.
Da non perdere.

8/10

domenica 8 settembre 2013

Chronicles 29

Prima di partire temevo fortemente di dover iniziare i miei commenti post-vacanzieri con la citazione del noto verso di Hey Hey My My di Neil Young "You pay for this/But they give you that", e invece Formentera si è rivelata esattamente come me l'avevano descritta: mare immacolato, spiagge bianche e vegetazione intensa. Alla riuscita della vacanza ha contribuito anche il tempo, caldo ma non afoso, con le nuvole e il vento a fare,spesso e opportunamente, capolino. Non ho seguito la pratica comune di affittare lo scooter e girare l'isola, l'alibi è che non mi fidavo a farlo sulle strette stradine dell'isola con mio figlio seduto dietro, la realtà è che avevo proprio bisogno di un periodo di quel tipo di relax che i villaggi concedono. 
Beh, se vogliamo chiamare relax sei ore di acqua al giorno (tra mare e piscina) alle prese con ogni tipo di sport acquatico potesse passare per la testa di Stefano, che,per inciso, di fantasia ne ha tanta (in effetti da questo punto di vista avrei bisogno di una settimana di vacanza per riprendermi dalla vacanza).
Il tempo di tirare fuori la digitale dalle valigie e magari posto qualche scatto.

mercoledì 4 settembre 2013

The Following


Al di là delle solenni stroncature da parte dell'elite (termine usato senza sarcasmo o disprezzo) della critica televisiva italiana, la miglior definizione per The Following ce la fornisce il New York Times, quando inquadra il programma come "hard to turn off and even harder to watch it (difficile da spegnere e ancora più difficile da guardare)". Ecco, questa è la sintesi perfetta di un serial nato con enormi aspettative, visto l'esordio per un format televisivo di Kevin Bacon, e che, forse proprio per questo, è andato incontro a riscontri critici pesantemente negativi. Che in buona parte ci stanno, lo chiarisco subito, ma che ad un certo punto si sono trasformati in accanimento un pò gratuito, laddove facevano leva su meccanismi narrativi che in altri contesti l'hanno sempre fatta franca.

Lo spunto per The Following è dato principalmente dalla morbosa curiosità degli americani verso i serial killer. Nella storia Joe Carrol (interpretato da un buon James Purefoy), è un ex professore di lettere con la fissa per Edgar Allan Poe, che viene scoperto e arrestato a seguito di una catena di efferati omicidi. Il pilot si apre nove anni dopo il suo arresto con la sua fuga dalla prigione, evento che costringe l'ex agente dell'FBI Ryan Hardy (Kevin Bacon) a mettersi sulle sue tracce. Ryan è rimasto ferito nel fisico e nello spirito dalla cattura di Carrol, a causa di una pugnalata il suo cuore funziona solo grazie ad un by-pass, moralmente è distrutto ed è diventato alcolista. Il pilot ha una conclusione inaspettata, il serial killer si fa infatti catturare volontariamente, non prima però di aver ucciso una donna che era riuscita a scampargli al momento del suo arresto da parte di Ryan. La vicenda sembra giunta a conclusione e invece è appena iniziata, perché si scopre che l'assassino ha costruito nel tempo, attraverso le numerose visite ricevute in carcere e l'utilizzo, all'insaputa dei secondini, della rete internet della biblioteca della prigione, una base di accoliti disposti a tutto per lui e che per lui si sono infiltrati da anni in luoghi strategici, utili al contorto piano di Joe.

Dovrebbero bastare queste poche righe per mettere insieme una bella sequenza di cliché della produzione cinematografica/letteraria/televisiva di polizieschi. Sarebbe sufficiente il tema del super-eroe con super-problemi (Bacon/Hardy), uscito dalle forze dell'ordine, distrutto e alcolizzato, che è costretto a tornare in servizio e ad intrattenere inquietanti colloqui con il serial killer colto, affabile e affascinante (doppia citazione per Thomas Harris e le sue creature Hannibl Lecter e Clarice Starling). Aggiungiamone pure altri, come ad esempio la regola per cui non importa quanti agenti entrino in una casa dell'orrore, alla fine il protagonista si troverà sempre da solo, faccia a faccia con il pericolo, oppure la consuetudine che prevede sempre un commento di musica metal quando ci sono di mezzo i cattivi, o anche quella per cui le forze dell'ordine risultano regolarmente inette rispetto all'arguzia  dell'eroe che arriva sempre prima sulle dinamiche dell'assassino.

Eppure The Following è "hard to turn off". Perchè? Beh, innanzitutto, nonostante tutte le contraddizioni, i clichè e, ahimè, i momenti di comicità involontaria, è innegabile che il serial abbia dei bei momenti di tensione, che James Purefoy,per quanto reciti sempre sopra le righe, spaventa e affascina il giusto e che alcuni colpi di scena lasciano il segno, sovrastando la recitazione perlopiù monocorde di Kevin Bacon, davvero al minimo sindacale del ruolo.

Ammetto che se di questa fiction avessi dovuto seguire i normali tempi della programmazione televisiva, avrei probabilmente mollato il colpo prima degli oltre tre mesi necessari a giungere alla quindicesima puntata, ma come divagazione di un paio di settimane agostiane è andata più che bene. E non solo a me evidentemente. La seconda stagione è infatti in fase di realizzazione e vedrà la luce l'anno prossimo.

lunedì 2 settembre 2013

Phil H. Anselmo, Walk through exits only


Al mondo vi sono pochi artisti controversi come Philip Hansen Anselmo. Letteralmente adorato da migliaia di fans che si rispecchiano nella coerenza del suo percorso musicale (la dream-band dei Pantera, i Down, i Superjoint Ritual, gli Arson Anthem, anche se con compiti da chitarrista e non da lead vocal) e altrettanto ferocemente detestato dagli ex-sodali dei Pantera, coi quali ha vissuto gli ultimi anni da separato in casa, a causa di enormi problemi con l'eroina (culminati con un overdose quasi letale), al punto che gli fu impedito di partecipare alle esequie di Dimebag Darrell, chitarrista della band, ucciso dalla pistola di un folle durante un concerto in Ohio. Le divergenze, all'epoca (fine anni novanta), oltre ad essere caratteriali erano anche di natura artistica. Gli altri del gruppo rimproveravano a Phil di voler spostare il suono della band verso orizzonti musicali sempre più violenti ed intransigenti, lontano dal brand del combo. Mi ha sempre incuriosito questa cosa, perchè, in realtà, quando Anselmo ha definitivamente lasciato i Pantera per dedicarsi ai Down, il sound che espresse fu più orientato a rallentare, attraverso contaminazioni (sempre metal) con il southern, il blues e lo stoner, piuttosto che verso la ferocia dello sludge.

Oggi che il singer debutta, quarantacinquenne, con il primo disco inciso a proprio nome, quella devastante violenza temuta dagli altri ex-sodali emerge in tutta la sua provocazione. Walk through exits only va infatti ben oltre la brutalità sonora che ti aspetteresti da uno come Phil Anselmo. L'album non è una release casuale o dovuta. E' un vero e proprio manifesto d'intenti fortemente voluto dal cantante di New Orleans, un atto d'accusa contro tutto e tutti, società, politica e soprattutto industria musicale (Music media is my whore è il titolo dell'open track) e settore (colleghi compresi) in generale. Su un tappeto sonoro pesantissimo, Anselmo più che cantare si fa esplodere le vene del collo, quasi come se recitasse un reading infernale che passa dalla destrutturazione della forma-canzone canonica. L'andamento del disco è pianificato per depistare l'ascoltatore, l'inizio è tosto ma sostenibile, addirittura con la traccia numero tre, Betrayed, si potrebbe tracciare una traiettoria che collega il brano a The great southern trendkill dei Pantera, ma poi, come accade ad un peschereccio che una volta giunto in mare aperto viene sorpreso da una tempesta, così veniamo assaliti dalla violenza di pezzi come Usurper bastard's rant o la title track, e così, fino alla lunga, acida, conclusione di Irrelevant walls and computer screens non c'è spazio per indecisioni o tentennamenti, la furia iconoclasta e (auto)distruttiva di Phil Hansen Anselmo spazza via ogni cosa e non è semplice resistergli e resistere fino all'ultima nota. Ma, per anticipare un concetto che riprenderò tra qualche giorni per il serial The Following, la particolare alchimia di Walk through exits only sta nel fatto che sebbene il suo assalto sonoro ti spaventi e ti metta in fuga, non riesci proprio ad evitare di tornare a farti flagellare. Ancora ed ancora. 

Dopo tanti anni, la metafora rappresentata dal pugno in faccia che campeggiava sulla copertina di Vulgar display of power è tornata a far male.

8/10