martedì 6 agosto 2013

Bob Wayne, Outlaw Carnie (2011) : una recensione


Outlaw Carnie non è solo un album di Bob Wayne. Il titolo (coniugato al plurale) è il nome del gruppo che da tempo coadiuva il countryman dal vivo, ma sopratutto l'opera rappresenta il lucido manifesto programmatico di un disadattato, che invece di finire sotto un ponte con un ago nel braccio o fare dentro fuori da uno dei penitenziari della bible belt, ha trovato (parziale) salvezza nella musica.
Ma per l'artista il disco significa anche l'approdo ad una label ben organizzata e fatta di appassionati, come la People like you records (PLY). Cosa non scontata, per uno che, fino al 2011, si è sempre gestito da sè, sia per quanto riguarda il management, di cui ha sempre fatto a meno, che per la produzione, professata attraverso home recordings, che per la distribuzione, portata avanti a botte di centinaia di ciddì caricati nel baule dell'auto per essere poi venduti ai concerti. Di quest'ultima consuetudine sono testimone diretto, visto che nel 2009, a Lucerna, dove era aggregato al tour europeo di Hank III, ho visto il Nostro al banchetto del merchandising accogliere i presenti davanti ai suoi cd masterizzati (sugli stessi cd vergini TDK che usiamo anche noi) con tanto di titoli scritti a pennarello. Bene ha fatto allora la PLY a permettere a Bob di re-incidere i suoi brani più rappresentativi, che nel corso degli anni e dei concerti sono stati efficacemente road-tested, dal northwest americano fino a Nashville, e presentarli in una versione più pulita e professionale.

"I always known i wanted to be on the road, no matter what"

Tra lo scarsissimo materiale reperibile in rete inserendo bob+wayne nei vari motori di ricerca, spicca questa esplicita dichiarazione d'intenti. E allora Outlaw Carnie, se davvero opera di formazione doveva essere, non poteva che iniziare con Road Bound, il cui incipit è eloquente: "I'm a low low down wound up road bound man / Go ahead and chase me sucker, catch me if you can". Non si può certo affermare che la strada, usata come metafora letteraria, sia qualcosa di particolarmente innovativo od originale, ma Wayne ci trasferisce sopra,in maniera credibile, tutto il suo vissuto, creando un immaginario fatto di uomini che come spettri si aggirano per le highway americane in cerca di pace (e divertimento, donne,droghe e guai) dai loro tormenti. Per Wayne l'archetipo di questi personaggi sono i truckers americani, figure che ai nostri occhi suonano un pò folkloristiche, ma che evidentemente a lui forniscono grande fonte di ispirazione, visto il vasto songbook già realizzato su questo tema (non a caso  il suo lavoro di debutto s'intitolava 13 Truckin' songs).
All'apice della produzione camionistica di Bob c'è senza dubbio Mack, la traccia posizionata alla posizione numero tre del disco. "Mackie drove a Peterbuilt in 1973 / He was a truck driver with a wife and kids to feed  (...) / He's a truck-driver / Gun totin / Meth snortin / Blue collar true american hero". Il pezzo utilizza il classico arpeggio honkytonk (se avete presente la chitarra su Ghosts rider in the sky di Cash siete sulla strada giusta), unito ad un controcanto growl oriented. Capirete bene come non sia un caso che in un pezzo che parla di camionisti strafatti ci suoni anche Hank III (alla batteria).

Ma se siete alla ricerca di ulteriori indizi che lascino intravedere la bravura di Wayne come storyteller , Ghost town  fa al caso vostro. Si tratta di una saloon song che potrebbe essere stata ispirata da molta cinematografia da drive-in o da opere come L'alba dei morti viventiDal tramonto all'alba. Al tempo stesso, in un rovesciamento di ruoli, potrebbe anche fungere da soggetto per una nuova produzione di celluloide. Il cowboy Wayne e la sua gang arrivano in una cittadina del North Dakota fermamente intenzionati a cacciarsi nei guai, sparano alla luna, giocano a carte, ma quando scoprono un baro e gli sparano dritto in mezzo agli occhi, capiscono che qualcosa non va: "He didn't fall down / Hell, he didn't even start bleeding (...)" poi le cose precipitano: "All the barmaids had turned to demons/ And the whiskey in my glass had turned as cold as ice/ I starterd praying, boys, they start screaming!/ We all got started and running for our life". Alla fine, visto che siamo pur sempre in un pezzo di outlaw country e non in un film di Romero, ai nostri, circondati da terribili demoni zombie assetati di sangue, verrà in soccorso un'improbabile angelo custode: "Out of them came the ghost of Johnny Cash (...) / When that ghost town trying to kill me / The ghost of Johnny Cash saved our lifes".

Ma se dovessimo indicare una sola canzone a rappresentare il way of life del barbudos americano, beh, la scelta non potrebbe che cadere su Love songs suck. Un titolo, un programma. "Non aspettatevi da me che vi canti cose tipo cieli azzurri.... occhi marroni...e vissero tutti felici e contenti... a meno che non mi sia completamente rincoglionito", Spiega per bene l'amico Bob, rinunciando così a tre quarti dell'ispirazione normalmente usata dalla country music da classifica USA. L'ultimo quarto rimanente se lo gioca affermando di non voler nemmeno sentire parlare di nostalgia di casa perchè lui, a differenza degli altri "che vivono dentro le case", sta orgogliosamente in una "John Deer Motor Home" ("parked in Alabama", ha aggiunto al concerto di Milano). "Perciò signore", conclude, "ci vediamo nel parcheggio qua fuori, nella mia Cadillac Limo, se capite ciò che intendo". Che del doman non v'è certezza, è la morale spicciola.

A questo punto permettetemi una breve digressione. Mi sono interrogato a lungo sul mio profondo coinvolgimento con l'arte di questi "fuorilegge" del country USA, visto che le regole che determinano la loro vita sono quantomeno discutibili. Cioè, qui bisognerebbe essere ciechi per non vedere che ci si trova di fronte a dei reazionari veri, mica per finzione di scena. Gente per la quale l'incivile legge chiamata Stand your ground non aveva bisogno di essere notificata, in quanto trovava applicazione da sempre, come ci ricorda simpaticamente uno degli slogan più noti di Bob Wayne.
911 T-Shirt

Questa parte di popolazione americana fa del diritto costituzionale di possedere armi da fuoco, della nostalgia degli Stati Confederati, degli elementi più estremi e pericolosi (per loro stessi ma sopratutto per gli altri) del vivere in libertà, la principale filosofia di vita. E' gente che probabilmente neanche va più a votare, in quanto qualunque candidato esprima il Republican Party alla fine è sempre troppo conciliante rispetto alla loro visione delle cose. E' chiaro che da un punto di vista culturale, io, di sinistra, da sempre non-violento e rispettoso delle regole, dovrei provare nei loro confronti un sentimento di repulsione. Invece succede l'esatto opposto, probabilmente perchè, a parte il discorso puramente musicale, che mi affascina da sempre (datemi un violino e un banjo e mi farete contento), credo che scatti quel tipo di fascinazione letteraria che ti fa leggere d'un fiato alcuni terribili racconti di Lansdale (ambientati peraltro negli stessi schifosi posti cantati da Hank III e soci) e che ti fa tenere il fiato sospeso per i meravigliosi character fascistoidi e violenti delle migliori opere di Ellroy. E' una fuga totale dalla quotidianità, verso scenari tanto improbabili quanto malsani e (per questo) affascinanti.

E allora, tanto che siamo in ambito di argomenti lontani anni luce dal mio vivere, parliamo anche delle droghe. Che si tratti di roba leggera o di sostanze pesanti, questo è un altro tema cardine della produzione wayniana. Se nell'ultimo Till the wheels fall off, in duetto con Hank, Bob decantava i bei momenti passati insieme a eroina, LSD, cocaina e affini, l'highlights di Outlaw Carnie è in questo senso Everythinh's legal in Alabama, un country-swing al fulmicotone eseguito in coabitazione con Wayne Hancock, nel quale ci viene spiegato che è del tutto inutile andare ad Amsterdam, visto che dallo speed alle canne, passando per le pistole, ogni cosa è legale in Alabama. Basta che non farsi beccare dalla pula, ovviamente.

Ma in ultima analisi life's ain't a joke nemmeno per uno come Bob Wayne, e allora è quanto mai opportuno un riavvolgimento del nastro e un ricorso ad atmosfere più introspettive. Blood to dust è la biografia in versi e musica dell'artista, che racconta della sua infanzia passata insieme all'adorata madre (cantante di cover) e alla difficile convivenza con un padre (Bob Wayne sr) violento, al quale, ad un certo punto, lei intima : "Disappear!". Un Bob jr adolescente farà in tempo a rintracciarlo in un bar e guardarlo negli occhi proprio qualche settimana prima che  il "vecchio Bob" se ne vada al creatore con un biglietto di prima classe per l'eroina express. "Ci sono cose nella nostra vita che è meglio dimenticare, ma sono proprio quelle cose a renderci ciò che siamo", filosofeggia Wayne nel refrain, giusto un attimo prima di raccontare che stava per fare la stessa fine paterna, non fosse intervenuta a hand from above a rimetterlo in carreggiata. Una storia come tante, una famiglia spezzata in mezzo a mille altre, ma la bravura dell'artista è di rendere questa vicenda personale unica, palpitante e coinvolgente.

Di tutt'altro tenore è la vicenda racchiusa dentro Gold. E' la storia di un uomo che ha passato "metà della vita da solo e l'altra metà in prigione", che decide di dare una svolta alla sua esistenza attraverso una rapina in una banca ("the plan was fool proof"), peccato solo si scelga come socio/amante una vice sceriffo apparentemente corrotta che fa il doppio gioco. Anche qui siamo della letteratura noir di confine (Crais, Winslow, Ellroy, ancora Lansdale) o del cinema (Tarantino, Rodriguez, Mamet) a stelle strisce. Nella parte finale del pezzo il pathos è tale che sembra di essere insieme al rapinatore, con le orecchie che fischiano per il rumore degli spari e i polmoni pieni dell'acre odore di cordite che satura l'aria, perchè, com'è evidente, il protagonista, secondo il classico clichè dei disperati, non ha alcuna intenzione di tornare dentro ("this time there's no way in hell i'm gettin' caught").

Stilisticamente tutta l'opera deve molto  al country and western, a Johnny Cash, ma anche a David Allan Coe, a Merle Haggard e, ovviamente, a livello di ispirazione, all'amico/mentore Hank Williams 3. Chitarra (acustica ed elettrica) e violino rappresentano la spina dorsale delle composizioni, che si avvalgono comunque del contributo dello straight-up bass, della batteria e, occasionalmente, del banjo.

Ci sarebbe altro da dire. Non mi sono soffermato su pezzi come Driven by demons (la Born to run di Bob Wayne) classicissimo che non manca mai dal vivo, così come Esticata, ReptileChatterbox e Work of the devil, ma credo a questo punto di essermi dilungato già troppo. E se non vi ho incuriosito fin qui, non credo che aggiungere altro servirebbe a farvi cambiare opinione.

Concludo allora affermando semplicemente che questo artista, nel panorama musicale real country americano,  è una figura tanto piccola e controversa quanto autentica e interessante. Certo, se doveste incontrarlo casualmente per strada sareste probabilmente indotti a cambiare marciapiede, ma se dovesse venire a suonare nella vostra città commettereste un peccato mortale se non andaste a sentirlo. 

2 commenti:

Anonimo ha detto...

Bene, bene...

monty ha detto...

Eh insomma, si fa quel che si può :)