giovedì 31 marzo 2011

Catalogami questo! / 6

Chiudiamo il discorso aperto nel capitolo 5 occupandoci dell'alternative country.


L' alternative country (alt-country per gli amici) è un sottogenere che prende le distanze dal country radiofonico (o mainstream o pop) e incorpora elementi rock, blugrass, honky-tonk,folk e addirittura punk.

Viene spesso chiamato anche insurgent country o, come già riportato nel capitolo precedente, americana.

Il genere è vastissimo e contiene artisti più legati alla tradizione storica del country americano, fino a band che rientrano in questo capitolo di storia musicale suonando il cowpunk.


Un'altra costola di questo movimento è la cosidetta no depression. Il nome nasce dal titolo di una canzone della Carter Family, ripreso prima dagli Uncle Tupelo (band seminale dal cui split sono nati i Wilco e i Son Volt) per il titolo del loro album di esordio del 1990 e infine da una rivista musicale che esce tuttora e che si occupa, appunto di alt-country, "qualsiasi cosa esso sia", come recita il sottotitolo in copertina.

mercoledì 30 marzo 2011

Contraddictions

Leggo che l'attesa spasmodica è finalmente terminata. Da qualche giorno folle interminabili di persone hanno preso d'assalto gli Apple Store per acquistare il nuovo, mirabolante iPad2. Le bibliche code che si sono formate dentro e fuori i negozi hanno raggiunto picchi di trentadue ore di durata. Il prezzo dell'oggettino va dai €500 a € 800. Ma tu guarda com'è troia la vita,ho pensato. E' all'incirca la stessa cifra (€750)che secondo l'ISTAT un terzo delle famiglie italiane sarebbe impossibilitata a fronteggiare se gli piombasse tra capo e collo a causa di un evento non programmato. Che razza di coincidenza, eh?

Penso anche che sono ormai settimane che cerco di aiutare un'amica di lunga data che è in un momento di drammatica difficoltà, a trovare un lavoro, anche umile, anche a tempo determinato. Beh, in questo paese di merda siamo conciati al punto che, anche nel nord più produttivo,se prima serviva la raccomandazione per ottenere il classico "posto sicuro", oggi non ti basta quella nemmeno per entrare, part-time e precario, in un'impresa di pulizie o di servizio mense a farti sfruttare e mobbizzare. Almeno per i canali a cui ho accesso io.

Poi ci sono i livelli superiori, quelli per cui diventi ministro o consigliere regionale senza aver mai fatto attività politica e senza aver avuto mai ruoli attivi nella società civile, al massimo qualche stacchetto in uno dei tanti programmi televisivi figli degeneri del Drive-in.

Poi ci sono i livelli per cui la notte in coda fuori dagli Apple Store la fa il portaborse pagato in nero e l'oggettino tecnologico dei tuoi sogni lo trovi comodamente la mattina sulla scrivania, nella sua sfavillante confezione trendy.

Andate tutti affanculo (cit).

martedì 29 marzo 2011

It's never too late to mend / No better than this, John Mellencamp


Beh, avessi una dignità o un qualche orgoglio professionale da tutelare, la cosa sarebbe decisamente imbarazzante. Magari continuerei ad ascoltare No better than this di Mellencamp in privato, senza per forza andare a raccontare in giro che la mia stroncatura iniziale era stata frettolosa e superficiale. Ma visto che professionista non lo sono e la vergogna non la temo, l'outing ci sta tutto. Fanculo all'emmepitre e alla bulimia musicale, per certe cose ci vuole tempo, è vino di qualità, mica Coca-Cola.
E' vero, non avevo capito questo disco, anche se a mia parziale discolpa posso portare la qualità lo-fi della registrazione, vero e proprio muro di mattoni contro il quale si è accartocciato il mio gusto musicale. Bene, anche questo aspetto, alla luce della storia che ha dietro, assume adesso connotati diversi e affascinanti.


Sotto l'attenta supervisione di T-Bone Burnette, John ha infatti registrato l'album in una serie di location storiche per la tradizione musicale americana servendosi esclusivamente di un registratore portatile Ampex del 1955. Questo è il metodo che usavano i bluesman e i folksinger per incidere i loro pezzi tra il 1930 e il 1940. I posti scelti per le session sono i Sun Studios di Memphis, la Prima Chiesa Battista Africana di Savannah e lo Sheraton Gunter Hotel di San Antonio (celebre perchè Robert Johnston ci registrò Sweet home Chicago e Crossroad blues). Le canzoni (30 in origine, ridotte poi a 13) sono state quindi registrate in mono, con un solo microfono e i musicisti raccolti tutti attorno ad esso. Un'operazione che fatta oggi, con i dischi che grazie alla tecnologia si compongono anche a distanze siderali tra un musicista e l'altro, assume dei connotati davvero suggestivi.


Il disco è essenzialmente costruito intorno alla voce di Mellencamp e alle chitarre acustiche. Non mancano tuttavia eccezioni a questa regola.Come per Save some times to dream che apre l'album, classica ballata Mellecampiana dal testo esistenzialista e refraian evocativo. La successiva The west end richiama anch'essa le tematiche sociali care alla poetica del rocker dell'Indiana: l'attuale decadenza dei luoghi americani, la nostalgia per il passato.

Il violino impreziosice Right behind me, che nel suo incedere ricorda un pò la versione di Springsteen di Mary don't you weep (oltre a decine di altre canzoni del fine ottocento americano). Con la titletrack si accelera, entra la batteria e si svolta in direzione del rock. E' uno dei pezzi di punta del disco e così come Comin' down the road è strutturato sopra ad un tappeto di boom chicka boom, timbro di fabbrica del sound di Johnny Cash. Due pezzi formidabili, che però si devono inchinare davanti alla tranquilla grandezza di un brano come No one cares about me, brano countryfolk nel solco della tradizione hobo della great depression americana, Woodie Guthrie e Pete Seeger celebrati in maniera sublime, sia nello stile che nel testo. Ma la qualità complessiva di queste composizioni è tale che non si può abbassare nemmeno per un momento l'attenzione, anche procedendo con l'ascolto random è pressochè impossibile non intercettare brani deliziosi, come Love at first sight, Don't forget about me,Graceful fall o la sommessa ballata irish Easter Eve.


John Mellencamp, a giudicare da questo lavoro, è in uno stato di grazia. Ha voluto fortemente questo tipo di risultato, concepito come un'operazione politica:la grande depressione degli anni zero fotografata con la stessa camera della prima great depression. Il risultato è più nitido che un servizio del telegiornale girato in alta definizione. Allo stesso tempo, con No better than this, il cinquantanovenne rocker compie un'operazione di recupero, analoga a quella fatta da Springsteen con le Seeger Sessions, ma con pezzi esclusivamente inediti e se vogliamo ancora più filologica e rispettosa degli standards americani.


E' insomma imperdonabile non aver avuto la pazienza di approfondire questo lavoro al momento della sua uscita, l'ho rimesso su da una settimana e non riesco ad ascoltare altro. Di certo sarebbe entrato nei migliori cinque dischi del 2010.


Se penso che ho ripreso No better than this alla notizia del primo tour italiano di Mellencamp, mi rendo conto che a questo punto l'attesa si fa febbrile.

lunedì 28 marzo 2011

Anarchy inc. / Season 2


La stagione due di Sons of Anarchy inizia nel segno della tensione e della violenza, costante la prima, a seguito di un odioso sopruso subito da Gemma, strisciante la seconda, sottotraccia ma sempre pronta ad esplodere. Il tutto mentre la forbice delle divergenze tra Clay e Jax si allarga sempre più, spaccando di fatto in due il club e minacciando di distruggerlo.


Nuovi abitanti arrivano nella ridente cittadina di Charming. Si tratta nientepopodimeno che rappresentanti di punta della Lega Ariana con al seguito i loro sgherri di svastiche tatuati. I nazisti sono rappresentati, per la parte in giacca e cravatta, da Ethan Zobelle e per quella muscolare da A.J. Weston (un grande Henry Rollins). Il loro obiettivo dichiarato: eliminare i SAMCRO.


Anche stavolta Sutter e gli altri autori di SOA confezionano un prodotto convincente, come dicevo in premessa, teso in quasi ogni episodio per la lotta al vertice del circolo che fa sprofondare figlio e patrigno in una spirale che sembra inarrestabile. E' qui che interviene l'abilità degli autori, che fa nascondere a Gemma il terribile segreto che la sta divorando e lo trasforma in volano per riunire marito e figlio e di conseguenza i Sons.


Ed è geniale anche il modo in cui Tig (un character strepitoso, credetemi) svela a Opie di essere l'assassino (seppur a seguito di un tragico malinteso) della moglie. Lo fa senza preavviso, senza che il momento sia caricato di pathos (a differenza della lunga preparazione alla rivelazione di Gemma), quando ormai lo spettatore è indotto a pensare che quel segreto resterà tale a lungo. Fa piacere infine rivedere il personaggio (tragi)comico della serie, quel Chuck che era stato consegnato dai SAMCRO ai cinesi che aveva derubato e che torna (non tutto intero...) nel giro del club. Da segnalare infine tra le new entry un'altra vecchia e amata conoscenza di The Shield: Kenny "Lemanski" Johnson, che viene introdotto come un affiliato ai SOA per la sezione di Tacoma.

Certo, ad essere obiettivi ci sono anche aspetti che non convincono appieno. Il modo in cui viene chiusa la vicenda della collaborazione con la casa di produzione di film porno di Luanne attraverso l'uscita di scena questo personaggio appare un pò tirato, calato dall'alto, così come non si spiega che fine faccia lo spacciatore nazista Darby, abbandonato in un magazzino dato a fuoco , e in seguito letteramente dimenticato dagli autori (non si trovano i suoi resti e nemmeno lo si cita più) . Ma l'aspetto che mi ha convinto meno è il colpo di scena/cliffhanger che chiude la stagione (anche in questo caso, analogamente alla morte della moglie di Opie, la responsabilità è dell'agente ATF Stahl): più un espediente da soap opera alla Beautiful che rispondente ad un'opera che, seppur di fantasia, si propone di essere verosimigliante.


La musica: tra i molti artisti presenti nella colonna sonora rimarco Monster Magnet (Radiation day; Slut machine; Freeze and pixilate); Black Mountain (Wucan), Tossers (Going away ) Devendra Banhart (A sight to behold) e Patty Griffin(Mary). Per le cover segnalo almeno una vibrante Someday never comes dei Creedence, interpretata da Billy Valentine.

sabato 26 marzo 2011

Album o' the week / Carlo Vives, El amor de mi tierra (1999)


Un viaggio breve, ma intenso, nella musica latina. Colombiana per la precisione. Carlos Vives è un cantante e attore molto noto anche fuori dai confini di casa, vincitore di diversi grammy per questo specifico ambito musicale.
Restringendo un pò il campo interpreta i generi colombiani vallenato e cumbia, aprendosi all'occorrenza al latin-pop più fruibile.
El amor de mi tierra è uno dei suoi dischi più noti (insieme a Clàsicos de la provincia, che riprende alcuni standards del suo paese), e contiene, tra gli altri, il singolo Fruta fresca.

giovedì 24 marzo 2011

Catalogami questo! / 5

Il genere di oggi è l'americana, che è una convergenza dei diversi stili basici della musica bianca di tradizione USA. Si parla quindi prioritariamente di contaminazioni tra tra folk e country, ma con ramificazioni strutturali nel rock and roll.
Il nome nasce da un programma radio americano nato nel 1990 e dalla successiva pubblicazione di una rivista tematica; entrambi i format si proponevano di soddisfare la richiesta di musica di quanti apprezzavano il country, ma disdegnavano quello pop o mainstream, e che allo stesso tempo gradivano l'apertura, la contaminazione appunto, al rock and roll o al rhythm and blues.

Come per i principali generi musicali statunitensi, esiste un'associazione specifica anche per questo stile, con proprie classifiche e premi annuali.
L'americana è il classico genere a incastro. Esattamente come in un puzzle infatti, questa tessera è strettamente attaccata ad altre (al punto da venire usata quale sinonimo di esse) come il roots o l'alternative country.

Ma questa è un'altra storia e sarà quindi oggetto di attenzione nei prossimi capitoli di codesta rubrica.


mercoledì 23 marzo 2011

MFT, marzo 2011


ALBUM

Hayes Carll, Kmag Yoyo
Buddy Miller, The majestic silver strings
The Low Anthem, Smart flesh
Monster Magnet, Greatest hits
Caparezza, Il sogno eretico
R.E.M. , Collapse into now


LETTURE

Aldo Cazzullo, Viva l'Italia!
Marina Petrillo, Nativo americano

VISIONI

Sons of Anarchy, season 2
Boris, stagione 2

lunedì 21 marzo 2011

Buddy!


Buddy Miller
The Majestic Silver Strings
New West, 2011


Non in molti lo sanno ma Buddy Miller negli ultimi anni, oltre ad essere un eccellente session man, è diventato uno dei produttori country-rock più ricercati. A lui si è affidato Robert Plant per i suoi progetti, prima con Alison Krauss e poi con la Band of Joy. Sua è la produzione del pluripremiato Downtown Church di Patty Griffin.

A fronte di questa progressiva crescita, molta era l'attesa per il suo nuovo album che già dalla copertina, realizzata come se fosse una busta di corde per chitarra, rivela chiaramente la mission dell'artista. La Fender e le altre sei corde usate da Buddy sono infatti protagoniste indiscusse dell'opera e sovraintendono al recupero di vecchi classici del sud degli states, pezzi perlopiù country ma riletti attraverso canoni che solo occasionalmente richiamano questo genere.

Gli amici che Miller si è fatto nell'ambiente sono quasi tutti presenti, a partire da Patty Griffin (I want to be with you always) a Mark Ribot (Barres de la prison, Bury me not on the lonely praire, Why baby why) a Emmylou Harris (Why i'm walking) a Mark Anthony Thompson aka Chocolate Genius (apprezzato vocalist nella Seeger Session Band di Springsteen ), oltre all'immancabile apporto della moglie Julie.

Album delicato, evocativo (già dalla prima traccia, un valzer irlandese) dai suoni caldi e avvolgenti, strutturato, a parte qualche episodio (No good lover, Dang me e Why baby why), intorno alla struttura della ballata acustica, misurata e suggestiva.
Il classico disco che la morte sua è scaldare la stagione fredda, ma di fronte a cotanto stile non è il caso di stare a sottilizzare.



domenica 20 marzo 2011

Album o' the week / Jayhawks, Hollywood town hall (1992)


Analogamente a quanto fecero qualche anno prima i Waterboys per registrare Fisherman's blues, anche i Jayhawks si sigillarono in studio per mesi prima di essere soddisfatti del suono di Hollywood town hall. Come per la band di Mike Scott, anche quella capitanata da Mark Olson, alla fine ha dato alla luce un capolavoro, pietra angolare e fonte di paragone con chiunque, da lì in poi, si sarebbe confrontato con il genere definito Americana.

Qui dentro la lezione appresa dai soliti maestri, Parsons, Dylan,lo Young di Harvest, viene rielaborata e portata ad uno stato sublime di rarefazione e ariosità. Take me with you, Waiting for the sun, Clouds, Settled down like rain, Crowded in the wings sono canzoni universali, incatalogabili, irripetibili.
E infatti, nonostante a questo seguirono altri quattro album, le vette creative raggiunte con le dieci tracce di Hollywood town hall restano inviolate.

sabato 19 marzo 2011

At last!

La notizia è di quelle,nel suo ambito, epocali (no, non come la riforma della giustizia). E' di quelle che qualche anno fa mi avrebbero fatto andare per qualche mese in ipertensione, ma che comunque, anche oggi, qualche incontrallibile spasmo me lo provoca: John Mellencamp suonerà in Italia per la prima volta in assoluto.

Succederà nel mese di luglio, più precisamente il 9 al Castello di Vigevano nell'ambito della rassegna 10 Giorni Suonati, il 10 a Roma, nella Cavea del Auditorium Parco della Musica e il 12 al Castello di Udine, nell'ambito del Folkest. I biglietti sono in vendita, sul circuito TicketOne e Listicket a partire dal 18 marzo (Vigevano) e da lunedì 21 (Roma e Udine).
Il rocker dell'Indiana è in attività da trentacinque anni, e anche se il suo meglio l'ha probabilmente dato nel periodo 1980/1994 (ah! Poterlo vedere in quel frangente...) resta comunque una delle figure più rilevanti di sempre in ambito roots-rock americano.


Perciò, mentre valuto se comprare i biglietti (€50) in prevendita o in loco il giorno stesso per la data di Vigevano, vado a riscoltarmi il suo ultimo lavoro, No better than this che avevo, ahem, stroncato.

venerdì 18 marzo 2011

Il cielo sopra Milano


L'idea di portare Stefano al planetario di Milano è da un pò che mi ronzava nella capa, ma poi insomma, tra il fatto che temevo fosse troppo piccolo, la svogliatezza di buttarmi nel casino della città meneghina al sabato pomeriggio e il pessimo ricordo dell'ultima volta in cui andai nella struttura di corso Venezia (nel serprentone in coda per entrare ci fu addirittura una rissa), avevo spesso accantonato la pensata.

Sabato scorso, approfittando della bella giornata, ho superato ogni ostacolo di natura mentale/organizzativa/logistica e ho portato il pargolo a fare questa esperienza.
E stavolta tutto è andato per il verso giusto, sole e gente nei giardini, niente coda, addirittura parcheggio libero davanti all'ingresso.

Il planetario di Milano, uno dei più importanti in Europa, è un posto davvero suggestivo. Costruito nel 1930 ha forma circolare e sotto la cupola sulla quale viene illustrata la volta celeste e le immagini dei pianeti, trovano posto 300 persone (più o meno) comodamente sedute sulle tradizionali sedie di legno girevoli.

I primi minuti, quando si sono abbassate gradulamente le luci e si è cominciata a vedere la mappa delle stelle sono stati, per Stefano, davvero emozionanti al punto che si lasciava scappare dei clamorosi "oooohhhh" e "uuuuhhhh" di pura meraviglia. Poi, dato l'indirizzo della conferenza (il linguaggio non era adatto ad un pubblico di bambini) e la sua durata eccessiva (più di ora), è subentrata un pò di stanchezza e di agitazione (impossibile tenere fermo Stefano per più di cinque minuti).

Ad ogni modo, nel complesso, una bella esperienza. Sarebbe bello ripeterla magari con un programma ad hoc per i più piccoli (il planetario ne organizza).
L'importante è non mettere in pratica le nozioni imparate cercando di applicarle al cielo notturno di Milano e provincia.
Tra inquinamento atmosferico e luminoso infatti la frustrazione sarebbe garantita.

mercoledì 16 marzo 2011

Catalogami questo! / 4


Lo Sludge-Metal:

Lo sludge metal o sludge doom metal (letteralmente "metal del fango") è una forma di musica heavy metal generalmente considerata come una fusione fra il doom metal, lo Stoner metal, il southern rock e l'hardcore punk. I Melvins sono indicati come inventori del genere, assieme all'album My War dei Black Flag. Lo sludge si è diffuso principalmente nella parte meridionale degli Stati Uniti, in zone come New Orleans.
Il termine "Sludge" viene comunemente usato per indicare le sostanze di scarto derivate dal trattamento dei liquidi fognari, o comunque di liquidi di lavorazione. Si può facilmente intuire come le atmosfere di questo genere siano malsane e disturbanti, di certo poco accessibili e difficilmente commerciabili.

I ritmi lenti e estremamente pesanti del doom metal sono uniti alla rabbia ed alla voce urlata dell'hardcore punk ed alle sonorità Stoner metal, con cui condivide le atmosfere sporche e oppressive, ma dal quale si distacca per le visioni distorte e malate delle tematiche, laddove lo stoner è invece più positivo o meno estremo. Un'altra pesante influenza della maggior parte delle band sludge sono i Black Sabbath, di cui vengono spesso mutuati i riff cadenzati e le atmosfere apocalittiche. Il genere è fortemente influenzato dal Southern Rock, soprattutto nelle band provenienti dalla Louisiana (ma anche nei Corrosion of Conformity del South Carolina) ed in molte band del Texas.

L'articolo per esteso su wikipedia





martedì 15 marzo 2011

Anarchy inc. / season 1



Una storia americana. Solo in quel paese poteva essere ambientato Sons of anarchy, serial creato da Kurt Sutter, uno degli autori di The Shield. E in quale diamine di altro posto potevano svolgersi le gesta di un gruppo di motociclisti fasciati in giubbotti di pelle nera e jeans, che al solo passaggio fanno sospirare ogni essere umano di sesso femminile e crepare d'invidia quelli di sesso maschile?

I fatti si svolgono a Charming, California, e il leader del Club (definzione usata per la banda di centauri) è Clay Morrow (interpretato da Ron Perlman), il suo vice il giovane Jax Teller (Charlie Hunnam). Factotum e presenza molto ingombrante Gemma, la madre di Jax e moglie in seconde nozze di Clay. Il suo primo marito è il defunto padre di Jax.
Il Club ha stretto una solida alleanza con il vecchio sceriffo della città, lui lascia che svolgano i loro traffici (prevalentemente di armi, acquistate clandestinamente dalla True Ira, gli irrididucibili terroristi irlandesi) e in cambio i Sons of Anarchy tengono fuori da Charming droga e criminalità.

L'idillio viene rovinato da alcuni eventi che innescheranno un'innarrestabile reazione a catena: il deposito di armi del club viene fatto saltare da una banda concorrente (i Mayans), il vecchio sceriffo si appresta ad andare in pensione e il suo successore ha idee diverse rispetto al rapporto di co-gestione con i SOA, sul posto arrivano quelli dell'ATF (la sezione FBI che si occupa di armi da fuoco) e in città torna Tara, vecchia fiamma di Jackson, in fuga dal suo folle e violento ex, anche lui agente FBI.

Jax da parte sua trova dei vecchi diari del suo defunto padre e comincia a nutrire dubbi sempre più grandi sulla conduzione del circolo, che nasceva come massima espressione di libertà, più vicino all'idea degli hippie che alle logiche da organizzazione criminale. Da rilevare anche la differenza con bande tipo Hell's Angels, decisamente orientate all'estrema destra.

Chi ha visto The Shield non faticherà a riconoscere in Sons of anarchy tutti gli elementi fondanti di quella saga. L'ambiguità del confine tra bene e male, l'induzione a fidelizzare con i personaggi più oscuri e border-line, l'ambizione e l'assenza di scrupoli dei difensori della legge, il doppiogiochismo eletto a sistema di vita. Le congiure, i segreti, i tradimenti, i sospetti, le bugie. La violenza espressa attraverso un linguaggio visivo esplicito e scene brutali.

E poi c'è lo straordinario sottobosco dei comprimari: Bobby "Elvis" Munson, Tig, Opie, Gemma, vere spine dorsali della storia, così come lo erano quelli dell'Ovile e lo Strike Team per The Shield. Compaiono inoltre in ruoli molto incisivi gli attori Jay Karnes (in TS era il grandissimo detective Wagenbach), l'ex psicopatico di Tara e Ally Walker (vista nella quinta stagione di TS), agente ATF disinibita e senza scrupoli.

La prima stagione si conclude prefigurando una lotta per la "linea politica" e per la leadership dei S.A.M.C.R.O. (Sons of Anarchy Motorcycle Club Redwood Original). Oltre a questo, pesanti sospetti gravano sulla conduzione passata del Club da parte di Clay. Sospetti che includono anche la morte del padre di Jackson.

Ultimo ma non ultimo il soundtrack. Prevale (ovviamente direi) dell'ottimo hard rock, ma non mancano passaggi più emozionali, su tutti segnalo una coinvolgente versione dello standard John the revelator, una interpretazione rallentata per sola voce e chitarra di Forever Young di Dylan (by Audra Mae) e un lento strumentale eseguito con la sola chitarra acustica di Fortunate Son dei Creedence Clearwater Revival.


Mi tuffo nella season 2 (tre sono le stagioni attualmente prodotte).

lunedì 14 marzo 2011

A holiday from the hooligans

Nell'anno appena passato Vince Neil e Tommy Lee, i due leader dei Motley Crue, hanno dato alle stampe i loro rispettivi lavori solisti.

L'irrequieto singer ha pubblicato Tattoes and tequila,un album composto perlopiù da cover (due soli i brani originali, la title track e Another bad day) che spaziano dagli Aerosmith (Nobody's fault ) ai Sex Pistols (No feelings)passando per i Cheap Trick (He's a whore).


Niente di rilevante purtroppo, forse gli unici episodi degni di nota sono quelli in cui il nostro si misura con standard non provenienti dal bacino hard-rock. In questo senso risultano perlomeno divertenti Bitch is back di Elton John, Viva Las Vegas di Elvis Presley e Long cool woman degli Hollies mentre troppo scolastica è la riproposizione di Who'll stop the rain dei Creedence. Certo, io non ho mai capito quelli che si distaccano dalla band di appartenenza storica per fare un solo album che richiama nelle sonorità la cifra stilistica del gruppo di provenienza. Che senso ha?



Più interessante A pubblic disservice announcement, secondo lavoro di Lee con i Methods of Mayem, a dieci anni del fortunato esordio e con la formazione completamente rivoluzionata. Lo stile muove da un rap-metal canonico ma ispirato, sulla scia di Limp Bizkit e Kid Rock (convergenza curiosa quest'ultima visto il rapporto conflittuale tra i due a causa della nota ex bagnina di Baywatch), che si concede, strada facendo, alcune interessanti divagazioni (Back to before, Party Instruction).

Il lavoro è ben prodotto e gira bene, ogni nota è al suo posto e si capisce che non è roba buttata lì alla cazzo di cane. Time bomb, Louder, Fight song e 2 Way mi sembrano un pò i pezzi migliori.


Per il 2011 è annunciata una nuova uscita Crue.

domenica 13 marzo 2011

Non è un paese per camaleonti


Che ci fa un camaleonte da terrario nel mezzo del deserto mojave in camicia hawaiana? Beh è semplice, cerca il suo posto nel mondo. Ovviamente la strada per raggiungerlo sarà la più perigliosa immaginabile. A poca distanza dal mondo civilizzato infatti la strana bestiolina troverà la cittadina di Dirt che sta per soccombere a causa della mancanza di acqua. Il rettile arriva in città da straniero e si sceglie il nome di Rango.

Suggestiva nelle ambientazioni, rese in maniera davvero realistiche, questa produzione diretta da Gore Verbinski (I pirati dei Caraibi ma anche l'ottimo Un topolino sotto sfratto) non è una parodia dei film western classici (inclusi quelli italiani), ma piuttosto un vero e proprio tributo al genere.
Le parti comiche non sono molte, è proprio il clima da grande avventura quello che si respira. Rango si differenzia dal solco delle produzioni hollywoodiane per bambini anche nella caratterizzazione dei personaggi. Gli animali protagonisti della storia sono tutti abbastanza ripugnanti, in quanto bestie del deserto, abituate a vivere in condizioni proibitive. Non c'è nemmeno il classico comprimario buffo/adorabile per i più piccoli.

I bambini da quello che ho potuto vedere restano comunque incollati alla poltrona del cinema con la mascella in caduta libera, i grandi della mia età hanno modo di apprezzare le numerose citazioni ai classici western più noti, da Mezzogiorno di fuoco a C'era una volta il west. Gustosa la colonna sonora, tra il mariachi dei quattro gufi narratori e temi alla Morricone.
In originale il protagonista è doppiato da Johnny Depp.

venerdì 11 marzo 2011

Ghost men folk


The Low Anthem
Smart flesh
Nonesuch, 2011



Il nuovo album dei Low Anthem , a tre anni di distanza dal celebrato Oh my god, Charlie Darwin, è un lavoro rurale, minimale, di non facile assimilazione.

La voce di Ben Knox Miller è spesso registrata in modo da sembrare che giunga da un'altra dimensione, sebbene il risultato finale delle composizioni dia forte il segnale del legame con la tradizione folk-blues americana, al tempo stesso si fatica a decifrare alcuni elementi, funzionali ma che risultano quasi di disturbo rispetto a questa cifra stilistica, come ad esempio in Boing 737.

Disco difficile come dicevo, tuttavia non privo di fascino. Ghost woman blues (traditional americano) è un grande pezzo, così come lo sono Apothecary love e Matter of time . Delizioso il banjo non invasivo di I'll take out your ashes.
Ma insomma ,Smart Flesh è il classico album da valutare complessivamente per il progetto che sviluppa, per l'atmosfera, spesso sognante e rarefatta, che lo contraddistingue.

Non per tutti.

giovedì 10 marzo 2011

Catalogami questo! / 3

Lo Psychobilly, interessante sottogenere del rockabilly visitato tra gli altri anche da Hank III.



Lo psychobilly è un genere musicale che fonde varie forme di punk rock con il rockabilly e altri generi.

Il genere è caratterizzato da testi che trattano di horror, violenza, sesso e altri temi considerati taboo. In questo sottogenere il basso elettrico tipico della strumentazione rock è spesso sostituito dal contrabbasso.

Il termine psychobilly fu usato per la prima volta in One Piece at a Time, scritta da Wayne Kemp per Johnny Cash, nella quale si fa riferimento ad una Psychobilly Cadillac. In seguito il gruppo rock The Cramps, formatosi a Sacramento nel 1972, iniziò a utilizzare il termine sui manifesti dei propri concerti, ispirandosi proprio alla canzone di Cash e definendo la propria musica psychobilly e rockabilly voodoo. Tuttavia i Cramps non si sono mai considerati parte della subcultura psychobilly, avendo dichiarato: Non avevamo intenzione di descrivere la nostra musica quando scrivemmo psychobilly sui vecchi manifesti; stavamo solo usando termini d'effetto per suscitare interesse. Non stava ad indicare uno stile musicale. Nonostante ciò i Cramps sono considerati seminali per lo sviluppo del genere, insieme ad altri artisti come Screamin' Jay Hawkins. Lo stile dei Cramps era fortemente influenzato, sia nel suono che nell'attitudine, dal rockabilly statunitense degli anni cinquanta. Secondo molti, il loro debutto Songs the Lord Taught Us del 1979 è stato fondamentale per la nascita dello psychobilly.

la voce completa su wikipedia


mercoledì 9 marzo 2011

Il riparatore

Con tutto quello che credi di sapere, sei totalmente impotente di fronte al braccio di Spiderman, il giocattolo preferito di tuo figlio, che si stacca di netto dal resto del corpo. Ma non puoi certo startene lì con le braccia allargate a tentare di persuadere il piccolo che non c'è più niente da fare, a lasciarlo attanagliare dalla delusione.

Allora ti metti a cercare, ma sai già che quel modello di action-figure è ormai introvabile, essendo stato prodotto nel 2007, contestualmente al terzo capitolo della saga ragnesca di Raimi.

Perciò che fai? Ti giochi l'ultima carta e gugoli "riparazione giocattoli". Trovi un risultato attendibile. Seguendo le indicazioni del sito mandi mail con foto del balocco. Ti rispondono a strettissimo giro che si può fare, il costo è di circa venti euro, che è la cifra che hai pagato per il pupazzo nuovo, ma a quel punto non te ne può fregare di meno di rientrare nei costi.


Metti la famiglia in macchina ti fai più di sessanta chilometri, arrivi alle porte di Piacenza in un paese di trenta anime, ti avventuri nella campagna locale, l'ultima casa dove finisce la strada è quella dell'artigiano ripara giocattoli. Entri nella sua cucina che è quasi mezzogiorno, lui ti saluta con calore, si gira tra le mani il "ferito", fa una diagnosi, ti spiega com'è fatto dentro e che tipo di interventi potrebbe fare per ripararlo, ti accordi per ripassare dopo circa tre settimane.


Ti rimetti in strada per tornare a casa, tuo figlio si addormenta. Lo guardi dallo specchietto e ti domandi se ne è valsa la pena. Ti chiedi se da grande si ricorderà di questa bizzarra gita fuori porta per riparare un giocattolo da pochi euro.


Rammenti che nei fumetti Marvel Il Riparatore era un alieno dalle sembianze di un innocuo vecchietto che riforniva di armi incredibili e costumi iper-tecnologici i criminali di tutta America.

Nel tuo caso, con un pò di fortuna, questo Riparatore donerà ancora un pò di longevità ad un gioco e al rapporto tutto speciale che ci ha costruito attorno il tuo bambino.


Beh, diamine. Sì che ne è valsa la pena.

lunedì 7 marzo 2011

Hey ho, here we go KMAG YOYO!


Hayes Carll

Kmag Yoyo (and others american stories)

Lost Higway, 2011




Capita a volta di eccedere nel giudizio sull’opera di un musicista. Succede perchè quel determinato artista, a te, e magari solo a te, regala emozioni intense: pur arrivando da mondi, culture ed esperienze lontane, ti collega a lui un’incredibile empatia. E' il caso, si capisce, del rapporto che da subito ho stabilito con Hayes Carll.


La “nostra” storia è iniziata con un'articolo che parlava dell'ottima label americana Lost Higway e degli artisti che ha sotto contratto (tra gli altri Elvis Costello, Lucinda Williams, Van Morrison, Ryan Adams, Johnny Cash), con particolare riferimento ai due nomi che in prospettiva promettevano meglio per ciò che concerne la tradizione musicale americana : Ryan Bingham e Hayes Carll. Bingham già lo conoscevo, toccava testare Carll. Trouble in mind, il disco del 2008 fu una folgorazione, poterlo vedere dal vivo e anche conoscerlo in un contesto atipico, intimo e familiare una favolosa botta di culo.


A tre anni di distanza ecco il successore, dal titolo, quasi impronunciabile,di Kmag Yoyo. Il significato dell’ acronimo, di quelli tipici da esercito coniati per descrivere ogni tipo di situazione o procedura, indica una delle casistiche operative meno auspicabili, quella in cui il militare se la deve sbrogliare da solo: Kiss My Ass Guy You're On Your Own.


Non ci sono grosse novità dal punto di vista stilistico, forse giusto una dose maggiore di chitarre elettriche e di suono full band, ma il ragazzo (che è per i locali di Houston, chitarra in spalla, da quando aveva vent’anni) ha ulteriormente affinato la prosa, appuntito la matita, aperto l’obiettivo della camera. I testi abbracciano i temi della società americana (i proiettili fischiano nelle strade delle cittadine USA e anche da quelle parti non si arriva a fine mese, è questo che ci dice in Stomp and Holler) le sue contraddizioni, i suoi luoghi comuni, le sue inverosimili bugie ("I overheard Afghanistan is safer than a minivan", canta Hayes in Another like you). In mezzo a tutto questo ci si mette anche tua madre che ti chiede "ma perchè non fai dell'easy listening?!?" (Hard out here). C’è il rock, ci sono le atmosfere folk-swing da Blonde on blonde di Dylan, c’è il pure country, come nella struggente e scarna ballata Chances are. Ora intendiamoci. Anche il country, come il blues, è sofferenza, tormento, vesciche ai piedi e amori travagliati. Non è certo colpa di Hank Williams se oggi il country che va per la maggiore è tutt'altro. All'epoca questo genere e le sue ramificazioni appartenevano a chi lavorava duro nei campi, agli hillbillies, a gente che non aveva niente e nemmeno la prospettiva di arrivare un giorno ad avercelo, qualcosa. E allora Chances are è sì una canzone d'amore, ma di quelle dolorose, destinate ai cuori spezzati che non ne vogliono sapere di smettere di sanguinare. Poi c’è la title-track. Che dire? Dieci anni di guerre americane in medio oriente in quattro minuti di driving rock, ironia e rabbia come uniche armi di sopravvivenza, altro che weapon of mass destruction. Il diciassettenne soldato americano se ne sta, pistola alla mano, in mezzo al deserto di qualche posto sperduto, pensa al padre che l'ha arruolato a diciassette anni perchè lui aveva fatto lo stesso con l'air-force: alla ricerca di pericolo, soldi e amore, aveva trovato solo il divorzio. Dunque il ragazzo se ne sta lì, immobile e terrorizzato a morte anche al solo pensiero di muovere un passo o scappare via e pensa, fanculo, se devo morire quì allora è meglio tirare su un pò di grana con l'eroina. E’ l’inizio di un viaggio tipo Cuore di tenebra, una spirale verso il basso presa però a duecento all’ora.


Another like you è un piccolo gioiello di inestimabile valore. Una sceneggiatura buona per una scena di film di Allen racchiusa in una manciata di minuti. Il pezzo è eseguito in duetto con Cary Ann Hearst. Nello stile riprende i grandi duetti (country, ma non solo) di Johnny e Rosanne Cash, Loretta Lynn o Dolly Parton con decine di diversi partners maschili. Nel romanticismo da strada rimanda al corteggiamento di I never talk to strangers di Tom Waits con Bette Midler, mentre nella corrosiva irriverenza di alcuni passaggi non può che emergere la sfrontatezza di Shane MacGowan e Kirsty MacColl in Fairytale of New York. Le citazioni del testo sarebbero troppe da elencare, in pratica ogni frase è una stoccata micidiale alla politica, alla società, ai due protagonisti dell’incontro.

Siamo a metà disco e c’è già tantissima roba, il texano ha urgenza comunicativa e non ha paura di usarla. Io invece volevo contenere le battute di questo pezzo ma mi sa che non ci riesco. Cribbio, non posso non indugiare almeno su una ballata acustica come Bye bye baby, sulla vita da hobo cantata dentro Bottle in my hand (ospiti Todd Snider e Corb Lund), un blugrass fatto come lo farebbe Steve Earle. E poi guardate, io davvero non so come si possa ascoltare Grateful for Christmas senza commuoversi profondamente. Giuro, per me è impossibile. Con una semplicità disarmante Hayes sfoglia il libro di fotografie delle feste di Natale in famiglia, scorrendo con le dita le foto, prima quelle in bianco e nero di quando era ragazzino, fino ad arrivare a quelle fatte con la digitale dei giorni nostri. Indugia sui particolari, sui parenti che affollano la casa. La testa si riempie di ricordi, gli occhi di lacrime. La chiusura è per Hide me, un’altra ballata (curiosamente le prime due strofe sono identiche alle prime due di Hard out here) ,questa volta puntellata delicatamente da un coro gospel.


Personalmente non ho dubbi. Hayes Carll, per quanto riguarda la tradizione classica americana (si potrebbe parlare di roots), è uno dei migliori songwriter su piazza. Altro che solo un ubriaco con una penna, come si schernisce lui. Il texano sa dosare dolcezza e ironia, scattare fotografie a dodicimila pixels sulla realtà americana, commuovere e divertire. In un modo che nei suoi momenti migliori ricorda il Bob Dylan più corrosivo e ispirato. A sto giro sarebbe bello se venisse in tour con la band al completo (l’ultima volta si esibiva con il solo Scott Davis alla seconda chitarra), ma sarà difficile visti i costi che questo comporterebbe.


Lo so mi sono dilungato, ma come si dice, al cuor non si comanda.

domenica 6 marzo 2011

Album o' the week / Raf, Collezione temporanea (1996)


Da sempre, e non certo con l'avvento del p2p, noi la musica che ci piace dobbiamo averla tutta, abbiamo questa necessità compulsiva che ci differenzia dalla massa delle altre persone alle quali basta ascoltarla occasionalmente alla radio, senza l'impulso a possederla.
Per cui, ok, abbiamo gli scaffali che traboccano di roba acquistata in almeno venticinque anni di attività nei negozi di molti paesi.


C'è però della musica che, pur attraversando la nostra vita, non l'ha penetrata o non gliel'abbiamo permesso perchè non la consideravamo degna abbastanza o più concretamente perchè destinavamo le non infinite risorse economiche ad altri obiettivi. Prendiamo Raf, ad esempio. Canzoni pop da classifica italiana, alcune nazionalpopolari, altre valide, in ogni caso tutte dotate di formidabili ganci mnemonici.
Basta una sosta in autostrada e una pesca da €4,99 nel classico cestone per colmare il vuoto grazie a questo best of.
Siamo soli nell'immenso vuoto che c'è mi rimanda al 1992 e al primo viaggio in USA con un amico che aveva la cassettina di Sogni...è tutto quello che c'è (ascoltata sulle higway, a bordo di una Buick...), mentre riscoprire un pezzo come Svegliarsi un anno fa ti fa sentire un cretino per non aver compreso finora la sua grandezza.

Tocca far spazio sugli scaffali.


venerdì 4 marzo 2011

Strange days

Sono giorni questi, passati in larga misura in auto, imbottigliato in tangenziale dalle parti di Cormano in direzione Malpensa o allo svincolo con viale Certosa al ritorno, in direzione Linate.
Lo scalo in brughiera purtroppo è sempre più spesso la sede designata per riunioni o assemblee con i lavoratori.
Quell'aeroporto, nato per essere hub moderno, dehubbizzato da Alitalia con una ritirata senza precedenti nella storia dell'aviazione civile, rinato per merito di una low cost (Easy Jet) protagonista nel presente di un progetto ambizioso (una compagnia straniera, Lufthansa, che ne vorrebbe fare il suo hub fuori dalla Germania), proprio non gliela fa a piacermi.
E non è solo a causa della distanza che ci separa (circa 100 km a tratta).
Emana cattive vibrazioni.
Sarà forse vero quello che sostiene da sempre un'amica, e cioè che è stato costruito su di un cimitero indiano?
Brrrrrrrr....

giovedì 3 marzo 2011

The hazard of folk


The Decemberist
The king is dead
Capitol Records/Emi, 2011



Non conosco approfonditamente The Decemberist, però qualcosa nell'ascolto del nuovo album, The king is dead, non mi tornava. Allora sono andato a riascoltare il precedente del 2009, The hazards of love e ho avuto la conferma che, se la band è la stessa, la cifra stilistica è completamente mutata.

Laddove li trovavo eccessivamente oscuri e opprimenti, li ritrovo raggianti già dalla opener Don't carry it all, pezzo arioso, aperto da un'armonica soffiata a pieni polmoni e dalle poderose aperture dei cori.

Li sorprendo ad omaggiare The Band (Down by the water), Dylan (January Hymn; June Hymn) e le ballate irlandesi in odore di Waterboys (l'emozionante Rox in the box).
All arise! con il suo violino un pò alla Waiting on a sunny day è invece un country leggero come una piacevole brezza in una giornata di luglio, mentre con This is why we fight si gonfiano giusto un pò i muscoli.
E se nel crescendo e negli aaawwuuhhh!!! di Calamity song ci sentite i REM significa che avete sgamato l'ospitata di Peter Buck e della sua chitarra.



Che dire? A volte abuso del definizione una bella sorpresa, ma in quest'occasione davvero non trovo chiosa più opportuna.



martedì 1 marzo 2011

Catalogami questo! / 2

Continua il viaggio nei sottogeneri musicali. La definizione di quello di oggi è una delle più curiose del lotto. Si parla infatti dello Shoegaze.


Lo shoegaze o shoegazing è un genere musicale sviluppatosi nel Regno Unito nella seconda metà degli anni ottanta, che deve il suo nome (guardare le scarpe) alla curiosa tendenza dei chitarristi di guardare in basso mentre suonavano, come se stessero guardando le scarpe. In realtà questo atteggiamento era dovuto fondamentalmente all'esigenza di controllare gli effetti della chitarra, il cui abuso creava quel muro sonoro che caratterizza il genere. Violente stratificazioni di chitarre tese a ricercare un suono puro piuttosto che i classici accordi, parti vocali sognanti e quasi impalpabili (memori della lezione dei Cocteau Twins), giri di basso imparentati con quelli di Peter Hook dei Joy Division, ritmiche talvolta danzabili: queste le fondamentali caratteristiche di un genere che a distanza di più di un decennio dal suo apice continua ad essere seguito e ad ispirare diversi nuovi gruppi.

la scheda completa su wikipedia