lunedì 24 febbraio 2025

Luther, serie TV (2011-2023)


Luther è una serie tv andata in onda sulla BBC per quasi dieci anni, ma per un numero di stagioni, cinque, ed una serie di episodi complessivi, "solo" venti, che ne determinano la particolarità. La causa dell'irregolarità dello svolgimento delle stagioni (la quarta ha solo due episodi) è probabilmente da attribuire alla ridotta disponibilità di Idris Elba, il fascinoso attore protagonista, e ai suoi crescenti impegni nell'industria cinematografica. 

La serie modernizza il racconto da detective's story concentrandosi su un protagonista (il nostro Luther) geniale e scaltro, ma profondamente tormentato e su una serie di villain psicopatici, caratterizzati da un profilo morboso, sadico e disturbante, come se tutti i matti scocciati abitassero a Londra e prendessero di mira nei modi più brutali le donne. Luther si muove sempre con i medesimi vestiti (un pò come i personaggi dei fumetti o il tenente Colombo)  consapevole che prima o dopo, grazie alle sue intuizioni investigative, li prenderà tutti. Il detective ha un doppelganger, l'altrettanto intelligente, ma mentalmente disturbata e totalmente priva di scrupoli, Alice, interpretata da un'attrice dalla bellezza sghemba, Ruth Wilson. 

La serie comincia in maniera accattivante ma finisce presto per perdersi per la reiterata ripetitività di schemi narrativi che diventano sempre più inverosimili (le intuizioni letteralmente dal nulla di Luther, l'identificazione precoce dell'identità dei criminali che però, nonostante le milioni di telecamere piazzate per la città continuano a girare indisturbati), alcuni epiloghi poco inglesi e più ammerigani, conclusioni affrettate di buoni plot con characters che avrebbero potuto dare di più (l'agente degli affari interni Stark, interpretato da David O' Hara, nella terza) fino all'epilogo orrendo della saga con il film "Luther - Fino all'inferno" che ci presenta un Elba svogliato, botulinato, ai limiti dell'irriconoscibile e un impianto narrativo (involontariamente) comico. 

Una serie che si lascia guardare ma che ha dei grossi limiti nello squilibrio tra il realismo e la brutalità delle storie criminali narrate e i suoi protagonisti (Luther e Alice), che, specie col passare del tempo, diventano sempre più parodistici, perdendo di credibilità. 


Attualmente su: Sky (stagioni complete) e Netflix (film conclusivo)

lunedì 17 febbraio 2025

Robert McLiam Wilson, Eureka Street (1996)



Belfast, anni novanta. Tra bombe, violenza per le strade e povertà, Jake (cattolico) e Chuck (protestante) provano testardamente, e con fortune decisamente alterne, a sopravvivere.

Per un'amante della bellissima e travagliata terra d'Irlanda la lettura di Eureka Street è stato un passaggio per certi versi obbligato, un pò come chiudere gli occhi e viaggiare sulle ali della musica dei Pogues, dei Thin Lizzy o di Christy Moore, sulla visione di una manciata di film (Nel nome del padre, Il vento che accarezza l'erba, Una scelta d'amore, The commitments) o fantasticare sugli scritti di Brendan Behan o di Roddy Doyle. Peraltro, su questo romanzo, nei primi anni duemila, s'era agitato un notevole hype, veicolato, come da illustri pareri in quarta di copertina, da nomi autorevoli della nostra critica letteraria.

Beh, lo dico timidamente, dal basso della mia capacità critica, ma il mio giudizio non converge con l'entusiasmo che ha accompagnato il libro, tanto che all'epoca del primo acquisto, una ventina d'anni fa, lo mollai presto. Lo riprendo e ne completo la lettura oggi, e pur tuttavia le migliori intenzioni non bastano a farmi superare le stesse perplessità di allora, che attengono in gran parte alla caratterizzazione dei protagonisti: Jake, cattolico come l'autore e nel quale secondo me egli si identifica tratteggiandolo alla stregua di un classicissimo e scontato beautiful loser, e Chuck, la cui parabola da poveraccio a miliardario appare ai miei occhi inverosimile ai limiti dell'irritazione, pur considerandone l'interpretazione metaforica. Attorno a loro ruotano una serie di altri personaggi verso i quali Wilson cerca, a volte con scarso successo, l'empatia del lettore (il ragazzino emarginato, i genitori adottivi, la madre che scopre di essere lesbica in tarda età).

Ciò che a mio avviso invece funziona è la critica nei confronti dei media e di chi guardava i troubles dal mondo esterno. Una narrazione che ci viene trasmessa dallo scrittore come sciatta, superficiale e sempre alla ricerca di un pietismo che poco ha a che fare con l'approfondimento giornalistico di uno scenario tanto complesso.  In questo aspetto McLiam Wilson va anche oltre, denunciando a suo dire l'ipocrisia della componente politica dell'IRA, il Sinn Fein  (chiamato nel libro Just Us, che è la traduzione approssimativa del nome in gaelico appunto del Sinn Fein), dell'insensata violenza delle organizzazioni terroristiche, siano esse di cattolici (IRA, appunto) o protestanti (Orange Order, Red Hand Commando) che si sono rese responsabili, nel corso degli anni, non solo di brutalità e omicidi ai danni dei militanti degli opposti schieramenti, ma anche di gente comune e della micro criminalità che nasce dallo stato di miseria di quelle zone.

Ecco, qui il cattolico McLiam Wilson ci offre un punto di vista da insider certamente interessante, quasi più critico nei riguardi della "sua" fazione piuttosto che di quella degli orangisti, non necessariamente condivisibile, ma rivolta al sentimento della gente comune che voleva semplicemente vivere in pace senza paura di uscire di casa, andare al pub o essere identificata come cattolica o protestante, con le conseguenze del caso, nella parte sbagliata dell'Irlanda del Nord. 

Capisco bene che Eureka Street sia stato quasi un instant book, uscito nel momento giusto di massima attenzione ed empatia rivolta alla situazione nordirlandese e non è da escludere che l'emotività abbia recitato un ruolo nel considerarlo ciò che non mi pare sia, un capolavoro, ma che, sempre parere soggettivo, letto oggi abbia fallito la prova della storicizzazione.

Il romanzo è stato trasposto dalla BBC in serie tv di quattro episodi nel 1999, inutile dire che è introvabile nelle più diffuse piattaforme in streaming. Sarebbe interessante buttargli un occhio semmai dovesse riemergere.


lunedì 10 febbraio 2025

The Mavericks, Moon and stars (2024)


Io ci provo ad erudirmi ed evolvermi rispetto ai miei clichè musicali, ad uscire dalla mia comfort zone, fischiettando indifferente anche quando i miei riferimenti artistici di una vita si ostinano a pubblicare un nuovo disco, ma poi, per parafrasare Al Pacino nel Padrino Parte III, "proprio quando pensavo di esserne uscito, mi trascinano di nuovo dentro".

Perciò rieccomi a scrivere dei Mavericks, trent'anni o giù di lì dopo essermene innamorato con What a crying shame e dopo una dozzina di album (a cui vanno aggiunti una decina di titoli da solista del frontman Raul Malo), all'insegna di un meraviglioso melting pot musicale che passa con disinvoltura dal country al latin, dal rock and roll al croonering, dalle atmosfere da night club anni cinquanta al tejano. Oramai la band viaggia col pilota automatico, ma non per questo perde la capacità di scrivere ancora grandi, grandissime canzoni. 

Moon & stars si apre in un certo senso in modo inusuale rispetto alle abitudini del brand, non con il consueto ritmo scatenato di un'opener ma con la malinconia, attraverso un pezzo, The years will not be kind,  che descrive il tempo che trascorre subdolamente, usando con grazia le leve liriche della nostalgia e quelle musicali di una ballata messicana. La festa è solo rinviata e anzi arriva con ancora maggior godimento subito a ruota, con due pezzi, Live close by (visit often) e la title track in cui i Mavericks srotolano come un lungo tappeto prezioso tutta la loro arte incantatoria., coadiuvati da due artiste indie, in ambito pop-rock - Nicole Atkins -, e country folk - Sierra Ferrell - .

Sì perchè Moon & stars, più degli altri dischi della band, agisce da calamita ad attrarre cantanti e musicisti, riconoscenti a Raul Malo e ai suoi sodali per il ruolo svolto nel diffondere un coloratissimo caledoscopio  di atmosfere popolari universali ed entusiasti quindi di contraccambiare. Così la country singer Maggie Rose duetta su Look around you e il sassofonista Max Abrams su Here you came again. Ci sarebbe stato benone Zac Brown su un pezzo come A guitar and a bottle of wine e magari Paul McCartney e Ringo Starr su Turn yourself around, un brano che sembra uscito da Rubber soul e che allarga ulteriormente il perimetro di influenze musicali dei nostri. 
Ma non si può avere tutto, accontentiamoci di un'altro grande disco dei Mavericks, che nella loro carriera hanno solo sfiorato la grande affermazione mainstream (con il singolo Dance the night away e con I said I love you del solo Malo), ma che continuano ad essere punto irrinunciabile di riferimento per un pubblico di certo non giovane ma che trae linfa vitale dalla loro musica.

giovedì 6 febbraio 2025

My favorite things, gennaio 2025

ASCOLTI

49 Winchester, Leavin' this holler
Rory Gallagher, Irish tour (expanded)
Amyl and the sniffers, Cartoon darkness
Charli XCX, Brat
The Mavericks, Moon & stars
Ezra Collective, Dance, no one's watching
JD McPherson, Nite owls
Mooon, III
Tyla, ST
Albert King, Born under a bad sign
Scott B. Hiram, The one and only Scott B. Hiram
The halo effect, March of the unheard
Simona Molinari, Casa mia
Steve Earle, Alone again...Live
The Allman Brothers Band, Final concert 10 - 28 - 14

Playlist/Monografie

First post-punk revival 2000/2010
Replacements
Japan + David Sylvian









VISIONI

in grassetto i film visti in sala

Piove (3,5/5)
Kind of kindness (3,5/5)
Niagara (3/5)
Asfalto che scotta (3,75/5)
Stormy monday (3,5/5)
Le otto montagne (3,5/5)
Nosferatu (2024) (3/5)
4x4 (2,25/5)
Il caso Thomas Crawford (1968) (3,5/5)
Tatami (3,75/5)
Un uomo felice (2/5)
Challengers (3,5/5)
L'ultima settimana di settembre (2,5/5)
Emilia Perez (3,5/5)
Johnny il bello (4/5)
Killer elite (1975) (3,75/5)
Provaci ancora, Sam (3,75/5)
A complete unknown (3/5)
Una preghiera per morire (2/5)


Visioni seriali

Inspira, espira, uccidi - 8 episodi - Netflix (2,75/5)
Antonia - 6 episodi - Prime (3/5) 
A.C.A.B. - 6 episodi - Netflix (3/5)


LETTURE

Francis Scott Fitzgerald, Il grande Gatsby
Robert McLiam Wilson, Eureka street

lunedì 3 febbraio 2025

A complete unknown

 


Nel 1961 uno sconosciuto e squattrinato giovane arriva a New York dal Minnesota con uno zaino sulle spalle e una custodia di chitarra nella mano. Obiettivo l’ospedale in cui è ricoverata l’icona socialista del folk americano, il padre di tutti i busker: Woody Guthrie. Il giovane si fa chiamare Bob Dylan e quando, al capezzale del suo eroe ridotto al silenzio e alla semiparalisi da una grave malattia neurologica, alla presenza di Pete Seeger, si mette a suonare la canzone che ha scritto per lui, ai due anziani folk singers nella stanza appare immediatamente chiaro di essere testimoni della nascita del fottuto gesù cristo del folk.


Ah i biopic delle star musicali… Croce e delizia, tutti li vogliono, tutti ne rimangono delusi. A partire dai die hard fans che conoscono ogni minuscolo dettaglio della vita del loro beniamino e storcono il naso se non lo trovano riportato nella rappresentazione audiovisiva che vorrebbero facesse finalmente vivere gesta di cui fino a quel momento avevano solo letto e fantasticato. Se ci pensi, si contano sulle dita di una mano i biopic a tema musicale che sono riusciti nell’impresa di convincere a pieno i seguaci di quel determinato artista, e, a mio avviso, sono quelli che hanno trovato una chiave di lettura che riuscisse a travalicare la mera esposizione cronologica degli eventi o che svoltassero sui generi cinematografici. Faccio due esempi recenti: Rocket man, il biopic su Elton John, che si serve del musical o Lord of chaos, dramma a tinte gore sulla nascita del black metal norvegese.

Anche qui non tutti i fans furono soddisfatti (e anzi), ma i film funzionavano come opera compiuta a sè stante, e a mio avviso è questo l’obiettivo che ci si deve dare nel mettere a terra un biopic recitato, diversamente ci sono i documentari. In A complete unknow, posto il livello di difficoltà massima dell’operazione, che possiamo sintetizzare nelle tematiche di cui sopra, nell’enormità del personaggio trattato, nella storia prettamente artistica e priva dunque di elementi attrattivi di vita dissoluta&spericolata a base di camere di hotel distrutte, droga (che pure ha attraversato la vita di Bobby) e sesso a vagonate, siamo comunque davanti ad un’opera che si regge sulle sue gambe.

D’altro canto la regia di Mangold è una discreta garanzia. James non è mai stato considerato un fuoriclasse, ma uno che porta (quasi) sempre a casa il lavoro (Cop Land, Walk the line, Logan: the Wolverine, Le Mans 66), quello sì.

A complete unknown ci mette due ore e venti per rendere meno di quattro anni di vita di Dylan. Non poco. Da qui, credo, la necessità di saltare alcuni eventi importanti di quel periodo (il tour in UK, la liason con le droghe) che avrebbero inutilmente appesantito la storyline. In compenso la parabola artistica di Bob, dentro un orizzonte temporale in cui il cantautore ha realizzato quattro album (tre, se escludiamo l'esordio composto quasi esclusivamente da cover) e la maggior parte dei suoi pezzi entrati nella leggenda, è definita abbastanza coerentemente. Intendo dire che lo spettatore casuale per il quale Dylan è solo un nome già sentito la può inquadrare e capire a sufficienza.

Timothèe Chalamet ha creduto fortemente in questo ruolo, sostiene di essersi preparato per anni, è rimasto deluso dal fatto che Dylan non l’abbia voluto incontrare (maddai?!?) e se la cava bene sia con la parlata, che si modifica nel corso dell’asse temporale narrato, che col cantato, tenuto conto dell’inimitabilità del timbro dylaniano (non l’ho specificato per non passare per il solito nerdone, ma do per assunto che il film vada visto in lingua originale). Certo, la certosina attenzione nel replicare i particolari riportati dalle fotografie e dai video dell’epoca a volte restituiscono, nella figura di Dylan/Chalamet, un effetto straniante un po' da cosplayer, ma che ci vuoi fà.

Tutto okay quindi? Beh, no. Detto che la pellicola ha trovato faticosamente l’equilibrio tra fan product e audiovisivo per tutti, la parte più critica riguarda i comprimari, i character. Pete Seeger (un convincente Edward Norton) ci viene mostrato come un hippy buonista, insomma dai abbastanza noioso e inconcludente (nonostante l’incipit che lo vedeva a processo), tra canzoncine-scioglingua ed educational tv. In realtà Seeger è stato molto altro, ha scritto pezzi di palese contrasto alla politica americana e recuperato traditional anti militari aguzzi come coltelli. Di Woody Guthrie (Scott McNairy) si poteva trovare il modo di raccontare qualcosa della sua indiscussa centralità nella musica "contro", dalla parte degli ultimi, dei dimenticati, sarebbero bastate un paio di linee di dialogo. Stupisce poi la caricatura tratteggiata su Johnny Cash (Boyd Holbrook), visto il buon lavoro del regista sul suo biopic (Walk the line). Alan Lomax (Norbert Leo Butz) infine, personaggio epocale, che ha avuto un ruolo gigantesco nel recuperare la old time music americana, latina, europea, il folk, il rurale, il gospel, il blues, andando a registrare composizioni che diversamente sarebbero andate perse e che invece oggi fanno parte del patrimonio dell’umanità. Ecco, dipingere uno così come un talebano del folk, facendogli fare il villain del film, è un pò disonesto, superficiale e deprecabile. 

Perché guardando A complete unknown, al netto delle inevitabili semplificazioni, lo spettatore comune può farsi un’idea della scorbutica genialità di Dylan, un’artista che rifiuta i recinti in cui lo vorrebbero rinchiudere, che si evolve continuamente, come solo i veri Artisti (Mozart, Miles Davis, David Bowie, Lou Reed) fanno in maniera spontanea, ma perde un po' il contesto artistico che ha permesso l’eruzione artistico poetica di Bob e i sacrifici compiuti in nome della musica, della storia e della libertà che qualcuno (Guthrie, Seeger, Lomax) prima di lui ha compiuto, preparandogli il terreno.

Pur deludendo i fans e non convincendo appieno i “laici”, A complete unkown resta comunque un film decoroso, il secondo (prima ci fu il visionario Io non sono qui), sull’uomo che, arrivando da un paesino del Minnesota, ha rivoluzionato per sempre la musica popolare. Bestemmio se dico che una serie tv, di quelle fatte bene, non sarebbe una cattiva idea, per coprire almeno i primi vent'anni artistici di questo genio?