Alla soglia dei settanta, John Hiatt (classe 1952) incide finalmente un disco con il collega Jerry Douglas (1954). Ad unirli, oltre che una solida amicizia, la comune provenienza degli esordi artistici: Nashville, TN. Ed è proprio in questa mecca della musica (oggi un pò sputtanata) che i due decidono di registrare il proprio album nel mitologico studio B della RCA, dove alla fine dei cinquanta fu forgiato il sound countrybilly per mano di gente come Elvis Presley, Dolly Parton, Roy Orbison, Everly Brothers e molti altri.
I due compari sono totalmente a loro agio in questo ambito, liberi di spaziare in tutte le sfumature della musica americana popolare. Long black electric cadillac, voce inconfondibile di Hiatt e lap steel guitar di Douglas, suona come i Blasters con la spina degli ampli staccata, ma senza che ciò comprometta un'oncia dell'energia rockabilly. La mitologica dobro guitar di Jerry debutta nella seconda traccia (Mississippi phone boot) per un blues che lascia intravedere neanche da troppo lontano la sagoma di Buddy Guy che fa ciao con la mano. Dopo due soli pezzi è già chiaro che l'album segue sì un mood, ma non un unico genere. E infatti dopo l'incantevole smooth blugrass di All the lilacs in Ohio arrivano I'm in Asheville e Light of the burning sun due folk classici (sempre impreziositi dai ricami di Douglas), il secondo dei quali potrebbe stare comodamente dentro The ghost of Tom Joad di Springsteen.
Hiatt, in termini commerciali ha avuto pochi alti e molti bassi. Qualitativamente, al contrario, pur non avendo io ascoltato tutti i suoi lavori, mi sembra di poter dire che non abbia mai completamente sbagliato uno dei suoi venticinque dischi, in quasi cinquant'anni di carriera. Questo Leftover feelings conferma la tradizione, piazzandosi probabilmente tra i migliori degli anni zero.
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