giovedì 30 novembre 2017

Roberto Curti, Italia odia - Il cinema poliziesco italiano



Se si parla di cinema italiano di genere, il poliziottesco riveste senza dubbio un ruolo di primo piano. Da suo assiduo conoscitore, Roberto Curti nel 2006 gli dedica un intero volume di quasi quattrocento pagine nel quale accende un riflettore su tutti i film che hanno celebrato questo filone, dalla golden age (1972-1977) alla fase discendente (1978-1981), allargando l'analisi con un doveroso sguardo ai precursori del genere, le cui tracce partono già dagli anni trenta, fino ai suoi eredi imbastarditi passati  in televisione.
Curti compie un lavoro certosino ma mai agiografico, traspare l'amore per queste pellicole ma la giusta distanza critica non viene mai meno e si apprezza particolarmente la visione d'insieme rispetto ai cambiamenti della società italiana (eravamo nei meravigliosi/terribili settanta) ripresi dalle pellicole che spesso erano veri e propri instant movie.
Ogni aspetto caratteristico dei poliziotteschi è sviscerato, dai suoi protagonisti seriali (Merli, Adorf, Merenda, Lovelock, Silva, Saxon, Testi etc.), alle dinamiche narrative, al ricorso ad una violenza sadica e ignorante, alla povertà delle produzioni, spesso assemblate e girate in pochissimi giorni ricorrendo anche al saccheggio del "girato" di altri film, fino alle accuse di posizioni reazionarie di quelle pellicole.
Curti porta alla luce un mondo incredibile e variegato, composto da artisti dotati, rivalutati solo dopo svariati lustri, e onesti artigiani, cani maledetti, produttori appassionati e scaltri squattrinati i cui lavori finivano spesso in scalcinate sale di seconda, terza, quarta visione che alimentavano però un'industria, quella del cinema italiano, dove oggi quasi nessuno osa più investire fuori dalla comfort zone del binomio commedia/dramma. 

lunedì 27 novembre 2017

Quel maledetto treno blindato (1978)


C'è poco da fare, se ancora oggi ci si ricorda de Quel maledetto treno blindato di Enzo G. Castellari è solo ed esclusivamente per merito del solito Tarantino, che ne ha parlato in termini di ispirazione all'uscita del suo Bastardi senza gloria. In realtà, come avvenne per Django, il tributo si limita sostanzialmente al titolo delle pellicole, aiuta infatti ricordare come il film italiano, all'epoca, fu distribuito all'estero con il titolo di The inglorius bastards, come quello girato trent'anni dopo da Quentin.
Per il resto le due trame differiscono completamente, con quella del film di Castellari, ambientata nelle Ardenne nel 1944, che vede un gruppo di soldati americani, accusati di vari crimini (ammutinamento, furti, insubordinazione), essere condotti alla fucilazione. Durante la tradotta però i cinque riescono a fuggire. Inizialmente cercano di disperdersi, ma poi, per una serie di circostanze anche casuali, benchè identificati, vengono arruolati per una missione suicida: distruggere un treno nazista che contiene un prototipo di terribile arma che condizionerebbe l'andamento del conflitto a favore dei tedeschi.
Fatta la doverosa tara con le modalità di recitazione dell'epoca, quando andare sopra le righe per caratterizzare i personaggi era la norma, o con i budget risicati concessi alle produzioni nostrane (è quasi commovente la realizzazione delle esplosioni fatta con i modellini Lima dei treni), sarei ipocrita se sostenessi che il film non è divertente. A darmi sui nervi è piuttosto la gestione della questione razziale, con il personaggio bianco di Tony (Peter Hooten), che per tutto il film insulta per il colore della pelle il nero Fred (l'icona dei B movie americani Fred Williamson) e alla fine, invece di restarci secco, è l'unico a salvarsi e a realizzare una love story con la bella francesina di turno. 
Nel cast da segnalare la presenza dell'attore di origini svedesi, ma americano d'adozione, Bo Svenson, anche lui una lunga militanza nei film di genere, premiata da Tarantino con un paio di camei in Kill Bill 2 e, appunto, Bastardi senza gloria.

Si trova facilmente su youtube un bel documentario (I tarantiniani) sui protagonisti del cinema di genere italiano. Alcuni di loro, tra i quali proprio Castellari, spiegano il metodo infallibile che veniva utilizzato per testare l'efficacia di un titolo di una pellicola. Se una volta pronunciato il titolo il commento spontaneo era "mecojoni!" il titolo funzionava, se invece la reazione era un convinto "e sticazzi?" non sarebbe andato bene. E' lo stesso Castellari, con una buona dose di autoironia a fare l'esempio del suo film rispetto a quello americano di Tarantino: Quel maledetto treno blindato? E sticazzi?!? Bastardi senza gloria? Mecojoni!!!
Anche questo era il cinema di genere italiano.

giovedì 23 novembre 2017

L.A. Guns, The missing peace


L'undicesimo lavoro di studio degli L.A. Guns può essere considerato a pieno titolo come un vero e proprio reunion album, visto che vede tornare sotto lo stesso tetto Tracii Guns, unico membro fondatore superstite, e Phil Lewis, il singer presente sul trittico d'esordio del gruppo, rilasciato nell'orizzonte temporale dal 1988 al 1991 (L.A. Guns, Cocked & loaded; Hollywood vampires) e unanimemente considerato l'apice creativo della band.
Nel tempo la diaspora tra i due aveva raggiunto livelli tali di conflittualità da generare (caso abbastanza unico nel music business) due distinte L.A. Guns che giravano in tour spacciandosi ciascuna per la formazione autentica. Considerato il moderato bacino di consensi del combo, mi sovviene un paragone con i partiti della sinistra italiana che, pur ridotti ai minimi termini, continuano a litigare e scindersi. 

Comunque. Rinvigorite da un nuovo contratto con l'italiana Frontiers Music e corroborate dall'ottima accoglienza dell'ultimo tour (gli amici che li hanno visti al Frontiers Festival a Trezzo li hanno eletti mvp delle due serate),  le Pistole tornano a tuonare come non gli accadeva da tempo. Lo stile è quello ormai consolidato: un robustissimo sleaze-metal anello di congiunzione tra Motley Crue e Guns 'n' Roses. A fare la differenza questa volta è probabilmente un'ispirazione non banale e una convinzione ritrovata, ben evidenziate da un disco che parte con il piede a martello sull'acceleratore e non si ferma (tradotto, non piazza un lento) fino alla traccia numero cinque.
La dimostrazione che si possa fare musica derivativa (anche di sè stessi), e restare credibili, è data da una manciata di brani che si elevano sopra la comunque notevole media, in particolare Speed, tributo-rimando ai Deep Purple e alla loro Highway star, il cui testo viene brevemente ripreso, lanciata da un incipit assolutamente prevedibile, quasi calligrafico nel suo svolgimento, ma lo stesso capace di regalare un calcio nel culo che ti alza un metro da terra. 
L'andamento della tracklist è da manuale, con un lento come Christine piazzato strategicamente al posto giusto e un'ultima parte di titoli che tiene alta la tensione, grazie  alle vigorose Don't bring a knife to a gunfight e The devil made me do it prima delle growin' ballads conclusive The missing peace e Gave it all away.

Sembra incredibile, ma ancora oggi, a oltre sei lustri dai fasti e dalle illusioni dell'Hollywood Boulevard, esiste ancora qualcuno di quei (ormai attempati) protagonisti che riesce a regalare ai fan dello street/sleaze un disco imperdibile, certificando che, se si perseguono obiettivi rispondenti alla propria storia, l'unione paga. 
Assioma che purtroppo la sinistra italiana non comprenderà mai.

lunedì 20 novembre 2017

The neon demon (2016)



The neon demon, undicesimo lungometraggio del regista danese Nicolas Winding Refn, racconterebbe della solita ragazzetta americana di periferia vestita con l'abitino della domenica, che si trasferisce nella più grande metropoli americana (L.A.) con il sogno di sfondare. A differenza però di altre storie con il medesimo incipit, Jesse (Elle Fanning, sì, sorella di Dakota) non è destinata al marciapiede per mano di un pappone senza scrupoli, ma, grazie ad una bellezza che si capisce essere magnetica e irresistibile (ben oltre i pur apprezzabili tratti somatici), entra subito nel giro che conta. Jesse attira chiunque con la forza di una potentissima calamita. In particolare le ruotano attorno un fotografo dilettante (Karl Glusman), classico bravo ragazzo, una truccatrice (Jena Malone) e due navigate modelle (Bella Heathcote e Abbey Lee) e, purtroppo per lei, il manager dello scalcinatissimo motel dove soggiorna (un Keanu Reeves mai così marcio e rivoltante). Chiaramente l'impatto della ragazzina (neanche maggiorenne) sul luccicante e spaventoso mondo della moda ha un effetto dirompente. Da una parte fotografi affermati in odore di santità credono di aver trovato la loro musa, dall'altra modelle disposte a qualunque sacrificio per sfilare sono divorate da un'invidia feroce e incontenibile. Jesse, inizialmente innocente e candida, poi sempre più consapevole del suo potere, risalta in quel mondo e nei bassifondi di L.A., come un cristallo di neve candida all'inferno, condividendone chiaramente le medesime possibilità di sopravvivenza.

Refn ha dichiarato che The neon demon è un film sulla bellezza, sul ruolo ancora determinante che essa assume nei rapporti sociali e su come condiziona ogni aspetto della vita di chi la possiede, così come, all'opposto, di chi è costretto a farne a meno. Poi il film è anche altro, la parte più in superficie getta un fascio di luce sulle agghiaccianti modalità di sopravvivenza (disordini alimentari, interventi di chirurgia estetica oltre ogni immaginazione, sfruttamento di minorenni, accantonamento per "vecchiaia" di modelle ventenni) di un mondo dell'alta moda che non cambia mai, mentre un pò più in profondità scava a fondo nell'animo umano, fino a raggiungere quei luoghi oscuri dove non c'è più traccia di umanità ma solo desiderio. Un desiderio così intenso, edonistico e bruciante da consumare l'anima e rendere legittimo ogni atto finalizzato al suo raggiungimento.
L'andamento del film è molto lento, la sensazione di tragedia incombente traspare da ogni sequenza, sin dalla bellissima inquadratura iniziale (quella della locandina), la fotografia è al tempo stesso fredda, minacciosa, ma anche pulitissima, le inquadrature ineccepibili nel trasmettere pericolo, ansia, paura. Più d'un critico ha avuto da dire (alla presentazione a Cannes il film è stato accolto anche da fischi e risate di scherno) per le sequenze finali che sconfinano nel genere gore, ma quelle sezioni del film sono l'unica chiosa possibile della storia, con le due modelle antagoniste di Jesse che vogliono avere ciò che di soprannaturale lei possiede (SPOILER ALERT) letteralmente divorando la ragazzina. A una di loro andrà bene, mentre l'altra, evidentemente indegna di ricevere un dono così grande, pagherà il giusto prezzo per le sue azioni. 

The neon demon è un film che, ne sono certo, fino a poco tempo fa mi sarei rifiutato di vedere. La spirale al tempo stesso lucida e allucinata che accompagna Jesse prima nella sua autodeterminazione e poi nella discesa agli inferi è di quelle che trasmette angoscia e disagio, imprimendosi a forza nella memoria. Esattamente il genere di feedback disturbante che di norma fatico a sostenere. Il fatto di aver superato le mie idiosincrasie, e di averlo fatto per un film che per certi versi è un'opera d'arte, mi riempie di un orgoglio un pò infantile ma non per questo meno soddisfacente.

giovedì 16 novembre 2017

The Smiths, The queen is dead (1986)


Al mondo di certo non serve una nuova recensione di The queen is dead, degli Smiths, ma insomma, chi se ne fotte, questo disco è tornato prepotentemente ad appassionarmi e una traccia la voglio comunque lasciare. 
Quello che da molti è riconosciuto come l'apice creativo del gruppo, nasce in una fase di particolare tensione tra i membri della band, per una volta non causati dai dissidi del duo cardine (Morrissey/Marr), autore della pressochè totalità dei pezzi, ma dagli altri componenti (Rourke e Joyce), che rivendicano maggiore centralità (e, va da sè, ricavi economici) dal progetto.
Non è dato sapere quanto questi conflitti interni si siano poi riverberati nei lavori di registrazione, la certezza è invece il risultato finale: epocale. Dieci pezzi (ai quali andrebbero aggiunti le hit single Panic e Ask, non comprese nella tracklist per la nota filosofia sessantiana del frontman) che suonano come un instant greatest hits e che lasceranno una traccia indelebile sulla storia della musica pop inglese (e non).
Al netto del fascino dei pezzi più noti (Frankly mr. Shankly, Bigmouth strikes again, The boy with the thorn in his side), dell'inedita complessità e lunghezza dell'opener (The queen is dead), dell'eterea leggerezza della coda dell'album (There is a light that never goes out; some girls are bigger than others), che si manifesta attraverso uno spettro sonoro a cerchi concentrici perpetui, ad affascinarmi sono sempre stati i due pezzi più introspettivi, piazzati uno di seguito all'altro, modellati sui temi più classici dell'amore e dell'abbandono, che intrecciano modernità delle liriche e classicità del pathos. Mi riferisco ovviamente a I know it's over e Never had no one ever

The queen is dead cattura la quintessenza degli Smiths attraverso il raggiungimento del massimo zenith compositivo di Morrissey e Marr che, proprio un attimo prima di dire basta (il successivo Strangeways, here we come, sarà l'ultimo capitolo della storia della band), forgiano la loro immortalità.


lunedì 13 novembre 2017

Mine (2016)


In premessa una filosofia che mi impongo come linea guida sulle produzioni italiane: tutti i film che, con coraggio, esulano dai "franchising" imperanti del cinema nostrano, vale a dire il genere commedia o le diverse riproposizioni de Il grande freddo, cercando una via alternativa, più internazionale, a questa arte, per me partono a prescindere da un voto medio-alto. 
Ne consegue che anche questo Mine, in realtà co-produzione Italia-USA-Spagna, affidato alla regia del duo di trentenni Fabio Guaglione e Fabio Resinaro, qui all'esordio sul lungometraggio grazie alla buona affermazione di tre "corti", gode di qualche metro in vantaggio rispetto alla linea di partenza del mio giudizio.

Siamo in uno scenario di guerra non precisato, probabilmente nordafricano, Mike Stevens (Armie Hammer) e Tom Madison (Tom Cullen) sono l'avamposto dell'esercito americano, inviato in missione per eliminare un terrorista che dovrebbe essere ucciso da Mike, cecchino provetto. La missione fallisce, e i due si trovano a fuggire dai nemici nel pieno del deserto, diretti verso un villaggio di berberi dove dovranno essere recuperati dalle forze USA.
Nella fuga finiscono su un campo minato, Tom viene dilaniato da una mina antiuomo, mentre Mike si accorge di averne innescata una giusto in tempo per evitare di alzare il piede e scatenare l'esplosione. Comincerà da quel momento, con il soldato bloccato sopra la mina, una lotta contro il tempo, la stanchezza, lo sfiancamento fisico, le avversità climatiche del deserto e l'ostilità della sua fauna, in attesa del rescue team.

Ho voluto premettere la mia favorevole predisposizione ai progetti italiani coraggiosi prima di addentrarmi nel giudizio del film, in quanto Mine non è certo un film privo di imperfezioni: ho trovato infatti non pienamente convincenti recitazioni, dialoghi e alcuni sviluppi della trama. D'altra parte però mi ha convinto per la fotografia, alcune intuizioni poetiche (come quella dei soldatini di plastica, soprattutto in virtù della sequenza finale), gli aspetti onirici e la ricostruzione di parte dei flashback. 
Un film insomma che vale la pena vedere e sostenere, anche solo idealmente, per provare a spingere la lenta e tortuosa rinascita del cinema di qualità italiano.

giovedì 9 novembre 2017

MFT, settembre/ottobre 2017

ASCOLTI

Bob Wayne, Bad hombre
Flogging Molly, Life is good
Avatarium, Hurricanes and halos
Steve Earle, So you wannabe an outlaw
Jay Jay Johanson, Best of
Arch Enemy, Will to power
The Dream Syndicate, How did I find myself here
The Sister of Mercy, First and last and always
Ringo Starr, Give more love
Revolution Saints, Light in the dark
The Waterboys, Out of all this blue
Natalia Lafourcade, Musas
Prophets of Rage, ST
John Mellencamp, Sad clowns and hillbillies
The Smiths, The queen is dead
Ray Charles, Modern sounds in country and western music, vol 1 e 2
Joy Division, Permanent
Hellbound Glory, Pinball
Turnpike Troubadours, A long way from your heart
Marilyn Manson, Heaven upside down
LA Guns, The missing peace
King's X, Best of
Paradise Lost, Medusa
Cheap Wine, Dreams

LETTURE

Roberto Curti, Italia odia: Il cinema poliziesco italiano

VISIONI

Film:

Moonrise kingdom
American ultra
Il caso spotlight
Suspiria
The prestige
I cavalieri dalle lunghe ombre
The grey
Grindhouse
Cani arrabbiati
The neon demon
Quel maledetto treno blindato
La calda notte dell'ispettore Tibbs
La mala ordina
Bastardi senza gloria
Banditi a Milano
Un dollaro d'onore
Distretto 13
Le streghe di Salem
Hot fuzz
Kill your friends
Barry Seal
Frenzy

Serie televisive:

The Walking dead, 8
Prison break, 5
The deuce, La via del porno






lunedì 6 novembre 2017

Banditi a Milano (1968)


Se la critica è unanimamente concorde nel riconoscere a La polizia ringrazia (1972) di Stefano Vanzina (che per questo unico film ha rinunciato al solito pseudonimo di Steno) il valore di big bang del cinema poliziesco italiano, lo stesso si può dire per quello che è da tutti considerato l'antesignano del genere: Banditi a Milano (1968) di Carlo Lizzani.
Il film è un perfetto esempio di instant movie, laddove i fatti narrati, le rapine della banda Cavallero a Milano, si erano svolti solo qualche mese prima (il 25 settembre 1967) dell'uscita della pellicola, con il processo a carico dei quattro rapinatori in pieno svolgimento quando il film raggiunge le sale.
Lizzani, un curriculum che come prassi dell'epoca abbracciava generi diversi, ma con un costante focus verso la storia passata e presente (Achtung! Banditi!; L'oro di Roma; Il processo di Verona; Svegliati e uccidi; Mussolini ultimo atto) gira un film che inizia come un documentario, con i primi dieci-quindici minuti iniziali presentati alla stregua di servizi di telegiornali dove, attraverso un'intervista ad un commissario di Polizia (interpretato da uno sbarbatissimo Tomas Milian) vengono spiegate diverse dinamiche criminali legate al mondo della mala: droga, prostituzione, pizzo e violenza in generale. Solo successivamente a questa premessa si passa alla vera e propria narrazione della storia,  che ruota attorno a questi tre insospettabili incensurati torinesi (Pietro Canestraro/Pietro Cavallero interpretato da Gian Maria Volontè; Sandro Giannantonio/Sandro Notarnicola da Don Backy; Bartolini/Rovoletto da Enzo Sancrotti) che si rendono responsabili di rapine in serie in Piemonte, Liguria e Lombardia con la tecnica della doppietta o tripletta (due-tre banche rapinate in rapida sequenza approfittando dello spiazzamento delle forze dell'ordine). A guidare la batteria il Canestraro ex attivista del P.C.I., che ha abbandonato il partito per scarso decisionismo, vive la criminalità come un equilibratore sociale imponendo la sua personalità strabordante agli altri attraverso una prosopopea altisonante, irriverente, un florilegio verbale continuo, provocazioni a raffica e pressioni psicologiche. In questo ruolo, ca va sans dir, Gian Maria Volontè giganteggia, catturando l'occhio della macchina da presa dalla prima all'ultima posa.
La rapina fatale dei tre (più un ragazzino appena reclutato con il ruolo di "palo") è quella del Banco di Napoli in via Zandonai a Milano, dove, per una casualità, la Polizia arriva prima dei tempi previsti costringendo i rapinatori ad una fuga disperata, a folle velocità per le vie cittadine, con il fuoco aperto anche sui passanti per tenere a distanza le pantere dei poliziotti. Resteranno a terra tre morti e una dozzina di feriti e il Rovoletto, autista dell'auto dei rapinatori, in fuga a piedi, sarà miracolosamente sottratto dal linciaggio della folla. Alla fine i tre saranno tutti catturati e condannati all'ergastolo.

Come premesso, Banditi a Milano è sì un film "sociale" che riprende non solo un clamoroso fatto di cronaca, ma anche la fotografia della società italiana, in un momento (la fine dei sessanta), nel quale si cominciava ad intravedere quella deriva violenta che sarebbe poi deflagrata nel decennio successivo. Oltre a questo, alcune sequenze della pellicola (le rapine, gli inseguimenti in macchina), indicano la via all'incombente filone del cinema poliziesco italiano, croce e delizia delle nostre produzioni di genere.

giovedì 2 novembre 2017

Flogging Molly, Life is good


I Flogging Molly non sono mai stati una band prolificissima: hanno sempre privilegiato l'attività live a quella di studio, ma, insomma, anche per i loro canoni, sei anni di distanza tra un album e l'altro non sono la prassi.
Tant'è. Con Speed of light del 2011 ci avevano lasciato con la sensazione agrodolce di una formazione che, forse per paura dell'invecchiamento e della perdita di terreno, aveva virato su un punk rock troppo derivativo, confinando il proprio sound solo a limitati episodi che, fortunatamente, erano riusciti a rassicurare sulla capacità dei Molly's di graffiare ancora.
Sei anni e centinaia di date all over the world dopo, il gruppo del roscio Dave King finalmente rilascia il successore di quel disco contraddittorio, spegnendo quasi completamente effetti e distorsioni chitarristiche e cercando di recuperare l'epicità della tradizione irlandese, basata molto su strumenti a corda e flauto, intrecciata al brand della casa, cioè la capacità di fare casino.
Il risultato è sicuramente apprezzabile, sebbene le composizioni soffrano di un'ispirazione altalenante, con l'effetto di avere una tracklist per metà più che soddisfacente e per l'altra di livello non eccelso.
Curiosamente, i pezzi migliori sono piazzati all'inizio e alla fine del lavoro, con un bel brano malinconico ad aprire il disco (There's nothing left, pt.1), l'immancabile, furioso, combat folk (The hand of John L. Sullivan) e un esotico mid-tempo impreziosito da una sezione fiati (Welcome to Adamstown), poi si tracheggia un po' (con l'eccezione della vivace ballata Life is good) e il livello torna ad alzarsi approssimandosi alla conclusione con il convincente trittico Crushed (Hostile nations), HopeThe bride wore black prima dell'elegante e leggero irish-country di Until we meet again.
Dopo le folgorazioni di Drunken lullabies (2002) e Float (2008) ancora luci e ombre per i Flogging Molly. Questa volta perlomeno, nel dubbio, la band ha azzeccato la scelta di rifugiarsi nella comfort zone della terra di smeraldo che l'ha musicalmente ispirata.