Gli album di cover vivono di equilibri difficili e precari. Sono in molti ad esempio a sostenere che il ricorso al tribute album sia segnale inequivocabile dell'accensione della spia della riserva per l'artista in questione. E' altresì opinione diffusa che reinterpretare pezzi altrui abbia senso a condizione di sottoporli a stravolgimento o che le uniche cover che valga la pena proporre siano quelle di canzoni misconosciute, al nobile scopo di divulgarle ad un'audience più vasta.
Onestamente, non ho l'impressione che Calibro 77 dei Gang ci consegni una band in disgrazia, tutt'altro. Certo, i tempi della cosiddetta Età del pane (la trilogia che comprende gli album usciti tra il 1991 e il 1995, recentemente rieditata in cofanetto) sono lontani, ma i Severini hanno ampiamente dimostrato con il recente Sangue e cenere (disco dell'anno 2015 per Bottle of smoke), di avere ancora stimoli e passione, e di saperli magistralmente intrecciare come il giorno uno.
E allora questo tributo ad una manciata di artisti e di canzoni, ma soprattutto ad un periodo storico (gli anni settanta) intenso, saturo di idealismi, drammatico ed irripetibile della nostra storia, ha valenza di sincera e tenace testimonianza, fuori da ogni obbligo di presenzialismo discografico.
L'atmosfera del disco trova il proprio perfetto bilanciamento tra canzoni note e brani più oscuri, creando la giusta convivenza tra ristrutturazioni radicali e riletture rispettose, con una costante grande attenzione per i testi dei pezzi, che a prescindere dal pattern scelto, restano in doveroso primo piano.
Senza dimenticare che l'altro aspetto fondamentale tra quelli necessari per la riuscita di un album di cover è quello di farlo diventare personale al punto da tramutarlo, alle orecchie di chi ascolta, in un lavoro totalmente in linea con lo stile dell'artista.
Difficile, ascoltando la reinterpretazione di un big come De Gregori e della sua surreale Cercando un altro Egitto, qui proposta in versione accelerata con tanto di pattern di fiati, non riconoscere il grande lavoro di personalizzazione fatto dai Gang.
Così come è impossibile restare fermi in presenza del furioso rock and roll cucito attorno a Questa casa non la mollerò di Ricky Gianco, le cui liriche sono incentrate sull'occupazione delle case, tema che negli anni settanta aveva una valenza politica del tutto diversa dalla sopraffazione alla quale spesso assistiamo in questi anni di mercimonio delinquenziale delle case pubbliche.
Il mood che i Severini ricreano, masticandolo insieme al proprio brand sonoro consolidato, è, grazie anche alla conferma in fase di produzione di Jono Manson, riconducibile al genere chiamato americana (nel quale, per semplificare, confluiscono blues, folk e country), come emerge chiaramente dall'opener Sulla strada, che arriva da Sugo, uno dei dischi più celebrati di Eugenio Finardi, qui vestita da un driven blues veloce e d'impatto.
Sotto la voce pezzi irriconoscibili troviamo senza dubbio Sebastiano, in origine scritto e interpretato da Ivan Della Mea con uno stile asciutto che, riascoltato oggi, sembra quasi una versione caricaturale di Guccini, e che viene riproposto dai Gang con la spina degli strumenti ben attaccata e un impeto rock che esalta le liriche di denuncia dei comportamenti dei "padroni" di allora, non così diversi da quelli degli "imprenditori" moderni.
E a proposito di Guccini, a sorpresa, la sua Un altro giorno è andato, che si offriva geneticamente ad una versione country veloce, è invece proposta come splendida ballata in crescendo. Il De Andrè della epocale Canzone del maggio (dal notissimo passaggio "anche se voi vi credete assolti/ siete per sempre coinvolti" ) è resa invece con misura e rispetto, e non poteva essere altrimenti. Viceversa non perfettamente riuscita Venderò di Edoardo Bennato (altro pezzo gigantesco della musica italiana), una canzone apparentemente semplice da eseguire, ma che è dannatamente difficile da migliorare.
E a proposito di Guccini, a sorpresa, la sua Un altro giorno è andato, che si offriva geneticamente ad una versione country veloce, è invece proposta come splendida ballata in crescendo. Il De Andrè della epocale Canzone del maggio (dal notissimo passaggio "anche se voi vi credete assolti/ siete per sempre coinvolti" ) è resa invece con misura e rispetto, e non poteva essere altrimenti. Viceversa non perfettamente riuscita Venderò di Edoardo Bennato (altro pezzo gigantesco della musica italiana), una canzone apparentemente semplice da eseguire, ma che è dannatamente difficile da migliorare.
In compenso il dinamitardo errebì di Non è una malattia (Gianfranco Manfredi) spazza via ogni dubbio rispetto alla bontà dell'operazione e prepara il campo alla lucida disperazione de I reduci di Giorgio Gaber.
Calibro 77 raggiunge quindi l'obiettivo di ricreare il clima di una stagione meravigliosa, tesa, contraddittoria e satura di passione politica.
Attraverso la fotografia nitida di queste undici canzoni, i Gang ci sbattono in faccia uno scenario ben nascosto davanti ai nostri occhi. Dopo quarant'anni di storia italiana infatti, i problemi sono tornati ad essere gli stessi: disoccupazione, morti sul lavoro, sfruttamento, alienazione, immigrazione, diritto violato alla casa. A parità di struggimenti cos'è cambiato allora se non noi, che non ci sentiamo più parte di una classe tenuta insieme da pari condizioni e rivendicazioni, frantumati tra giovani e anziani, occupati e disoccupati, occupati tutelati e precari, italiani e stranieri (oggi il Sebastiano della canzone di Della Mea si chiamerebbe probabilmente Ahmed), perennemente colpiti da tante armi di distrazione di massa e convinti che il nostro fondamentale post su facebook (o su un blog) possa cambiare il mondo.
Che ci sia ancora qualcuno che riesce a farci riflettere su questa condizione, di per sé è già una gran cosa.
Calibro 77 raggiunge quindi l'obiettivo di ricreare il clima di una stagione meravigliosa, tesa, contraddittoria e satura di passione politica.
Attraverso la fotografia nitida di queste undici canzoni, i Gang ci sbattono in faccia uno scenario ben nascosto davanti ai nostri occhi. Dopo quarant'anni di storia italiana infatti, i problemi sono tornati ad essere gli stessi: disoccupazione, morti sul lavoro, sfruttamento, alienazione, immigrazione, diritto violato alla casa. A parità di struggimenti cos'è cambiato allora se non noi, che non ci sentiamo più parte di una classe tenuta insieme da pari condizioni e rivendicazioni, frantumati tra giovani e anziani, occupati e disoccupati, occupati tutelati e precari, italiani e stranieri (oggi il Sebastiano della canzone di Della Mea si chiamerebbe probabilmente Ahmed), perennemente colpiti da tante armi di distrazione di massa e convinti che il nostro fondamentale post su facebook (o su un blog) possa cambiare il mondo.
Che ci sia ancora qualcuno che riesce a farci riflettere su questa condizione, di per sé è già una gran cosa.