lunedì 29 maggio 2017

Steel Panther, Lower the bar


Sembra di vederli, gli Steel Panther, nel brainstorming propedeutico a raccogliere idee e spunti per la realizzazione un nuovo album, mentre scorrono la lista di generi su youporn: "Una canzone sul blowjob?" Già fatta. "Anal?" Fatta. "Glory hole?" Fatta. "Bukkake?" Fatta. Silenzio imbarazzato. "E mò che ci scriviamo nei testi?".
Per fortuna anche se il sesso, in tutte le sue pratiche, alla lunga può risultare ripetitivo, come unico elemento d'ispirazione per delle liriche, gli Steel Panther riescono a compensare questa prevedibilità con una vagonata d'attitudine glam, trasportata, direttamente della seconda metà degli ottanta e dai marciapiedi di Hoolywood Boulevard, ai giorni nostri.
Se nella mia recensione di All you can eat mi lagnavo di come la band la buttasse troppo in caciara, al punto da apparire quasi come una parodia dei gruppi del genere, con Lower the bar mi devo ricredere, essendo il lavoro la migliore risposta possibile alle mie perplessità: undici pezzi coesi, tosti e credibilissimi, senza alcun filler, nel solco più ispirato di Moltey Crue e Poison, ma con il valore aggiunto di canzoni con la C maiuscola.
Se proprio vogliamo citare qualche traccia, Goin' in the backdoor; Anything goes, Pussy ain't free e She's tight (scritta da Rick Nielsen con ospite Robin Zander, entrambi dei Cheap Trick) sono talmente esaltanti da farti venire voglia di vestire spandex e cotonarti i capelli (per chi se lo può permettere...), mentre sfido qualunque metalhead nostalgico a resistere dal cantare a squarciagola i ritornelli delle ballads That's when you came in o Wasted too much time.
Interessanti infine le due bonus tracks della special edition, Red headed step child e Momentary epiphany, che ci mostrano una band diversa, più riflessiva e seventies oriented, come ad aprire una possibile finestra sul futuro prossimo di Michael Starr e soci.

A questo punto non ci possono essere più dubbi: il trono del glam metal moderno è saldamente sotto i depilatissimi culi degli Steel Panther.

lunedì 22 maggio 2017

The Mavericks, Brand new day


Una lista pressoché infinita di generi musicali, legati insieme dal gusto per la musica retrò. Questo è l'elemento costante che inevitabilmente si trova su qualunque recensione che vuole dare un'idea del sound dei Mavericks.
Si va dunque dalla rumba al tex-mex, dal cubano al croonering, dal soft rock alla cumbia al country al rock and roll allo swing all'elegante pop dei sessanta e chi più ne ha...
Impostazione giornalistica ineccepibile, sulla quale anch'io mi sono ampiamente misurato con i miei post precedenti sul gruppo e sul singer Raul Malo (sono tutti qui), ma l'aspetto che ogni volta lascia sbalorditi è la capacità della formazione di comporre brani nuovi talmente convincenti che sembrano standards affermati, ripescati da repertori dimenticati di artisti del passato.
Anche in Brand new day (terzo album in quattro anni), se non si fosse capito, il cielo notturno dell'ispirazione dei cubano-americani si illumina a giorno. C'è tutta la magia dei Mavericks nel suono di frontiera, banjo e fisarmonica, dell'opener Rolling along, insieme al tentativo forse un po' autoreferenziale di riacciuffare la via mainstream attraverso l'arioso soft rock della title track, ad un tuffo nel più genuino entusiasmo fifties del Rat Pack con Easy as it seems, alla scossa dei ritmi cubani con l'irresistibile Damned (If you do) e la nostalgia per Roy Orbison con I will be yours.
Altro tema ricorrente, dal quale è altrettanto difficile affrancarsi, è quello della festa. Una festa caciarona e multietnica, nella quale bisogna conoscere diversi stili di ballo per non fare da tappezzeria e nella quale si ha la certezza che al momento giusto arriva il momento dei lenti nel quale giocarsi la chance con l'altro sesso.
Insomma, è dannatamente difficile uscire dai temi ricorrenti che ci vengono in soccorso quando parliamo dei Mavericks, molto più semplice è affidarsi alle sapienti doti dei quattro e concedersi, con quaranta minuti di musica, un pirotecnico giro del mondo.

lunedì 15 maggio 2017

Black Star Riders, Heavy fire


Scott Gorham, chitarrista storico dei Thin Lizzy (nella band dal lontano 1974, sebbene la sua presenza si sia alternata a qualche abbandono e rientro), insieme al vocalist  Ricky Warwick e all'altra ascia Damon Johnson, entrati nel combo che fu del compianto Phil Lynott all'alba del 2010 per una serie di tour, hanno iniziato a pensare di tornare in studio e buttare giù del materiale nuovo. Mi piace pensare che per rispetto a quello che hanno rappresentato i veri Thin Lizzy (e non per il rischio di cause), fermi discograficamente parlando a Thunder and lightning del 1983, abbiano optato per una band nuova di zecca - i Black Star Riders appunto - che restano nella scia del classico sound Thin Lizzy, ma si risparmiano imbarazzanti paragoni.
Insieme al bassista Robbie Crane (tra gli altri, Vince Neil Band, Ratt e Lynch Mob) e al batterista Chad Szeliga (Breaking Benjamin, Black Label Society) arrivano in pochi anni al terzo album del monicker (dopo All hell break loose del 2013 e The killer instinct del 2015), facendo importanti passi avanti in coesione e ragion d'essere.
Il sound (hard) rock retrò dei cinque muove su coordinate tutto sommato semplici e dirette ma, pur considerando il perimetro limitato del genere, non povero di idee. Sono diversi infatti i brani che si fanno ricordare: la title track, When the night comes in, la semi ballad Who rides the tiger, Testify or say goodbye. Per Dancing with the wrong girl ad affacciarsi è addirittura la new wave inglese dalle parti di Costello, mentre per la bonus track Fade non è una bestemmia evocare gli U2 del primo periodo americano.
Divertente infine la vena grafica dei lavori, che riprende un certo stile vintage di metà novecento.

martedì 9 maggio 2017

Marty Stuart and his Fabulous Superlatives, Way out west


E' un pezzo che Marty Stuart batte le polverose strade del sud degli states. Le sue prime incisioni risalgono infatti alla fine dei settanta e col tempo, insieme a qualche lavoro di successo, si è costruito una solida credibilità nell'ambiente che l'ha portato lontano dal mainstream country e a fianco degli interpreti più genuini del genere (consigliato da questo punto di vista, l'ascolto della raccolta di duetti Compadres).
Al pari dell'amico Johnny Cash, Stuart attraverso la sua arte si è spesso schierato a favore dei reietti della società, arrivando anche a pubblicare un concept sui nativi americani (Badlands: Ballads of the Lakota).
Con questo Way out west, Marty dà ancora una volta sfoggio del suo enorme eclettismo musicale, componendo un'opera che ha come protagonista principale il deserto, i confini dei territori, la deriva nella natura. Musicalmente parlando, l'album è una goduria pura per tutti quelli che, oltre a cullarsi nella melodia, si divertono a trovare riferimenti nelle composizioni.
L'alternanza tracce strumentali/cantate offre infatti infinite suggestioni, con i pezzi senza voce che rimandano all'epopea Morricone/Leone, ma anche a certa surf music tanto cara a Tarantino.
I testi e gli stili degli altri pezzi non sono da meno, spaziando dal migliore Joe Ely (Lost on the desert, con la camera puntata su un bandito alla ricerca di un bottino nascosto sotto il sole impietoso del deserto), alla splendida, lisergica, title track che richiama nel tappeto sonoro il brand classico dei Greateful dead.
Per arrivare al primo country/blugrass, bisogna attendere Air mail special, la traccia numero nove, ma ne vale la pena, perché il richiamo a Gram Parson è abbagliante e sincero, così come il ritornello di Whole lotta highway (With a million miles to go) è un telegramma affettuoso e urgente per Tom Petty e i suoi Heartbreakers.
Non vorrei con tutte questi riferimenti dare l'idea di un disco impersonale, derivativo o privo di spunti personali. Al contrario, Way out west ci consegna un autore che, alla soglia dei settant'anni, regala al suo pubblico e a tutti gli appassionati di border music un disco che è un compendio evocativo di tanta cultura del west più libero, pericoloso e selvaggio, con un approccio che più cinematografico non potrebbe essere.
Musica (anche) per gli occhi, insomma.

giovedì 4 maggio 2017

MFT, aprile 2017

ASCOLTI

Thunder, Rip it up
Gang, Calibro 77
Steel Panther, Lower the bar
Marty Stuart and his Fabulous Superlatives, Way out west
The Mavericks, Brand new day
Mark Lanegan Band, Gargoyle
John Mellencamp, Sad clowns and hillbillies
James Brown, Gold
Screamer, Hell machine
Black Star Riders, Heavy fire
Immolation, Atonement
Fabri Fibra, Fenomeno
Deep Purple, inFinite
Jamiroquai, Automaton
Bob Dylan, Triplicate
Body Count, Bloodlust
The Raphaels, Supernatural
Mary J Blige, Strenght of a woman
Kreator, Gods of violence
The Mahones, Rise again

LETTURE

Kent Haruf, Crepuscolo
James Brown, I feel good



VISIONI

Billions, stagione 2
24 Legacy
Sherlock, stagioni 2-3

martedì 2 maggio 2017

Thunder, Rip it up


I capelli ormai li portano corti, e se li incontri fuori dall'ambito musicale potrebbero tranquillamente apparirti come dei riservati manager della City. In compenso, quando attaccano i jack agli ampli non c'è dubbio alcuno che il fuoco sacro che ha fatto nascere i Thunder quasi trent'anni fa bruci ancora intensamente.
La seconda metà degli anni dieci cattura evidentemente in uno stato di grazia gli storici sodali Danny Bowes (voce) e Luke Morley (chitarre), se è vero che dopo uno iato di sette anni dal non eccelso Bang!, con questo Rip it up siamo per la band al secondo album in due anni, con risultati artistici leggermente inferiori al precedente Wonder days, ma sempre di invidiabile livello. 
Ormai i patterns creati dal manico di Morley e dal timbro vocale di Bowes sono inconfondibili. Un marchio di fabbrica magari di nicchia, ma di certo personalissimo, che muove molto su velocità mid tempo pregnanti di melodia, consolidando la tradizione dell'hard rock britannico (No one gets out alive, Rip it up, In another life) senza precludersi sconfinamenti nel rock n' soul (She likes the cocaine) e ballate al posto giusto (Right from the start; There's always a loser).
Insomma, per me è sempre uno smisurato piacere.