Sembra di vederli, gli Steel Panther, nel brainstorming propedeutico a raccogliere idee e spunti per la realizzazione un nuovo album, mentre scorrono la lista di generi su youporn: "Una canzone sul blowjob?" Già fatta. "Anal?" Fatta. "Glory hole?" Fatta. "Bukkake?" Fatta. Silenzio imbarazzato. "E mò che ci scriviamo nei testi?".
Per fortuna anche se il sesso, in tutte le sue pratiche, alla lunga può risultare ripetitivo, come unico elemento d'ispirazione per delle liriche, gli Steel Panther riescono a compensare questa prevedibilità con una vagonata d'attitudine glam, trasportata, direttamente della seconda metà degli ottanta e dai marciapiedi di Hoolywood Boulevard, ai giorni nostri.
Se nella mia recensione di All you can eat mi lagnavo di come la band la buttasse troppo in caciara, al punto da apparire quasi come una parodia dei gruppi del genere, con Lower the bar mi devo ricredere, essendo il lavoro la migliore risposta possibile alle mie perplessità: undici pezzi coesi, tosti e credibilissimi, senza alcun filler, nel solco più ispirato di Moltey Crue e Poison, ma con il valore aggiunto di canzoni con la C maiuscola.
Se proprio vogliamo citare qualche traccia, Goin' in the backdoor; Anything goes, Pussy ain't free e She's tight (scritta da Rick Nielsen con ospite Robin Zander, entrambi dei Cheap Trick) sono talmente esaltanti da farti venire voglia di vestire spandex e cotonarti i capelli (per chi se lo può permettere...), mentre sfido qualunque metalhead nostalgico a resistere dal cantare a squarciagola i ritornelli delle ballads That's when you came in o Wasted too much time.
Interessanti infine le due bonus tracks della special edition, Red headed step child e Momentary epiphany, che ci mostrano una band diversa, più riflessiva e seventies oriented, come ad aprire una possibile finestra sul futuro prossimo di Michael Starr e soci.
A questo punto non ci possono essere più dubbi: il trono del glam metal moderno è saldamente sotto i depilatissimi culi degli Steel Panther.