LA MUSICA
Caparezza, Museica
Bob Wayne, Back to the camper
Paul Simon, Essential
Paolo Nutini, Caustic love
Aloe Blacc, Lift your spirit
Sturgill Simpson, Metamodern sounds in country music
Matt Woods, With love from brushy mountain
Meshell Ndegeocello, Comet come to me
John Fogerty, Ceneterfield (25 years)
I SERIAL
The wire, quarta stagione
Game of thrones, quarta stagione
Gomorra
LE LETTURE
Elisa Davoglio, Onore ai diffidati
sabato 31 maggio 2014
giovedì 29 maggio 2014
28 maggio 2014: R.I.P. Golia
Ci ha lasciato Golia, il criceto russo che stava con noi da settembre del 2012 e che aveva saputo guadagnarsi con pazienza l'affetto incondizionato di tutta la famiglia.
Ora, non ho ben chiaro quale possa essere il paradiso per una specie che credo ormai da generazioni non conosca più la vita selvaggia: ma che si tratti di un bosco rigoglioso o di una gabbia full-optional, noi speriamo che Golia da ieri si trovi esattamente lì.
lunedì 26 maggio 2014
Joel Dicker, La verità sul caso Harry Quebert
La verità sul caso Harry Quebert racchiude in sé tanti generi diversi. Certo, il profilo più importante del libro è quello del giallo: c'è un mistero da risolvere nascosto nella coltre del tempo che torna a tormentare Aurora, una (per il resto) idilliaca cittadina del New Hampshire. Il cadavere di una ragazzina di quindici anni, Nola Kellergan, sparita nel nulla durante l'estate del 1975, viene improvvisamente rinvenuto nel giardino di uno stimato scrittore newyorkese adottato orgogliosamente dalla comunità locale. Da alcuni particolari del ritrovamento emerge che lo scrittore (Harry Quebert), oggi sessantasettenne, aveva una relazione con Nola all'epoca della sua sparizione. L'evento sconvolge la vita di Quebert, ma risveglia anche paure e segreti nascosti di molti abitanti di Aurora.
Ci sono molte altre tessere che vanno però a comporre il patchwork finale composto da Joel Dicker. La verità sul caso Harry Quebert è infatti anche un libro sulla scrittura, sul mestiere di scrivere, un omaggio a questa arte che sconfina quasi nella metaletteratura. C'è poi la componente autobiografica (anche se Dicker nelle note finali sembrerebbe depistare questa suggestione) e, seppur non si tratti dell'esordio dello scrittore svizzero, risultano evidenti le caratteristiche tipiche del romanzo di formazione.
Tutte queste componenti sono il più delle volte amalgamate dall'autore in maniera avvincente e funzionale alla storia, occasionalmente però emerge il ricorso ad una scaltrezza che va a discapito, se non della scorrevolezza della narrazione, di certo della sospensione dell'incredulità. E rimanendo sugli elementi di debolezza, il più marcato m'è parso essere quello della caratterizzazione dei personaggi, quasi tutti incastrati così strettamente tra lo stereotipato e il sopra le righe (l'invadenza isterica della madre di Goldman; la saccenza di Quebert; l'arguzia del sergente Gahalowwod) dal risultare già pronti per una trasposizione cinematografica ma quanto mai distanti dalla vita reale.
Considerato comunque quanto di buono resta nel romanzo (la soluzione del mistero, le rivelazioni su Quebert, un magnifico personaggio letterario che risponde al nome di Nola Kellergan) e la giovane età del suo autore (classe 1985) direi che il giudizio non può che essere positivo e la prospettiva ancora migliore.
martedì 20 maggio 2014
Inside Llewyn Davis, soundtrack
“You've probably heard that one before. If it isn't new, and it never gets old, it's a folk song”
Llewyn Davis
La domanda da porsi, in premessa alla recensione, dovrebbe essere: è ancora possibile, dopo cinquant'anni di folk "moderno" (lo so, sembra un ossimoro) trovare un disco suonato in questo stile, che risulti convincente e sappia emozionare?
Llewyn Davis
La domanda da porsi, in premessa alla recensione, dovrebbe essere: è ancora possibile, dopo cinquant'anni di folk "moderno" (lo so, sembra un ossimoro) trovare un disco suonato in questo stile, che risulti convincente e sappia emozionare?
La risposta è affermativa.
Inside Llewyn Davis riesce ad evitare con grazia i cali di tensione propri della formula soundtrack/compilation, trovando un'omogeneità di fondo che permette di apprezzare in maniera quasi uniforme l'intera tracklist (14 pezzi) presente nell'album.
Certo, molti dei meriti vanno alla profonda empatia con il film: impossibile dimenticare le sequenze che accompagnano l'interpretazione di alcuni brani da parte di un bravissimo Oscar Isaac nei panni dello sfortunato Davis, personaggio ispirato ai fratelli Coen da Dave Van Ronk, folksinger contemporaneo di Dylan, credo però di poter affermare che recuperi di traditional come Hang me, oh hang me o Fare thee well (nel quale si sente, eccome se si sente, la mano di Marcus Mumford) avrebbero potuto essere tranquillamente apprezzati anche senza l'ausilio delle suggestive immagini del grande schermo.
Il soundtrack, esattamente come la pellicola, trova un magico equilibrio tra ingenuità, impegno sociale e una profonda malinconia, elementi caratteristici del periodo storico, che trovano efficace rappresentazione in musica attraverso la sognante Five hundred miles (interpretata da Justin Timberlake, Carey Mulligan e Stark Sands); la spensierata Please Mr Kennedy (ancora Timberlake con Isaac e Adam Driver) e l'evocativa The Death of queen Jane (Isaac). Spiazza invece la scelta del produttore T-Bone Burnette di includere nel lavoro anche la classica irish death song The auld triangle (dal testo del poeta irlandese Brendan Behan, messa in musica dai Dubliners e suonata in seguito dai Pogues nel loro debutto), ma anche qui niente da dire: la versione "a cappella" che ci regalano Mumford e Timberlake è impeccabile.
Doverosa invece la chiusura con Bob Dylan (Farewell in versione inedita e acerba) e con l'ispiratore del progetto dei Coen, cioè Dave Van Ronk, dal cui repertorio viene proposta Green, green rocky road (presente anche nella versione di Isaac).
Tra i dischi dell'anno.
martedì 13 maggio 2014
The Amazing Spider-man 2, Il potere di Electro
Sono talmente subdole, le menti dietro al reboot cinematografico di Spider-Man, che non sai mai se detestarle o amarle incondizionatamente. Sì perché ad un fan della prima ora dell'Uomo Ragno, uno che sui fumetti tradotti in Italia dall'Editoriale Corno ci ha trascorso buona parte dell'infanzia e dell'adolescenza, il giro che ha preso l'epopea su grande schermo dell'Arrampicamuri proprio non va concettualmente giù. Della storia inizialmente ideata da Stan Lee ed illustrata da Steve Ditko prima e da John Romita poi è infatti rimasta solo una flebile traccia, il resto è sacrificato sull'altare dell'innovazione e della ricerca di carne giovane da appassionare, forzando il plot in una direzione che va ben oltre anche al restyling operato con la (per me ottima) serie a fumetti Ultimate SpiderMan.
Il problema è che la tua altezzosa perplessità svanisce d'incanto al termine della proiezione, lasciandoti non solo convertito al progetto, ma perfino commosso (per la sequenza finale del bambino in costume da Spidey) in compagnia di tuo figlio che ti deride per il tuo cuore di burro.
Già perché la genialità delle menti dietro alla produzione di The Amazing Spider-Man 2 sta nell'essere riusciti ad individuare un incredibile equilibrio tra innovazione e richiami alle radici del personaggio. In questo senso (spoiler alert!), la sorte di Gwen Stacy è mostrata, a partire dal look per finire alla posizione in cui resta esanime, drammaticamente appesa alla ragnatela del Ragno, in maniera quasi del tutto identica a quanto avvenuto sulle tavole originali realizzate da Gerry Conway, Gil Kane e John Romita (in Italia numero 133 de L'Uomo Ragno). E basterebbe questo a lenire i cuori malati di nostalgia della vecchia guardia dei lettori Marvel.
Ma i rimandi al mood classico dei fumetti non si fermano qui. Considerando anche la trilogia di Raimi, questo è probabilmente il film sull'aracnide umano che meglio riporta su grande schermo il lato leggero delle storie di Spider-Man: le battute, le gag, le situazioni surreali alle quali eravamo affezionati, e che sono a tutti gli effetti una caratteristica irrinunciabile dell'Uomo Ragno, trovano qui il giusto spazio, colmando finalmente una lacuna del personaggio.
Poi vabbeh, c'è l'incredibile lavoro su effetti speciali e scene d'azione, letteralmente mozzafiato: per limitarsi ad un esempio è impossibile restare indifferenti davanti al particolare delle pieghe del costume che si adatta ai movimenti del corpo mentre Spider-Man volteggia sulla città.
Infine i super-criminali. La scelta dei villain è funzionale alla storia, ma la loro resa è solo parzialmente riuscita: Electro/Jamie Foxx (inutile soffermarsi sul fatto che il character dei comics era bianco e si chiamava Elektro mentre qui perde la "k" ed è interpretato da un attore nero) è passabile, Goblin è rimandato, mentre il Rhino-robot è inguardabile.
Sono già annunciati altri due capitoli della saga (2016 e 2018) e se, come lasciato intuire, avremo a che fare con i Sinistri Sei (e con Felicia Hardy/Gatta Nera?), nonostante tutto il restyling del mondo ci sarà ancora di che divertirsi.
Maledetti, vi amo.
martedì 6 maggio 2014
Johnny Cash, Out among the stars
Lo affermo sommessamente, ma con convinzione. La storia di Out among the stars ci offre una bella lezione su come, spesso, in campo musicale, le convinzioni della critica, gli orientamenti degli hipster e le fluttuazioni dei gusti siano evanescenti come una finta di corpo di Jonathan.
Se fosse uscito a tempo debito infatti (si parla della prima metà degli ottanta), questo album, nella migliore delle ipotesi, sarebbe caduto nell'indifferenza più abissale che all'epoca circondava Johnny Cash, e nella peggiore sarebbe stato oggetto di scherno da parte dei soliti critici snob.
Invece, ironia della sorte, nell'anno domini 2014, dopo la canonizzazione ufficiale dell'Uomo in Nero seguita ai lavori con Rick Rubin, al film con Phoenix e al florilegio di biografie, questo disco vecchio di trent'anni è diventato uno dei più attesi della stagione discografica.
Non fosse triste sarebbe da ammazzarsi dal ridere.
Altro elemento da rilevare è come molti scopritori dell'ultima ora di Cash saltino dalla sua produzione relativa agli anni d'oro (probabilmente coperta da una raccolta di successi) agli American Recordings, ignorando così totalmente la voragine di un periodo artistico, sicuramente meno valido ma comunque interessante, equivalente ad oltre quattro lustri. Anche in questo caso è dolce la vendetta (postuma) di Cash, vista l'attenzione che ora sono tutti costretti a prestare a del materiale considerato di scarto.
A registrare le dodici tracce che compongono la release fu, all'epoca, un artista considerato bollito dalla sua stessa casa discografica, che infatti, da lì a poco (1985) avrebbe risolto il contratto commerciale con l'artista, con tutto quanto ne conseguì per lui in termini di frustrazione e desiderio di rivalsa. Eppure i lavori di quegli anni, riascoltati oggi, tengono bene l'usura del tempo: Silver (1979) appare ancora oggi una produzione eccellente, The baron (1981) lo segue a ruota e Class of 55 (1985, realizzato insieme a Carl Perkins, Roy Orbison e Jerry Lee Lewis) è un eccitante revival rock and roll inciso da chi, più di ogni altro, aveva titolo a farlo.
E' in questo contesto che nascono le sessioni di Out among the stars, con uno stile che si allontana dal consolidato boom chicka boom, marchio di fabbrica di Cash, per approcciare ad un mood più tipicamente mainstream country. Dal punto di vista della qualità audio il disco suona limpido e preciso, anche grazie al lavoro di sovraincisione e pulizia compiuto sui masters originali da gente come Marty Stuart (presente anche nelle registrazioni dell'epoca) e Buddy Miller, autentici nomi tutelari del folk USA.
Dal punto di vista prettamente artistico l'opera presenta più di un pezzo che merita di essere ricordato, a partire dalla title-track, che, a dispetto dello spensierato ritmo honky-tonk, riprende le fila dei racconti di quotidiana disperazione che tanto hanno contribuito a costruire su Cash il ruolo di cantore degli ultimi.
L'altro brano che dà assolute garanzie di longevità è She used to love me a lot: in entrambe le versioni in cui è presente, quella originale e quella più crepuscolare (dalle parti dei Wall of Voodoo), remixata da Elvis Costello, è sempre un pezzo emozionante e profondo, che varrebbe già da solo l'acquisto del disco.
Poi ci sono i duetti, due con June Carter, che si inseriscono a pieno titolo nella lunga tradizione canora della coppia (il mio favore va a Baby ride easy), e uno con l'amico nonché icona outlaw Waylon Jennings (I'm movin' on, celebre pezzo di Hank Snow). E ancora la leggerezza nashvilliana di If I told you who it was, il rockabilly di Rock and roll shoes, il lento After all e la chiosa di I came to believe, unico pezzo della raccolta scritto da Johnny.
L'impressione finale è che Out among the stars sia un lavoro che per il suo orientamento stilistico esalterà gli appassionati di musica country in misura maggiore rispetto ai fan dell'ultima ora dell'Uomo in Nero. Poco male, lo sapete bene che quando si ama visceralmente un artista si preferisce avere attorno pochi autentici adepti rispetto ad essere infastiditi dagli immancabili parvenu musicali di turno.
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