Pur essendo molto attesa, la prima autobiografia di Bruce Springsteen doveva misurarsi con alcune sfide non semplici.
La prima, superare in qualità l'altra bio del boss, titolata anch'essa Born to run e pubblicata da Dave Marsh nel 1980 (successivamente lo scrittore rilascerà anche Glory Days, a consuntivo degli anni ottanta), vera e propria bibbia dei fan più stagionati.
La seconda, riuscire a coinvolgere nella lettura quanti, da operazioni di questo tipo, si aspettano sempre di trovare quantità industriali di sesso, droga, party selvaggi e devastazioni di camere d'hotel (un pò alla The dirt o La sottile linea bianca) totalmente assenti, com'è noto, nella vita e nella carriera di Springsteen.
A ciò aggiungiamo le grandi aspettative che tutti nutrivamo in merito alla qualità della scrittura del libro: in considerazione delle capacità liriche e della proverbiale onestà intellettuale dell'artista, volevamo ne più ne meno un capolavoro.
Togliamoci subito il dente: Born to run un capolavoro non lo è.
Tuttavia l'autobiografia ci permette di trovare tra le parole, i racconti e i ricordi di Bruce, le impalcature di molte sue canzoni, gli spunti che hanno giustificato un passaggio, una strofa, una melodia.
Più di tutto ci permette di scavare (fin dove è consentito) nella personalità di uno degli artisti più influenti degli ultimi quarant'anni.
O meglio, sarebbe più corretto riferirsi alle diverse personalità dell'artista, perchè l'aspetto della narrazione in cui la figura pubblica dell'uomo instancabile in concerto, che si contrappone alla dimensione intima, privata, dell'essere umano attanagliato da mille dubbi e incertezze, spesso in preda alla depressione e ad un'ansia divorante, è la chiave di lettura dell'intera opera.
Un'opera molto sbilanciata verso l'infanzia e la prima parte di carriera di Bruce (basti pensare che per giungere alla boa degli anni ottanta, segnata dall'uscita di The River, bisogna arrivare ben oltre la metà delle 520 pagine del libro) e che ignora totalmente una parte della carriera del Boss (per fare un solo esempio, di Human touch e Lucky town, i dischi gemelli del 1992, non compaiono nemmeno i titoli).
In compenso sono onnipresenti the ties that binds, i vincoli più importanti delle nostre esistenze: la famiglia, sia quella che ci ha cresciuto che quella che siamo stati in grado di realizzare noi stessi. Molto, molto spazio è perciò concesso al difficile rapporto col padre, all'affetto per la madre e all'amore incondizionato per la moglie Patti e per i figli.
Oltre a ciò una meno prevedibile ma altrettanto salda riconoscenza nei confronti della psicanalisi e degli antidepressivi, al punto che, con un pò di coraggio in più, Bruce avrebbe potuto pescare in maniera più efficace nel suo repertorio per individuare il giusto titolo del libro: non l'enfatico Born to run, che a ben vedere riguarda solo l'aspetto pubblico della vita springstiniana, ma Two faces, oscura traccia contenuta in Tunnel of love che, alla luce dei contenuti dell'autobiografia, risulterebbe sua perfetta colonna sonora.
La lettura di Born to run, pur non essendo pratica imprescindibile è altresì caldeggiata a chi Bruce lo ama visceralmente pur riuscendo a conservare la giusta distanza e la doverosa capacità di analisi dei suoi alti e bassi, dei suoi capolavori e dei suoi compitini.
A chi ama l'artista ma non lo tiene sul piedistallo.
A chi si sottrae ai perniciosi dibattiti facebookiani che si trasformano in ottuse liti da ultras.
Dopo aver religiosamente coltivato per decenni l'affetto per l'artista, Born to run ci consegna ora la possibilità di affiancargli l'empatia per l'uomo e le sue tante debolezze.