Sono un paio d'anni che il nome di J.D. McPherson mi ronza in testa. Onestamente non so perché mi ci sia voluto così tanto per mettere su un suo disco, immagino che dipenda dalla scarsa logica che guida i miei ascolti. Curioso innanzitutto l'accostamento tra copertina e stile musicale. Che genere vi aspettereste voi con una cover del genere? Qualche tipo di indie pop ovviamente hipster e intellettualoide? E invece il buon J.D. è un sopraffino maniaco del suono vintage degli anni cinquanta, quello che predilige la sponda black (Little Richard, Jackie Wilson, Fats Domino) del rock and roll e del ryhythm and blues. Il ragazzone di Broken Arrow, Oklahoma, ha le idee precise riguardo la sua direzione musicale e le ha delineate in due album e un EP. In particolare questo Let the good times roll del 2015 le mette a fuoco in maniera sublime con l'apertura entusiasmante della title track e giù per undici episodi inediti all'insegna della retromania più onesta (non è che con questa roba ci si paghi il mutuo, eh) e convincente possibile ad oltre sessant'anni di distanza dagli originali. Questo disco è una piccola goduria che viaggia al ritmo degli Isley Brothers con It's all over but the shouting, rallenta con Bridgebuilder e chiude pigiando ancora sull'acceleratore con una Everybody's talking about the all-american, che sono certo sia piaciuta ad un certo Boss che conosco.
Back to the basics.
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