In pochissimo tempo i Volbeat si sono guadagnati sul campo, anche grazie ad un concerto strepitoso, l'ingresso in quella ristretta cerchia di band che, per l'attesa spasmodica nutrita nell'attesa delle loro nuove release, mi fanno sentire come se avessi ancora diciassette anni.
Ma non è certo a causa di improvvisi sbalzi d'umore adolescenziali se il successore del superlativo Outlaw Gentlemen and Shady Women, soprattutto nei primi ascolti, ha raffreddato molta della mia eccitazione.
Proprio nella recensione di quell'album del 2013, esordivo richiamando un vecchio slogan pubblicitario e, applicandolo all'hard rock, affermavo come la potenza fosse nulla senza il controllo. Quello che intendevo esprimere era come la particolarità della band fosse la capacità di districarsi agevolmente tra ritornelli killer e rimandi al metal più pesante, riuscendo in ciò a forgiare un complicato ed invidiabile bilanciamento tra melodia e asprezza dei suoni che è diventato nel tempo l'inconfondibile marchio di fabbrica del monicker.
Proprio nella recensione di quell'album del 2013, esordivo richiamando un vecchio slogan pubblicitario e, applicandolo all'hard rock, affermavo come la potenza fosse nulla senza il controllo. Quello che intendevo esprimere era come la particolarità della band fosse la capacità di districarsi agevolmente tra ritornelli killer e rimandi al metal più pesante, riuscendo in ciò a forgiare un complicato ed invidiabile bilanciamento tra melodia e asprezza dei suoni che è diventato nel tempo l'inconfondibile marchio di fabbrica del monicker.
Eccoci quindi alla principale criticità di questo nuovo Seal the deal & Let's boogie: le composizioni sono totalmente orientate verso, perdonatemi il termine desueto e forse inappropriato, una sorta di pop metal versione 2.0. Spariscono pertanto le accelerazioni, gli strappi, i repentini break thrash/death metal (anche nell'ambito di una stessa canzone, come quel capolavoro che risponde al titolo di Still Counting) e con esse si perdono anche un pezzo di sound dei Volbeat. Nel nuovo album non c'è dunque spazio per inedite Wild rover of hell, Who they are, Evelyn, Dead but rising o Room 24 viceversa sempre presenti nei precedenti lavori, a testimoniare la versatilità e la passione per tutto il genere metal da parte della band. Così come, d'altro canto, è accantonata la vena country folk, altro elemento stabilizzatore dell'alchimia del sound della band.
Detto dello spiazzamento che questa scelta mainstream ha comportato, non posso con altrettanta franchezza esimermi dall'elogiare la capacità del leader Michael Poulsen (definirei senza dubbio i Volbeat una one-man band, se non facessi un torto alla storia e all'autorevolezza dell'axeman Rob Caggiano) di scrivere canzoni, soprattutto refrain, che hanno più presa del Super Attak. Perciò, una volta superato l'ostacolo di patterns musicali un pò troppo simili e ripetitivi tra loro, non si può non celebrare pezzi come l'omaggio alla NWOBHM rappresentato dall'ottima The gates of Babylon oppure dalle anthemiche The devil's bleeding crown; Marie Laveou o Mary Jane Kelly che denotano peraltro l'impegno mai banale di Poulsen nel songwriting, scavando nel passato, nella cronaca o nella letteratura e spesso prediligendo personaggi femminili.
Per fare un esempio pratico di quanto si insinuino subdolamente i pezzi di questo disco nei ricettori cerebrali, la prima volta che ho sentito Goodbye forever l'ho irrimediabilmente bollata come la peggior canzone mai prodotta dal gruppo (in gran parte a causa del coro che fa da break, davvero indigesto). Ebbene, la mattina seguente mi sono svegliato con una melodia in testa cercando faticosamente di ricondurla ad un titolo, e che mi venga un colpo se dopo ore passate a scandagliare i miei archivi musicali mentali la canzone non fosse proprio Goodbye forever!
Se i pattern musicali di questo album sono parzialmente mutati, non cambiano invece altre abitudini consolidate, come quella di coinvolgere ospiti esterni a coadiuvare Poulsen, con il grintoso Danko Jones che duetta in Black Rose, o come la presenza di cover: Rebound, anche se sembra un omaggio ai Ramones, è la prima di esse e riprende un brano dei Teenage Bottlerocket, mentre l'altra è l'ancora più sorprendente Battleship chains dei mai troppo celebrati rockers Georgia Satellites.
La traccia migliore, non a caso quella che cambia marcia rompendo lo schema delle restanti dodici composizioni del lavoro, è a mio avviso la title track. Tirata e fragorosa come dio comanda è lasciata sola a sventolare la bandiera dell'hard rock più trascinante.
Se l'obiettivo di Puolsen e Caggiano era quello di avere un maggiore riscontro di pubblico rendendo il suono più commerciale, a giudicare dal numero di copie vendute il risultato è senza dubbio raggiunto, visto che Seal the deal & Let's boogie ha scalato le classifiche ufficiali generaliste fino al primo posto in Austria, Belgio, Danimarca, Finlandia, Germania, Svezia e Svizzera; il secondo in Canada e Norvegia e il quarto negli States. Mai prima d'ora i Volbeat avevano raggiunto una popolarità di queste dimensioni.
Che dire allora? Seal the deal and let's boogie, già a partire dal titolo, e nonostante i soggettivi punti di debolezza di cui parlavo, risulta comunque divertente in una maniera che definirei contagiosa, è tuttavia aspra la sensazione di una parziale perdita d'identità di una band che adoro e la preoccupazione che per i Volbeat sia iniziata la parabola discendente.