Ricordo di aver letto Lou Reed affermare come l'ascolto più
importante di un nuovo disco fosse il primo, in quanto quello è
il momento, unico e irripetibile, nel quale i nostri ricettori sono
terreno fertile, pronto ad essere inseminato dai nuovi germogli musicali. Beh, avessi dovuto esprimere un giudizio definitivo di The getaway
sulla base del primo ascolto, più delle parole sarebbe stata efficace
l'immagine del ciddì che volava fuori dalla finestra di casa mia
accompagnato da una sequela di improperi.
E invece.
Invece, complice un'agognata settimana di relax sperduto in una
zona montana dove il mio telefonino non ha campo, ho messo sotto il
nuovo lavoro dei Red Hot Chili Peppers (a tre-quattro canzoni per
volta, che è il limite massimo di tempo concessomi prima che mio
figlio reclami la mia presenza) e diamine, devo confessare che il tempo ha
lavorato a suo favore. Intendiamoci, il glorioso passato è
irrimediabilmente andato e non credo possa più tornare: una volta
regolati i conti con questo assioma si può apprezzare quello che di
buono è rimasto in un album (l'undicesimo a cinque anni di distanza
da I'm with you ) di un gruppo che è in giro da quasi
trentanni, i cui componenti in ogni intervista non mancano mai di ribadire lo
stupore di essere ancora vivi, dopo gli eccessi di gioventù.
I peppers moderni e salutisti, che possono permettersi di
scegliere un produttore di grido come Danger Mouse (dopo
l'accantonamento di Rick Rubin e il cordiale rifiuto di Brian Eno e
Nile Rodgers), invece, confezionano un tredici tracce all'insegna del
consolidato gusto per la melodia e per i patterns radio friendly. Ecco
allora, pronte per un massiccio airplay Dark necessities, Encore
e Goodbye angels, ma anche il lento The longest wave o
la disguided ballad Sick love.
In questi peppers appare abbastanza evidenze come le chiavi
della macchina siano consegnate a Flea e Kiedis. Sono loro i
depositari di ciò che resta dell'antico splendore che si dischiude in
pezzi come We turn red, This ticonderoga, Go robot (la mia
preferita) e Detroit, mentre
rimangono un po' più defilati le chitarre di Klighoffer e le pelli
di Smith. La chiusura è saggiamente lasciata alla malinconia e all'introspezione di classe con The hunter, e la psichedelica
(con incipit morriconiano) Dreams of a samurai (forse dedicata a Scott
Weiland e forse no):senza dubbio il brano meno accondiscendente dell'intera opera.
Insomma, una volta messa da parte
l'iconografia dei “nostri” Red Hot Chili Peppers si può scoprire
in The getaway un disco piacevole, confezionato con classe, intelligenza e misura. Questi sono peppers moderni: prendere o lasciare.
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