lunedì 30 maggio 2011

Anarchy inc. / Season 3







La cosa in fondo è piuttosto semplice. Finche c'è una storia ben scritta, finchè ci sono ritmo,tensione,l'opportuna dose di violenza, è più facile superare ogni perplessità riguardo situazioni chiaramente inverosimili. Come quelle di una piccola città della California gestita da interi lustri da una banda di motociclisti, oggi in buona parte cinquantenni arrapati, panzoni e con l'artrite, che agiscono neanche fossero gli ultimi cowboy americani custodi dei valori dei padri fondatori (sopraffazione e armi da fuoco, che altro?).




La faccenda si complica quando l'ispirazione degli autori cala, si ricorre a meccanismi narrativi tipici delle soap e si allunga il brodo in maniera indecorosa per arrivare a tredici puntate, laddove ci sono idee a malapena sufficienti a coprirne la metà. La terza stagione di Sons of Anarchy potrei limitarmi a commentarla così. Con le vicende che precedono la partenza del club per Belfast che allungano il brodo in misura davvero irritante.



Non vorrei passare per un fan integralista alla Cathy Bates/Annie Wilkes di Misery non deve morire, ma lo scarto qualitativo tra la seconda stagione e l'avvio della terza mi pare fragoroso. Troppe le incongruenze, eccessivo lo spazio dato alle storie di contorno (tutta la parte di Gemma fuggiasca, il padre e la badante sexy, Tig trasformato in macchietta, i cadaveri come se piovesse), la vicenda di Abel ( il figlio di Jacks) , la dirigente dell'ospedale col passato fricchettone: tutta roba che ha indebolito molto la credibilità della storia. Si può dire che l'unico elemento divertente della prima parte della stagione sia il cameo di Stephen King, nei panni di un ipotetico collega del Mr Wolf de Le iene.

Per fortuna, ad un certo punto Kurt Sutter è tornato dalla sua vacanza e ha ripreso in mano le redini della serie, ricordandosi in zona Cesarini del filo conduttore della storia (l'eredità morale di John Teller) e piazzando alla fine uno dei suoi intricati doppi giochi che gli amanti di The Shield avranno sicuramente apprezzato, in ricordo dei vecchi tempi. Ma una strepitosa conclusione, che prende per le palle i fan della serie e li obbliga a trattenere il fiato per il seguito, non può farne dimenticare altre otto-nove nelle quali ci si deve sforzare per ricordarsi la ragione per la quale si guardava questo telefilm.



Niente da dire invece, ma non è una novità, sulla musica, eccellente come consuetudine. Addirittura nelle puntate ambientate in irlanda il tema d'apertura (This life di Curtis Siegers) è impreziosito da un arrangiamento celtico (con una bella cornamusa in evidenza). Coerentemente, i quattro episodi di Belfast sono incorniciati, tra gli altri, da pezzi di Black 47, Flogging Molly, Tossers e Young Dubliners. La versione di Hey hey my my (di Battleme) che accompagna i momenti finali dell'ultimo episodio è semplicemente da magone.



In definitiva, un mezzo passo falso ci può anche stare, il bilancio compessivo è fin qui comunque in attivo. E speriamo che il tempo che ci separa dalla realizzazione della quarta stagione sia utilizzato proficuamente dallo staff di autori.

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