Non passa giorno in cui i giornali non riportino i dati allarmanti della crisi nel settore delle vendite dei cd musicali. Gli ultimi dati parlano di un crollo del 60% rispetto a pochi anni fa (2001). Esperti, artisti, rappresentanti delle major, uomini della finanza si affannano tutti a spiegare le cause, in primis il download illegale, dicono. Poi un cambiamento nella cultura musicale, in cui perde di valore possedere l'oggetto e quindi la musica diventa un banale bene di consumo, come una scheda ricaricabile per il telefonino. In Italia l'IVA al 20%. Infine la crisi economica, che taglia i beni considerati superflui.
Niente di tutto questo in realtà. Ho uno scoop in esclusiva per i fedeli lettori di questo blog che rivoluzionerà le teorie fin qui espresse, e forse permetterà di trovare una soluzione a questo drammatico problema. La causa del crollo delle vendite dei cd sta tutta nella loro confezione esterna di plastica trasparente. Ma quanto è complicato aprirle? E a quale prezzo? Unghie rotte, denti scheggiati! Ci si mette più tempo ad aprire la plastichina che quello che serve per ascoltare il disco!
L’epilogo della giornata di sabato e della manifestazione è stato il momento in cui, una volta a casa, ho regalato a Stefano il fischietto usato durante il presidio e ho tentato di rispondere alla sua domanda su cosa avessi fatto nel pomeriggio.
Ho provato a spiegargli che ero stato in manifestazione, e alla sua ovvia domanda su cosa fosse una manifestazione, ho semplificato un po’ dicendogli che una manifestazione è un momento in cui tante persone con bandiere rosse, musica e cori chiedono tutte insieme qualcosa a chi comanda l’Italia.
La sua risposta è stata: - e tu cosa hai chiesto, un fischietto? -
Mi sembrava un buon segno, quello di dover intervenire dopo un'ottima orchestrina jazz che sciorinava classici sostenuta dall'entusiasmo della gente.
L'organizzatore mi si era avvicinato per dirmi che avrei parlato dopo il brano che il combo stava per iniziare. Parte una versione strumentale di Georgia on my mind, mi rileggo per la centesima volta il testo dell'intervento. Ho adosso la tensione giusta.
Il presidio della CGIL in piazza San Carlo era iniziato poco dopo le tre, come spesso avviene in queste occasioni, la musica alternata ai comizi.
Erano previsti una dozzina di interventi, il mio era il sesto in programma.
La parte musicale era iniziata con una giovane cantante padovana "scoperta da Cristina Donà", seguita da alcune formazioni di musica classica. Ed infine la Jambalaya band, alla quale era toccato lo spazio più ampio e il successo più netto.
Il brano stava per finire, mi schiarivo la voce, un tizio si avvicina all'organizzatore e gli dice qualcosa, lui si gira e mi guarda. Poi si avvicina e mi fa: - mi spiace, dobbiamo tagliare tutti gli interventi dei delegati, perchè anticipiamo il discorso conclusivo del tizio della segreteria nazionale . -
Io gli faccio, ok, no problem, ma intanto mi affloscio.
Il discorso del nazionale funziona alla grande, tocca tutti i temi di questi giorni con l'enfasi e la retorica giusti per queste occasioni.
Deluso, saluto tutti i miei "sostenitori" e me ne vado a casa.
Mi riprenderò solo il giorno dopo, però alla grande, in val seriana, al concerto di Hayes Carll.
Non sempre le grandi passioni più travolgenti sono accese da colpi di fulmine, anzi. In effetti quando ci mettono il loro tempo, conquistandoti giorno dopo giorno, è persino più bello.
La faccio breve, visto che sto parlando di un cantante country folk, e non di una bella gnocca. Il nome è Hayes Carll, e il suo Trouble in mind, se continua ad affascinarmi a questo modo, finisce nella top ten del 2008. Il ragazzo sa scrivere canzoni, lo garantisco. Ha il senso della melodia e del ritornello, e a giudicare dal breve, irresistibile, video a fumetti che trovate in basso, anche quello dell'umorismo. Il disco esce per la magnifica Lost Higway, ma Hayes è al suo terzo lavoro (i primi due, ancora da ascoltare erano indipendenti). Nel suo stile personale richiama Gram Parson (drunk poet's dream, it's a shame); Steve Earle ( girl downtown); Bob Dylan ( Bad liver and a broken heart), ma insomma ha personalità e classe ben definite, che emergono in tutto il loro splendore in ogni singola traccia, non c'è un pezzo debole in questo ciddì. Sono consapevole della scarsa attrattiva che il country (alt, rock, folk, based, honky tonky, hillbilly, outlaws) gode tra i pochi che mi leggono, ma provate ad ascoltare la versione che Carll fa dell'abusata I don't wanna grow up di Tom Waits (crooner country?) e magari, fosse anche solo per questo lavoro e non per tutto il genere, potreste cambiare idea. Ho scoperto tra l'altro, che giusto all'apice della mia infatuazione per Trouble in mind, Hayes è in Italia (domani, il 28 e il 29) tra Lecco, Bergamo e a Milano (Casa 139).
Mi hanno proposto di fare un intervento alla manifestazione della Cgil di sabato, in piazza S. Carlo a Milano. Non ho idea di quanta gente parteciperà, la manifestazione comincia al mattino, mentre al pomeriggio, quando dovrei parlare io (per pochissimi minuti) è previsto un presidio di tutte le categorie Cgil. Ad ogni modo, pur avendo superato da tempo la paura di parlare in pubblico, è una cosa che un po’ mi mette strizza. Naturalmente dovrò parlare di Alitalia, e ovviamento avrò un testo (che sto elaborando con un orecchio alla trattativa Alitalia, che pare sbloccarsi), e non andrò certo “a braccio”, il che mi rassicura in caso di eventuale attacco di panico con conseguente scena muta. Ricordate l’onorevole-macchetta, che era solito fare ai suoi inizi Carlo Verdone (quello strabico che parlava come se fosse sempre in comizio, ripetendo in continuazione: “sempre teeesooo”)? Ecco, mi immagino fare un comizio di questo tipo, un po’ anni 70, un po’ alla funzionario del P.c.i., un pò alla Pietro Longo.
Il mio consueto panorama mattutino, dalle parti di Pioltello.
Due corsie stradali farcite di auto, furgoni e camion. Le ragazze sole nelle altre macchine sembrano tutte carine, chissà come mai. Qualcuna fa finta di niente e guarda con la coda dell'occhio se ne vale la pena. Molti fumano, anche con i finestrini sigillati e l'adesivo bebè a bordo sul lunotto. Altri leggono la gazzetta o ridono convinti (spero che abbiano la radio accesa, altrimenti è il primo sintomo di una patologia tipo "Un giorno di ordinaria follia").
Già a quell'ora (7:30-8:30) un numero non trscurabile di persone litiga al cellulare, secondo me gli interlocutori si dividono equamente tra amanti e sottoposti.
A me piace ascoltare la mia roba e cantare, quando ho con me i testi, altrimenti in coda ho scoperto che preferisco le parole, un radiogiornale o un dibattito, in genere su radiopop o sulla RAI. So che in molti a quell'ora ascoltano Platinette su radio deejay, ma io la trovo francamente insopportabile.
Gli scuteroni s'infilano a destra, a sinistra e al centro (a pensarci ricordano in questo un pò Veltroni) e quando sono a distanza di sicurezza capita che ti mandino a cagare con movimento disinvolto della mano.
Con l'eccezione dei Ford Transit dei magutti, gli altri sono sempre tutti soli nelle macchine, altro che car sharing.
E' come se in quei momenti un'intrusione nel nostro personale guscio di protezione dal caos esterno sia sgradita e imbarazzante.
Essere obbligati a fare conversazione, preoccuparsi del micidiale alito del mattino, ricordarsi di non infilarsi le dita nel naso, essere affabili già così presto di mattina, sono regole sociali che possono, devono aspettare.
A volte penso, anche se so di formulare un'iperbole, che la vera natura della gente emerga in auto. E' lì che vedi il super controllato sbroccare se non gli viene data una precedenza, o il ragazzino un pò sfigato che sfreccia strafottente in barba alla sicurezza e al buon senso. Non è la loro vera personalità quella? Il loro modo di essere al netto delle convenzioni imposte?
In questo senso gli unici sicuramente coerenti con il loro way of life sono i magutti bergamaschi. Qualcuno l'ho conosciuto e garantisco che sono proprio così, primitivi e folkloristici anche giù dal furgone.
Come ho già avuto modo di scrivere, non ricordo se qui o altrove, la progressiva e inarrestabile sfericità della mia panza mi ha spinto a trovare un'attività fisica da svolgere con una minima continuità, e visto che gli sport che normalmente si fanno a scopo rimessaggio (footing, nuoto, bici) mi annoiano e considerato che la squadra di calcetto degli amici storici si è ritirata, sono riuscito ad inserirmi (grazie a mio cognato che fa l'allenatore/giocatore) in una squadra di calcio a sette, nella quale mi limito ad allenarmi, ogni mercoledì (ho pensato che i dirigenti della squadra siano tutti milanisti, visto che mercoledì è giorno di champions...), auto escludendomi in partenza dagli impegni di campionato la domenica mattina.
Riprendere dopo tanto tempo un'attività di questo tipo ha risvegliato in me vecchie sensazioni sopite, alcune positive, altre meno, mettendomi in un certo senso di fronte ad una piccola sfida con quello che è la mia personalità, il mio carattere, il mio modo di rapportarmi agli altri.
E' strano tornare a giocare a calcio appena dopo aver toccato i 40, dopo più di quindici anni di asettico calcetto, con tutte le differenze del caso: l'odore dell'erba (per quanto giallognola e striminzita ), le diverse distanze in campo (ho sempre sostenuto che il calcio a 5 ha più attinenza, per dinamicità, con il basket), la "misura" dei tiri e dei passaggi, l'esposizione agli agenti atmosferici, il pallone di cuoio, le scarpe a tredici da lavare, il fango su maglietta e calzoncini, le vesciche ai piedi, la fatica. E guardate che questa è la parte che apprezzo!
L'introdursi da perfetto estraneo in un gruppo già consolidato di 15-18 persone, individui che ben si conoscono tra loro, e che in qualche modo ti misurano, sia come calciatore che come persona, è invece, posta la mia poca scioltezza nelle relazioni sociali, l'ostacolo più grosso.
Ovvio che se sei un fenomeno le distanze con gli altri si azzerano in fretta, ma io, oltre a non essere mai stato un fulmine di guerra , adesso ho anche una condizione fisica che definire approssimativa è eufemistico , e quindi arranco doppiamente.
Però questo appuntamento settimanale mi carica e mi aiuta a buttare fuori un pò di tensioni lavorative (che di questi tempi non mancano), mi garba, mi accorgo che lo attendo con impazienza, mi piace entrare in campo, sentire il prato che si arrende sotto i miei tacchetti, gli esercizi prima della partitella, la distribuzione delle pettorine, arrivare al campo dal lavoro ascoltando heavy metal, come facevo da ragazzino, e guidare al ritorno verso casa , letteralmente sfatto, al ritmo pacato del country folk .
Per ora insomma ne vale la pena, e a culo tutto il resto (cit).
Posto questa sugli AC/DC, che tra l'altro stavolta vorrei riuscire a vedere dal vivo, perchè è interessante dal punto di vista delle diverse scelte strategiche del music biz e per i dati di vendita dei dischi di catalogo.
AC/DC, alla Sony anche il catalogo
Il nuovo album degli AC/DC “Black ice” segna il passaggio di Angus Young e compagni dalla Atlantic/Warner, la casa discografica che li ha lanciati, alla Sony (etichetta Columbia): armi e bagagli, cioè con intero back catalog al seguito, dal momento che la band è proprietaria di tutti i suoi master. Sullo scacchiere discografico si tratta ovviamente di una mossa pesante, dal momento che si calcola che tra il 2004 e il 2007 gli AC/DC abbiano venduto negli Stati Uniti più cd di chiunque altro a parte i Beatles: 7 milioni di album contro gli 8 dei Fab Four, i 6 milioni dei Pink Floyd, i 5,1 degli Eagles, i 4,9 dei Rolling Stones e i 4,7 dei Led Zeppelin; un risultato reso ancora più eclatante dal fatto che, come noto, il gruppo (proprio come i Beatles ) non ha ancora concesso liberatorie per la vendita della sua musica su Internet. L’embargo digitale viene violato per la prima volta proprio con “Black ice”, che sarà venduto on-line mentre l’esclusiva della distribuzione fisica, negli Usa, è stata concessa ai grandi magazzini Wal-Mart già scelti dagli Eagles e da altri artisti .
Le pagine degli spettacoli sui quotidiani dedicano ormai uno spazio ai serial Tv compatibile a quello concesso ai film in uscita al cinema.
Ieri su Repubblica leggevo di questo In Treatment, che parte lunedì su Cult (Sky).
La serie racconta le sedute di psicoanalisi tenute da Gabriel Byrne (attore che tra l'altro apprezzo molto) ed è strutturata in puntate da una mezzoretta, che contengono una seduta per volta, dedicate ad ogni giorno della settimana.
Per cui nelle puntate che riguardano il lunedì seguiremo sempre la terapia di un preciso soggetto, in quelle del martedì di un altro, e via dicendo.
Se non ho interpretato male la scheda che ho trovato in rete, gli episodi dovrebbero essere 43 (!).
Dopo la rottura di venerdì notte, pare che le organizzazioni sindacali confederali (Cgil-Cisl-Uil-Ugl), abbiano ricominciato a dialogare con la nuova proprietà di Alitalia, individuando in mille assunzioni in più il viatico per definire entro la fine del mese un accordo generale.
Il grosso ostacolo resta il contratto di lavoro da applicare al personale Cai. Ho visto la bozza presentata ai sindacati per il personale di terra e non ci possono essere altre considerazioni se non quelle fatte a livello nazionale, cioè che la proposta è inaccettabile, in altre condizioni sarebbe stata evidente la provocazione da parte dell'imprenditore allo scopo di causare la rottura delle trattative.
Per limitarsi alla parte economica del documento, il personale di terra Alitalia avrebbe perso tout court, attraverso interventi su paga base, notturno e taglio delle maggiorazioni sullo straordinario, circa il 30% della retribuzione mensile.
Ora, so benissimo che sono in molti a pensare che questa gente ha vissuto per anni di condizioni contrattuali da favola (e probabilmente per il personale più anziano è anche vero) e che non esiste quindi grossa solidarietà nei loro confronti. Ricordo però che già nel 2004 è stato dato un grosso giro di vite con Cimoli (questo intervento ha portato il costo del lavoro Alitalia tra i più bassi in Europa), che da tempo esistono "doppi regimi" (condizioni contrattuali di sfavore per i più giovani) che portano un neo assunto a guadagnare, nei primi tre-quattro anni di lavoro, dai 900 ai 1100 euro al mese, con turni h24, 7 giorni su sette, festivi inclusi e che Alitalia viveva anche del contributo di migliai di contratti precari, reiterati negli anni.
Pensate cosa potrebbe significare un taglio delle proporzioni annunciate su questi stipendi.
Esiste anche un'altro grosso problema nell'eventuale firma di un contratto di lavoro così penalizzante. Cioè l'effetto domino. Tutto il trasporto aereo di terra ha indicativamente le condizioni normative ed economiche di Alitalia. Un secondo dopo la riduzione dei diritti per il personale della futura Cai, ci sarebbe la richiesta di adeguamento al ribasso per il personale degli aeroporti, delle altre compagnie, del catering e via discorrendo. Un bagno di sangue per i lavoratori, soldi come se piovesse per gli imprenditori.
Ultima considerazione sulla difficile trattativa in corso, la frammentazione del tavolo. Tolti i quattro sindacati confederali, le altre sigle, che i media chiamano autonome, ma che in realtà dovrebbero essere definite "di mestiere" (Anapac e Up sono associazioni che tutelano i piloti, Anpac e Avia assistenti di volo, Sdl è un sindacato generalista, ma in Alitalia conta come iscritti quasi esclusivamente assistenti di volo) ed è quindi evidente come il loro contributo è finalizzato esclusivamente a tutelare la propria categoria,qualitativamente prestigiosa, ma non rappresentativa del totale dei dipendenti.
Dovrei dire qualcosa sul complesso del piano Alitalia strutturato dal governo, mi limito ad un riassuntino veloce e schematico.
Nei fatti Berlusconi, premier in pectore, blocca la vendita di Alitalia ad Air France. Dopo le elezioni vende sottocosto ad una cordata rigorosamente italiana la parte redditizia della vecchia Alitalia (rotte, slot, parte della flotta), lo stato paga (parte) dei debiti di quello che resta, i lavoratori sono per quasi un terzo licenziati (seppur attraverso cigs e mobilità, e quindi ancora con i soldi dello stato) e la rimanenza riassunti con un contratto bello leggero, per finire in bellezza cerca di nuovo Air France.
E chi non ci sta (opposizione, sindacati, perfino dipendenti) è responsabile del fallimento della compagnia.
E pensare che c'è ancora qualcuno che non gli è grato!
Sarà stata la sofferenza della schiena bloccata, sarà stata un pò di malinconia che sempre mi coglie quando vedo i film da solo al pomeriggio, saranno state indubbiamente le atmosfere e i temi del film, ma durante La ragazza del lago qualche lacrimucccia l'ho spesa. Lo dico perchè in questi casi perdo un pò di obiettività nel giudizio, l'emotività mi appanna il senso critico.
Toni Servillo è il commissario Sanzio, un uomo che all'inizio intuiamo essere abituato al silenzio e alla solitudine, anche se porta la fede al dito. Viene chiamato in un paesino sperduto tra le montagne (del Friuli?) per cercare una bambina scomparsa. Al suo arrivo la bimba è stata ritrovata, ma la fanciulla racconta di aver visto una donna nuda che dormiva vicino al lago di montagna poco fuori al paese. La donna in realtà è una ragazza, poco più che maggiorenne, e il suo è il sonno della morte. Il film ci mostra le indagini che coinvolgono familiari (un padre morboso, una sorella acquisita), gli affetti (un fidanzato ombroso) le conoscenze (una coppia in via di separazione, cui la ragazza faceva da baby sitter al figlio problematico, morto a tre anni per soffocamento da cibo) e la situazione familiari del Sanzi, che scopriamo padre di una figlia adolescente e con una moglie ricoverata per problemi psichiatrici (si presume una forme grave di Alzhaimer).
L'andamento è molto lento, tanta fotografia, emergono bene le tensioni, le deviazioni, le cattiverie all'interno dei diversi nuclei familiari, le indagini sembrano quasi un pretesto per raccontare i lati nascosti dei cosmi chiusi tra le mura domestiche. Servillo, come nota giustamente Ale nella sua recensione, è meno mattatore rispetto alle opere con le quali si è messo in luce, ha una recitazione trattenuta, ma questo secondo me non è un male, a mio parere in questo caso vale il detto anglosassone "less is more", la sua recitazione per sottrazione mi ha convinto.
Segnalo infine un cameo commovente di Valeria Golino, anche lei misurata e nella parte.
La video-indagine di un'associazione radicale:blocco totale negli istituti religiosi. E negli altri...
Com'è difficile avere a Roma la pillola del giorno dopo
Come prescrizione d'urgenza, dovrebbe essere dovuta ma il personale degli ospedali spesso si rifiuta
ROMA - Niente pillola del giorno dopo nella metà degli ospedali romani. Lo rivela una video-indagine dell'Associazione radicali di Roma che per due mesi ha monitorato nei fine settimana i pronto soccorso della capitale. Una coppia, con una telecamera nascosta, si è presentata in accettazione richiedendo la prescrizione del farmaco per evitare il rischio di una gravidanza non desiderata. "Il preservativo si è rotto e ora ho paura di rimanere incinta... Ho bisogno urgente che un medico mi prescriva la pillola del giorno dopo" spiega la donna nella video-indagine rivolgendosi agli infermieri e sanitari di turno. Ma in dieci ospedali ( per lo più cattolici) su venti la risposta è negativa: "Mi dispiace il nostro è un ospedale religioso, qui da noi ci sono solo medici obiettori di coscienza... Niente pillola, deve rivolgersi altrove".
Nell'indifferenza generale, questo è un fatto eticamente grave, mostruoso, se si pensa che l'alternativa è per la donna subire un operazione psicologicamente e fisicamente pesante. Girano ancora di più le palle a pensare che a denunciare queste cose siano rimasti solo i radicali, visto che gli eredi del P.c.i., che una volta erano attenti queste tematiche, ormai ce li siamo giocati.
Interessante anche questo commento, sempre su Repubblica, che spiega le ragioni, non sempre "di coscienza", dietro alle quali si nascondono i rifiuti dei medici.
L'obiezione non può essere gratis
di CARLO CLERICETTI
L'OBIEZIONE di coscienza è un diritto? Possibile che in metà degli ospedali romani sia impossibile ottenere la "pillola del giorno dopo", come è risultato dall'inchiesta dei radicali?
La risposta è tutt'altro che semplice. Bisogna ricordare, innanzi tutto, i netti pronunciamenti del Papa e di altri organismi ecclesiali. La dichiarazione finale della Pontificia accademia pro vita al congresso internazionale del 15 marzo 2007 recita: "... acquista maggiore rilievo l'esercizio doveroso, di una "coraggiosa obiezione di coscienza", da parte di medici, infermieri, farmacisti e personale amministrativo, giudici e parlamentari, ed altre figure professionali direttamente coinvolte nella tutela della vita umana individuale, laddove le norme legislative prevedessero azioni che la mettono in pericolo". Niente interruzioni di gravidanza, niente "pillola del giorno dopo" e forse niente pillole di nessun genere, limitazioni alla ricerca scientifica decise dalle gerarchie vaticane, e così via.
Non è detto, naturalmente, che tutte queste cose scomparirebbero dalla vita quotidiana: i cattolici, in fondo, sono una minoranza, e quelli assolutamente "obbedienti" ancora di meno. Ma certo, se si diffondesse in tutti questi campi l'obiezione di coscienza, coinvolgendo un numero ragguardevole di persone, ne risulterebbero inceppati molti meccanismi della vita sociale. Di più: in certi casi l'obiezione di coscienza può anche essere "conveniente", può essere utile ad evitare lavori e situazioni considerati di scarso ritorno o poco gratificanti.
Le interruzioni di gravidanza, per esempio, dal punto di vista "tecnico" per un chirurgo sono una scocciatura: interventi che non arricchiscono professionalmente, non fanno fare carriera, un po' come le appendiciti, insomma. Se una bella fetta di medici si tira fuori, dato che il servizio va garantito il lavoro ricade tutto sui non obiettori, penalizzandoli. Ed esempi analoghi si potrebbero trovare per gli altri possibili casi.
In una società democratica e liberale, però, l'obiezione di coscienza deve essere rispettata. La prevede la Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo ed il principio è stato poi ribadito dalla Commissione per i Diritti Umani delle Nazioni Unite, dal Consiglio d'Europa e dal Parlamento Europeo. Del resto, le leggi italiane già la prevedono in alcuni casi specifici: per il servizio militare (quando esisteva la leva obbligatoria), per l'interruzione di gravidanza, per la sperimentazione su animali.
Il problema è di non farla diventare incontrollabile, perché una sua applicazione non regolata non potrebbe che ledere i diritti di chi obiettore non è e si aspetta di poter ottenere tutto quello che le leggi consentono. Una minorenne che si rivolge al giudice tutelare per l'autorizzazione all'interruzione di gravidanza, come previsto dalla legge, deve rischiare di incappare in un giudice obiettore? Un malato grave che potrebbe forse guarire grazie alle cellule staminali deve interrogare chi lo cura per accertarsi che la sua coscienza non escluda a priori quel tipo di intervento? Un malato terminale che esercita il suo diritto costituzionale di rifiutare ulteriori trattamenti medici, deve sperare di non trovarsi di fronte cattolici osservanti che respingono in teoria l'accanimento terapeutico, ma solo in teoria, come si è visto dal caso Welby e ora in quello di Eluana Englaro?
Una regola generale dovrebbe essere che l'obiettore non si metta in situazioni che lo porterebbero a collidere con le sue convinzioni. Gli obiettori alla leva rifiutavano di portare le armi, ma non pretendevano di diventare ufficiali dell'esercito essendo allo stesso tempo esentati da ogni eventuale combattimento. E' quello che fanno, invece, chirurghi, ginecologi, anestesiti e infermieri che lavorano negli ospedali pubblici.
Negli ospedali pubblici si fanno gli aborti, come prevede la legge: chi rifiuta di essere coinvolto in questi interventi, lavori negli ospedali privati, o faccia la libera professione. L'obiezione di coscienza è stata giustamente introdotta perché interveniva su una situazione già in essere, ma avrebbe dovuto essere una norma transitoria, e ora andrebbe abolita: negli ospedali pubblici non dovrebbero più essere assunti obiettori. Non sempre, però, è possibile separare da strutture complesse, che svolgono numerose funzioni, chi fa obiezione di coscienza su punti specifici. In questi casi ci si dovrebbe comportare come si fece per l'obiezione alla leva. Il diritto viene - giustamente - riconosciuto, ma è anche necessario salvaguardarsi nei confronti di scelte opportunistiche. Chi rifiutava la divisa era tenuto a prestare il servizio civile sostitutivo, e questo servizio era di durata maggiore: due anni invece che 18 mesi. Bene, in tutti casi di obiezione di coscienza bisognerebbe fare nello stesso modo: per esempio, chi la fa è tenuto a prestare alcune ore aggiuntive a settimana di lavoro non retribuito.
Le norme non devono essere tanto pesanti da essere punitive, ma devono anche essere sufficienti a scoraggiare gli opportunisti. Insomma: è giusto che la coscienza individuale prevalga anche di fronte alla legge; ma è altrettanto giusto che la società sia garantita rispetto ai furbi e, anche se in piccola parte, indennizzata per una scelta che è diversa da quella della maggioranza dei cittadini e crea comunque qualche problema. Che cosa diciamo ai Testimoni di Geova che rifiutano la trasfusione per un figlio? Che la loro coscienza vale meno di quella dei cattolici? E ai musulmani che non vogliono che la moglie sia visitata da un medico maschio? I casi sono ormai molto numerosi, e probabilmente sempre di più se ne porranno. Ci sarà lavoro per sociologi e politici. Che però dovrebbero adottare, per tutti i casi, questo principio elementare: l'obiezione di coscienza, se è seria, va rispettata; ma non può essere gratis.
La preoccupazione più grande che mi si agita dentro, non è tanto legata ai danni che questo governo farà in cinque anni di esecutivo, ma bensì a quello che combinerà in dieci. Perché a meno di miracoli, e io sono ateo, stavolta ci aspetta come una condanna alla detenzione, la doppietta berlusconiana, o di chi verrà dopo di lui.
Se a pochi mesi di distanza dalla sua schiacciante vittoria alle politiche, e dopo che ha già piazzato due-tre belle porcate, e con altre pronte in canna, la sua popolarità è quella stratosferica riportata dai sondaggi, cosa succederà a fine legislatura, quando di norma si attivano le iniziative populistiche?
Dall’altra parte, l’opposizione è più debole che mai. Il soggetto politico Piddì sembra morto ancor prima di nascere, quel volpone di DiPietro, che senza l'alleanza con i veltroniani, difficilmente sarebbe entrato in parlamento, ha stracciato i patti pre-elettorali che prevedevano la sua annessione al PD dopo il voto, e si è ricavato il ruolo che molti di noi apprezzano, quale unico ed esclusivo hound dog di Berlusconi e del berlusconismo; Veltroni annaspa, tra preso tra cecchini diesse e diaspore democristiane. Nei sondaggi il partito cala.
I comunisti (actually, parliamo di una dote del 2-3%) sono divisi in almeno tre partiti più i verdi, non si sono ancora ripresi dalla tremenda mazzata subita, e cercano disperatamente consenso e nuova identità, rischiando però ulteriori (definitive?) spaccature interne.
Al termine di questo mandato, è difficile ipotizzare scenari che mutino a nostro favore questa pesante condizione di handicap, anche perché non è invece difficile immaginare un rientro nella squadra vincente da parte dei transfughi pentiti dell’Udc e della Destra, e anche a fronte di un’inverosimile nuovo spirito di gruppo del centrosinistra, con dentro di nuovo la cosiddetta sinistra radicale, le distanze rimarrebbero, ad andare bene, immutate.
Lo so che la politica non si fa con le somme matematiche, infatti il mio ragionamento muove da un clima che respiro, di assuefazione a tutto, un clima di adorazione al re sole Silvio III, un clima in cui non c’è più spazio, nemmeno all’interno della nostra parte politica per le critiche, un clima in cui gli stronzi sono quelli che si indignano, un clima in cui, morisse Berlusconi voterebbero il figlio, un clima in cui, se dici che uno che esce dai processi per prescrizione, ricusazione dei giudici o perché cambia in suo favore le leggi non è adatto a governare, ti tollerano sospirando e alzando gli occhi al cielo.
Un clima in cui, politicamente, culturalmente e matematicamente siamo giorno dopo giorno, sempre più in minoranza, e io non vorrei davvero farci l'abitudine.
Ogni cosa ha il suo tempo, anche per la musica. Alcune grandi passioni hanno avuto più di una falsa partenza, stentando e ingolfandosi come una macchina d’epoca, prima di mettersi finalmente in moto. E’ il caso dei Clash e del totemico London calling. Chiunque legge o ha letto di musica sa quanto è imprescindibile,nell’allestimento di una discografia essenziale , il ruolo di questo album, uscito nel 1979 come a chiudere, anche simbolicamente una decade e in particolare un genere, il punk, che in pochi anni ha bruciato ardentemente, ma che altrettanto velocemente aveva perso la sua urgenza comunicativa.
Cosa rimane del punk, dentro London Calling? Se per definire il genere ci riferiamo al furore dell’esecuzione, abbinato ad imperizia tecnica e melodie basate su tre accordi, poco e niente. Se invece pensiamo ad una totale libertà creativa, in sfregio a qualunque regola commerciale imposta, ci siamo in pieno.
Joe Strummer, Mick Jones e gli altri hanno registrato il disco scottati dal fallimento di vendite e di critica del precedente album, Give’em enough rope, che era stato preceduto da un’attesa spasmodica, dopo il botto del debut album, omonimo della ragione sociale del gruppo.
In condizioni che non è esagerato definire disperate ( credibilità artistica in discussione, risorse economiche esaurite, la major come una scimmia sulla schiena), e con un produttore letteralmente psicopatico (ancorché efficace) come Guy Stevens, i quattro inglesi attinsero a piene mani nella cultura musicale americana, inglese e giamaicana, accompagnando alle musiche testi che parlavano di alienazione (Lost in the supermarket) , della decadenza inglese (London calling), di leggende gangster (Guns of Brixton, Wrong ‘em boyo, Jimmy Jazz),di razzismo (Clampdown) in anticipo sui tempi, di critica feroce alle multinazionali e all’american way of life (Koka Kola), di sarcasmo sul music biz (Death or glory), cazzute love songs (Train in vain).
La copertina è ispirata al disco di esordio di Elvis Presley, foto in b/n e nome in rosa verde a formare una "L". Il soggetto in questo caso è però il bassista della band, Paul Simonon, che sfascia per esasperazione un basso al termine di un concerto in cui aveva suonato da cani, anche per problemi tecnici.
Il disco è davvero ispirato e imprevedibile, un ottovolante di generi che riescono però a intrecciarsi in maniera armoniosa e quasi spontanea, testi e musiche rappresentano l’apice della creatività del gruppo, che non aveva mai toccato queste vette, e mai più lo farà in seguito.
Io, ci ho messo un po’, il ciddì ne ha presa di polvere sul mio scaffale, uno, due, tre tentativi. Niente. Poi finalmente, testi alla mano (anche in auto), è scattata la scintilla ed è divampato l’incendio. Questa ora abbondante di musica è stata la mia personale, unica ed esclusiva colonna sonora per intere settimane, a cosa serviva alternare con altra roba, se dentro qui c’era tutto quanto? Il tipico disco da isola deserta.
Se avete una manciata di minuti di tempo, bella intervista all'ultimo, grande giornalista sportivo italiano, nonchè uno dei pochissimi che evita le televisioni come la peste, cioè Gianni Mura, su Repubblica TV.
Sulla rivista di bordo della irlandese Ryanair, di quelle che ospitano qualche articolo folkloristico e il catalogo di vendita della compagnia, ho trovato questo pezzo sulle FIAT 500 d'epoca, correlato dalle cinque regole fondamentali per guidare all'italian way. E' davvero così che ci vedono da fuori?
1) Never stop al pedestrian crossing. Ever
2) Park where you like
3) Use your horn as freely as breathing
4) Gesticulate wildy, preferably in your flashiest pair of sunglasses
5) Remember, you are the roads only user and are always in the right
La mia esperienza con questo film inizia dalla colonna sonora. Un 'irripetibile collaborazione tra due grandi dei generi storici americani, il blues e il jazz. Sto parlando di Miles Davis e John Lee Hooker. E pazienza se suonano un pò con la mano sinistra e non inventano niente, se a tratti si aiutano con l'esperienza, il risultato è esattamente come dovrebbe essere, evocativo e coerente per una sordida storia di uno squallido paese del sud degli States.
Sono anni ormai che conosco e che mando questo disco, il film ancora mi mancava. Qualche giorno sono riuscito a colmare la lacuna.
La trama è semplice, con il new kid (Don Johnson) che arriva in town, cool e senza scrupoli. Trova un lavoro come venditore di auto che in realtà scopriamo essere una copertura che gli serve per realizzare, attraverso uno scaltro diversivo, una rapina alla banca del sonnacchioso paese. Paralellamente trova il tempo di dimostare quanto è duro portandosi a letto la donna (Virginia Madsen) del capo (dell'autosalone) e quanto è tenero perdendo la testa per la ragazzina acqua e sapone (Jennifer Connelly) nei guai per un debito. Le cose per lui si metteranno male, e una mano arriverà inaspettata dalla femme fatale (la Madsen), che però vorrà qualcosa in cambio.
Ho trovato in questo film molto delle atmosfere dei magnifici libri di James Cain, tipo La morte paga doppio o Il postino suona sempre due volte, passati anche loro per la gloria del grande schermo. Il finale, seppur non happy, è però meno tragico, e non privo di una buona dose di acida ironia, insomma, seppur poco verosimile e un pò schematico nella caratterizzazione dei personaggi, il film non mi è spiaciuto. Anche grazie alla formidabile colonna sonora di quei due grandissimi figli di puttana e il loro dannato talento per le musiche del diavolo.
Lo so che per i lettori di questo blog è un'indicazione inutile, ma è per quegli ignorantoni dei dee jay radiofonici che sono costretto a farlo. Pensate di saperla lunga perchè riconoscete il riff di Sweet Home Alabama dei Lynyrd Skynyrd dentro All summer long di Kid Rock, eh? Bella forza, quella canzone è citata anche nel testo. In realtà l'arpeggio iniziale e la struttura stessa del brano sono una rapina a mano armata a Werewolves of London del mai dimenticato Warren Zevon.
Mercoledì abbiamo fatto l'esperienza del turismo low cost con visita in giornata, e ritorno in serata, a Brussels. Un pò stancante, qualche piccolo imprevisto, ma tutto sommato esperienza positiva, da ripetere. Partenza alle 08:30 da Bergamo. Piccolo inciso: mi piace l'aeroporto di Bergamo, è uno scalo facile, si trova sempre parcheggio per l'auto e non costa un salasso, in un attimo sei al check-in e l'attimo dopo al filtro di sicurezza (mi riferisco alle distanze, ovviamente in caso di code è tutto un altro discorso). Noi avevamo fatto il check-in online, quindi siamo andati direttamente al gate. Lì ci sono passati davanti i priority ed altri in fila prima di noi, poi a bordo ci siamo trovati davanti ad una ventina di posti bloccati dall'equipaggio (i primi e gli ultimi dieci, credo lo facciano per bilanciare meglio l'aereo), questo, sommato alla politica di non assegazione posto della compagnia, ha rischiato di far sedere Stefano, nel suo battesimo del volo, sull'ala dell'aereo, con visuale sui flaps.
Il posto che abbiamo trovato per fortuna era proprio alla fine dell'ala, una di quelle file a un finestrino e mezzo, così Stefano ha potuto avere la sua visuale panoramica.
Arrivati a Charleroi dopo un volo farcito di gioiosi - papàmamma guardate! -, troviamo un tempo da lupi, vento e freddo che spazzano la banchina degli autobus. Dopo un'oretta d'attesa per lo shuttle, e altrettanto per raggiungere la gare du midi, prendiamo il tram sotterraneo e in cinque minuti siamo alla centralissima grand'place.
Giro, foto, passeggiata nelle vie dell'Ilot Sacrè, pranzo in una brasserie che avevamo selezionato prima di partire, ci rendiamo conto che il tempo a disposizione è davvero scarso, e che avevamo preparato un programma troppo ambizioso. Tagliamo qua e là, che alle 16:30 è già tempo di rimettersi in marcia verso l'aeroporto ( ci vuole circa 1 ora e mezza per arrivare a Charleroi dal centro).
Stanchi, ma soddisfatti aspettiamo l'imbarco. L'aereo è un pò in ritardo, osservo dai finestroni le operazioni di assistenza all'aereo, sono dieci volte più veloci dell'Alitalia e al contrario della compagnia di bandiera coinvolgono tutto l'equipaggio. Gli assistenti di volo in particolare non si fermano mai. Mentre per le compagnie canoniche la sosta dell'aereo è un momento di parziale relax per il personale di bordo, per quello delle low cost è la continuazione del servizio ai passeggeri, si posiziona sul piazzale per lo sbarco/imbarco dei passeggeri, pulisce la cabina, ed è già tempo di ricevere i passeggeri in partenza. Questo andazzo viene ripetuto per un numero imprecisato di tratte. Davvero non li invidio.
All'arrivo a Bergamo, mentre ci incamminiamo in direzione della clio, di rito la richiesta di Stefano, stanco ma indomito: - papà, lo rifacciamo?!? -
Terzo film al cinema per Stefano. Tutto benissimo, ha resistito bene fino alla fine della proiezione (circa 90 minuti), qualche problema per il volume dell'audio che ha provocato più di un salto sulla sedia, ma è cosa nota.
Il film? Beh, simpatico, storia già vista dell'outsider sognatore che alla fine salva la situazione, disegni all'altezza, molto colorato, personaggi azzeccati, alcune gag divertenti. Se proprio vogliamo sfrucugliare, in originale il panda Po è doppiato dal grande Jack Black, anzi è costruito sul rotondo attore americano (lo stesso dicasi per il maestro Shifu, con Dustin Hoffman), mentre da noi la produzione ha scelto per doppiare il protagonista prezzemolino Fabio Volo, che proprio nulla c'azzecca.
Tipico esempio di film dal quale ti aspetti molto, forse troppo, e che alla fine ti lascia con l'amaro in bocca.
Tratto dall'omonimo libro di Richard Schlosser, Fast food nation narra di un'ipotetica multinazionale di fast food (Mickey's) che invia un proprio dirigente presso una società di macellazione di bovini e suini e confezionamento della carne, in quanto da una partita di hamburger proveniente da lì sono state riscontrate tracce di feci nella carne che è finita sui tavoli di plastica dei ristoranti.
Le vicende del dirigente della Mickey's (Greg Kinnear) si intrecciano con quelle della ragazzina che lavora al negozio di fast food per pagarsi le spese del college e con quelle di un gruppo di immigrati clandestini che lavorano presso la fabbrica.
Come spesso accade in film di denuncia che impattano potenzialmente sulle potentissime multinazionali, il film parte con un buon piglio, promettendo molto, ma poi diventa prevedibile, un pò si affloscia, indebolendo la parte più coraggiosa, quella di denuncia al sistema d'alimentazione preferito dagli americani.
Significativo da questo punto di vista il cameo di Bruce Willis, faccendiere e mediatore senza scrupoli, che tratta con la fabbrica alimentare il miglior prezzo della carne per la Mickey's. Willis, risponde a Kinnear, sconvolto per le condizioni igieniche e di lavoro della fabbrica, in modo disincantato, sostenendo che tutti sanno delle impurità della carne, e che comunque la piastra di cottura dei ristoranti è tarata ad una temperatura congeniale a rendere inoffensive le impurità. Ai miei occhi è suonata come una ciambella di salvataggio per McDonald e soci, un modo per dire ai consumatori, non preoccupatevi è tutto sotto controllo, non vi stiamo avvelenando.
Rimane il ruolo dei giovani studenti contestatori, e della ragazzina che per ragioni pro ambientali rinuncia al lavoro da Mickey's e con gli altri tenta, senza successo, di far fuggire le vacche dal recinto nel quale sono tenute una adosso all'altra. In questo senso ho trovato quasi irritante il cameo di Ethan Hawke, farcito di una retorica sulle scelte da fare in gioventù e sulla anticonformismo del tutto prevedibile e controproducente.
Poniamo che uno degli scopi del film fosse quello di far prendere coscienza i consumatori dello schifo globale che c'è dietro i giganti del fast food, e magari di fargli cambiare abitudini alimentari, quanti tra quelli che, anche occasionalmente, si recano da McDonald o da Burger King, smetteranno di farlo dopo aver visto questo film? La mia impressione è che non saranno in molti, purtroppo.