Ho inaugurato questa rubrica nel 2008. Dire che si tratti un appuntamento senza frequenza fissa è usare un eufemismo, se è vero com'è vero che in quindici anni ho pubblicato solo 17 post, di cui, peraltro, la maggior parte nei primi due. L'aspetto bizzarro della cosa è senza dubbio l'assenza di un album di Springsteen nella lista di quelli trattati, in considerazione del rapporto simbiotico che per molti anni ho avuto con l'artista.
Comunque. Avevo deciso che il primo "springstiniano della vita" avrebbe dovuto essere Born in the USA, non il mio preferito, ma quello che ha l'indubbio merito di aver spalancato all'allora adolescente di periferia un portone - che non si è mai chiuso - sul rocker di Freehold, NJ. Invece, per tutta una serie di ragioni perlopiù strettamente personali, che non starò qui ad approfondire, ho scelto Tunnel of love, probabilmente il lavoro in assoluto più intimo di Bruce.
Cominciamo da lui, The Boss. Uno degli aspetti che faceva dannare i fans di quell'epoca era il rigore, l'etica e la maniacale serietà che egli aveva (aveva) rispetto alla propria produzione. Una pignoleria che lo portava a scrivere e registrare decine e decine di pezzi per disco, da cui ne selezionava i canonici 8-12 da incidere e pubblicare. Questa, soprattutto nei primi tre lustri di carriera, era la regola, e noi lì a chiederci come potevano non essere divulgate tracce meravigliose (o almeno così le ritenevamo, condizionati dal mistero che le avvolgeva e da chi ce le raccontava sulle riviste) che eravamo "obbligati" a cercare affannosamente nei bootleg, manco fossero il sacro Graal.
Nel 1985, con il secondo leg del tour di BITUSA, quello che uscì dagli States per toccare gli stadi soprattutto europei, il mondo intero scoprì Bruce Springsteen. Non era la prima volta che il Boss usciva dal suo Paese (se dovessi credere a tutti quelli che sostengono di averlo visto a Zurigo nel 1981, quello stadio sarebbe dovuto essere grande come due Maracanà di Rio), ma qui le dimensioni delle location scelte per soddisfare l'enorme domanda di biglietti esplosero definitivamente tipo uno a dieci. Il successo nel vecchio continente raggiunse un tale livello che Born in the USA non bastava più a saziarlo e tornarono addirittura in classifica album come Darkness on the edge of town e/o Born to run.
Tornato a casa dopo un anno in giro per mezzo mondo, Springsteen si concentrò sulla sua vita privata. A trentasei anni non aveva una relazione sentimentale stabile. La più nota era stata con la fotografa rock Lynn Goldsmith, ma insomma, fino a quel momento, aveva costantemente anteposto la sua musica a qualunque altro aspetto di vita privata.
Sorprendendo un pò tutti, il rocker della porta accanto, quello che non aveva mai smesso di frequentare il territorio natale fuggendo dunque dalla vita della star, si accasa con una modella (con aspirazioni da attrice), Julianne Philips, di oltre dieci anni più giovane e, assieme a lei, superando la sua proverbiale riservatezza, posa per le maggiori riviste popolari e di gossip. Il matrimonio durerà solo un paio di anni, proprio il tempo che serve al Boss per tornare a pubblicare un album di inediti, a tre di distanza dal precedente clamoroso successo di Born in the USA. E' il 9 ottobre 1987 e nei negozi arriva Tunnel of love, una raccolta di canzoni meravigliosamente contraddittorie che rappresentano la più brutale, spietata, onesta, pubblica terapia di autoanalisi che Springsteen abbia mai fatto (e mai farà).
Basta analizzare i dischi fin a quel momento pubblicati per rendersi conto di come a Springsteen non piacesse restare fermo sulla stessa modalità espressiva, e pur tuttavia, anche con questa consapevolezza, più di un ascoltatore restò spiazzato mettendo per la prima volta la puntina sul vinile di Tunnel of love, per la prepotenza con cui emergeva la volontà di cambiamento di uno Springsteen che, dopo oltre dieci anni (al netto della parentesi di Nebraska) di esaltante, ma anche limitante convivenza con la E Street Band, guardava decisamente altrove.
L'intento di Bruce di affrancarsi da un pattern che l'aveva imprigionato in una gabbia dorata emerge cristallino già solo leggendo i crediti del disco, laddove apprendiamo che il Boss si cimenta in tutti gli strumenti, e i singoli membri della storica band fanno solo occasionalmente capolino nell'esecuzione dei brani, senza peraltro spiccare con il proprio brand stilistico, al punto da poter tranquillamente affermare che se invece di loro a suonare fossero stati dei session men, nessuno se ne sarebbe accordo. Non lo capimmo subito, ma si trattava per la Band di un avviso di sfratto, che si materializzerà subito dopo la fine del tour del 1988.
E il segnale anche simbolicamente più eloquente di questa rivoluzione è rappresentato dall'assenza, nelle dodici composizioni, del sax di Clarence Clemons, fino a quel momento presenza iconografica, irrinunciabile del wall of sound springstiniano, un climax identitario saccheggiato da molti wannabe ottantiani. Il gigante afroamericano è infatti malinconicamente relegato nemmeno in panchina, ma in tribuna, da dove si alza senza stringere tra le mani il suo strumento, per i cori di un'unica canzone (When you're alone). Agli altri non va molto meglio. La maggior parte di ciascuno dei dodici brani presenti sul lavoro vedono infatti la presenza di uno, al massimo due componenti della E Street, e quasi sempre si tratta dei soli Weinberg (batteria) o Danny Federici (tastiere). Un cambiamento che riverbererà anche sul tour mondiale a seguire, con il vecchio gruppo che farà più di un passo indietro sul palco, diviso per la prima volta con una sezione fiati e una batteria di coriste.
Ma lo spleen dello struggimento sentimentale, dei dubbi esistenziali che attraversano Springsteen, solidi fili conduttori dell'album, può essere sintetizzato efficacemente in due momenti che la musica si limitano a lambirla, divisi temporalmente solo da pochi mesi , vale a dire il tempo che intercorre tra ottobre (release del disco) e giugno (pubblicazione di Tougher than the rest, quarto singolo estratto). Con l'arrivo nei negozi, al tramonto del 1987, di Tunnel of love, l'ultima riga della canonica lista dei crediti riporta un minimale, incerto, imbarazzato, maldestro, quasi autoimposto tributo alla neo-moglie ("Thanks Juli"), ma poco dopo, con la diffusione del video di Tougher than the rest, emerge in tutta la sua evidenza il passaggio di mano del cuore del rocker, che si manifesta attraverso un eloquentissimo e quasi erotico scambio di sguardi con Patti Scialfa durante l'esecuzione del pezzo.
Nel frattempo, da questa parte del mondo, io vivevo la mia prima relazione sentimentale importante, avevo finalmente patente e auto (tanto per saldare ulteriormente l'immersione con uno dei temi springstianiani più abusati) e sperimentavo per la prima volta (non l'ultima, ca va sans dire) l'ansia da fanboy per l'attesa di un nuovo lavoro del mio cantante preferito, con tutto ciò che questo comporta: la famelica ricerca di notizie, aggiornamenti (è superfluo ricordare che internet non esisteva), informazioni di qualunque genere sull'album e sulla sua data di uscita. Ricordo per esempio che l'anticipazione più diffusa vedeva Bruce apprestarsi a pubblicare un disco country.
Tunnel of love un disco country tout court non lo era, tuttavia...