Merge, 2012
Ieri mi sono svegliato ed ero nel 1991. Ho guardato perplesso camicia di flanella a scacchi bianchi e neri e jeans sdruciti appoggiati sulla sedia e le scarpe beige chiaro da boscaiolo sotto di essa e ho cominciato a chiedermi che caspita mi stesse accadendo. Ho pensato ad una sindrome analoga a quella raccontata nel serial inglese Life on Mars, ma avevo la certezza di non essere stato vittima di alcun incidente che mi avesse causato uno shock di questa natura. D'altro canto non avevo nemmeno mangiato pesante, visto che la sera prima mi ero mantenuto con un' insalatina scondita. No, la ragione poteva essere una e una solamente. Negli ultimi giorni avevo ascoltato così assiduamente, da ricavarne probabilmente danni irreversibili al cervello, Silver age di Bob Mould.
Sì perchè l'ex leader degli Husker Du, band seminale degli ottanta che ha contribuito (insieme ai Pixies) a gettare i semi di un genere (il grunge) monopolizzatore dei successivi primi novanta, dall'alto della sua autorevolezza se ne è uscito con un disco che suona fresco e non di maniera, riprendendo quel sound a cavallo tra indie e mainstream, tra l'immediatezza punk e l'acidità del rock dei seventies che ha rappresentato probabilmente l'ultimo fenomeno di massa nel rock a livello planetario.
Ci si innamora all'istante di Silver age. Un colpo di fulmine formidabile la tripletta iniziale, costituita da Star machine, Silver age e The descent, un tripudio di riff semplici, solo, batteria incalzante e una voce (quella voce) che è sempre un tuffo al cuore riascoltare. Con una partenza di queste fattezze Bob potrebbe vivacchiare per il resto della durata del lavoro. E invece tira fuori altri assi da mazzo, come quando rallenta un pò riavvicinandosi al sound HD con i riverberi e i feedback di Steam of Hercules, o con il power pop (Fugue state)che scherza i REM, quando, scusate il gioco di parole, riarrangia l'hard rock attraverso Angels rearrange, quando mette in campo velocità e cambi al fulmicotone con Keep believing, in maniera di far godere fino all'ultima stilla della conclusiva First time joy, non un lento, ma il pezzo con la partenza più lenta dell'opera.
Quando ti trovi ad ascoltare un disco così riuscito nella sua semplicità e immediatezza ti trovi a chiederti - Ebbeh, ci voleva tanto? - . Evidentemente sì, o perlomeno ci voleva uno con la giusta cassetta degli attrezzi e l'esperienza necessaria per portare a termine il compito.
Lasciatemi in questa epoca ancora un pò, per cortesia.
7,5/10