House of dynamite (3,5/5)
giovedì 4 dicembre 2025
My Favorite Things, Novembre '25
House of dynamite (3,5/5)
lunedì 1 dicembre 2025
Recensioni capate: Volbeat, God of angels trust
lunedì 24 novembre 2025
Tiziano Terzani, Lettere contro la guerra (2002)
All'indomani dell'attacco terroristico dell'undici settembre, Oriana Fallaci pubblica sul Corriere della Sera il suo (per me) famigerato j'accuse contro un intero popolo, quello di fede islamica. Tutti abbiamo letto quelle righe, chi con cieca esaltazione, io personalmente con sconcerto per come una delle migliori giornaliste e scrittrice italiane di sempre potesse, nell'età teoricamente della ragione, rovesciare tanto odio non contro dei criminali colpevoli di omicidio di massa, ma anche contro il resto del miliardo di esseri umani "colpevoli" solo di essere musulmani. La lettera/pamphlet s'intitolava La rabbia e l'orgoglio.
Molti meno, ne sono certo, hanno invece letto la risposta che, sempre il Corsera, pubblicò qualche giorno dopo. Io, per esempio, non lo feci. La scrisse Tiziano Terzani, come la Fallaci anche'egli toscano e giornalista/scrittore, s'intitolava Lettera da Firenze - Il sultano e San Francesco ed è raccolta, insieme ad altre sei, che rappresentano la ripresa della sua collaborazione con il giornale milanese, in tempi e modalità non codificati (cioè, scriveva quando aveva qualcosa da dire), ma tutte da una provenienza asiatica, il continente a cui Tiziano era più fisicamente e spiritualmente legato.
E di spiritualità è intrisa la risposta alla svolta di aggressiva intolleranza della Fallaci, rivolgendosi direttamente a lei, Terzani entra nel merito della dignità delle persone da lei così violentemente disprezzate , spiegandone con coraggio intellettuale (in quella fase erano in molti a condividere l'opinione di Oriana e la necessità di una nuova "crociata") storia, torti, occupazioni (anche di territori sacri) da parte di oriente e occidente, discriminazioni, violenze, sopraffazioni, appropriazione di risorse naturali, con le popolazioni locali perennemente tenute in uno stato di totale indigenza. Il tutto naturalmente senza mai giustificare nemmeno lontanamente la violenza e la brutalità dei terroristi che uccidevano persone innocenti. Semplicemente spiegando e indicando responsabilità, auspicando infine che Oriana potesse: "trovare pace. Perchè se quella non è dentro di noi non sarà mai da nessuna parte."
Come dicevo, la raccolta si compone poi di altre lettere, tutte affascinanti e tutte inviate da stati asiatici (Peshawar e Quetta, Pakistan; Kabul, Afghanistan; Delhi, India; Himalaya). In particolare le missive dall'Afghanistan, che raccontano bene la condizione di un Paese da sempre sottomesso ad occupanti stranieri (inglesi, russi, talebani, americani) ma che non si è mai piegato, abituato com'è alla fame, agli stenti, alla resistenza. Terzani ci racconta senza ipocrisie l'ostilità di quella gente, scottata da secoli di occupazione, nei confronti degli stranieri ("cosa sei venuto a fare, qui? Vi uccideremo tutti", gli dice un giovane), ma, al tempo stesso, pazientemente si fa interprete della tradizione orale che, soprattutto gli anziani, sono disposti a tramandargli. Troppo presto abbiamo dimenticato la dottrina Bush/Cheney, le violazioni dei diritti umani perpetrati in quelle terre da "contractors", società private che, in appalto per gli USA avevano le mani totalmente libere per rapire, torturare, uccidere chiunque volessero (consiglio la visione di The torture report, del 2019). Troppo presto abbiamo voluto dimenticare ciò che è stato fatto in Afghanistan, i cui abitanti invece ricorderanno. A lungo.
La raccolta di scritti di Terzani è unita dal filo rosso di un modello di vita alternativo, che sempre più si assottiglia anche nei Paesi più spirituali come l'india, un modello assemblato sul rifiuto del consumismo, del superfluo e invece sul rafforzamento del concetto di collettività, di solidarietà e di mutuo soccorso, senza secondi fini. E' passato quasi un quarto di secolo da quando queste lettere sono state pubblicate ed è incredibile come la loro forza, il loro appello serva come l'ossigeno oggi più che allora.
giovedì 20 novembre 2025
Recensioni capate: I peccatori (2025)
Prime e Sky (a pagamento)
lunedì 17 novembre 2025
Passione cofanetti / 2 - Winds of time: The New Wave Of British Heavy Metal 1979-1985
Nel 2018 la storica etichetta indipendente inglese Cherry Red Records (Mott the Hoople, Runaways, Dead Kennedys) dà alle stampe questa esaustiva raccolta che accende un riflettore potente sulla nascita dell'heavy metal attraverso la discoperta di oltre cinquanta band che hanno animato il suo periodo più glorioso ed eccitante, quello che, dal 1979, ha dato origine alla NWOBHM. L'opera, per scelta artistica o per necessità (leggi diritti discografici) si concentra su combo meno noti, non troverai ad esempio Maiden o Priest, che sfido anche i più esperti del genere a conoscere. A fianco dei "nomi di punta", tra i quali Saxon, Venom, Angel Witch, Tokyo Blade, Diamond Head, troviamo infatti band sommerse dalle sabbie del tempo come Hellanbach, Aragorn, Brooklyn, Persian Risk, Fist, Gaskin, Bitches Sin e una marea di altre. Il packaging è molto buono, il contenitore è di cartone rigido e si apre a scrigno, i tre CD sono contenuti da una busta anch'essa di cartoncino e il libretto, a colori, consta di venti pagine. Non credo ci sia in commercio niente di così appassionato, minuzioso e curato.
lunedì 10 novembre 2025
Springsteen - Liberami dal nulla
"Hey, mister deejay won'tcha hear my last prayer?
hey ho, rock and roll deliver me from nowhere"
Open all night, Nebraska, 1982
Bruce Springsteen è l'artista più taggato del blog (siamo a quaranta post nel corso degli anni), ed è anche l'artista musicale che, come ho già avuto modo di affermare, fa più parte di me. Ciononostante, o forse proprio per questo, non gli ho mai risparmiato critiche, evidenziato incoerenze, segnalato un'eccessiva deriva "istituzionale", nonchè, di recente, rimproverato una bulimia di pubblicazioni dal valore altalenante ma tendente al basso, in palese contrasto con il rigore assoluto delle sue scelte nel periodo maggiormente florido ed ispirato (indubbiamente l'orizzonte temporale 1972/1984).
Ecco, per uno come me, che coltiva questo tipo di relazione con un artista (non sono l'unico, devi sapere che gli springstiniani - brutta razza - misurano la propria credibilità enunciando il numero di concerti visti del Boss, allo stesso modo con cui i ragazzini si sfidano misurandosi l'uccello), il momento del biopic movie non è un momento banale. Mettiamoci anche che fa strano assistere ad un film biografico con l'artista ancora in vita e che partecipa attivamente alla sua realizzazione. Non vorrei davvero essere nei panni del suo psicanalista. O forse sì.
Per fortuna, un pò ricalcando la stessa scelta compiuta per il recente film su Dylan, la pellicola si concentra su un periodo limitato della vita del rocker. Se per Bob era il primo lustro di carriera discografica, per Springsteen è addirittura poco più di due anni: dall'ultima tappa del trionfale tour di The river (Cincinnati, 13 settembre1981), passando per l'uscita di Nebraska (30 settembre 1982), e all'anno successivo, in cui mette a punto Born in the USA e inizia il suo lungo percorso terapeutico.
Il film di Scott Cooper è una trasposizione del libro di Warren Zanes Liberami dal nulla, recensito giusto qualche mese fa, che affronta una manciata di temi esistenziali ricorrenti per il Boss: la sua vita giù dal palco, le conseguenze del difficile rapporto col padre, il suo rapporto rigoroso con la musica che produce(va) e la depressione.
La difficoltà di mettere in scena una biografia di un artista marchiato a fuoco nella cultura pop è quello di trovare un bilanciamento e creare un prodotto audiovisivo d'impatto che accontenti i milioni che lo idolatrano e chi, il resto del pubblico potenziale, vorrebbe semplicemente assistere ad un film coinvolgente. Lascio ai secondi rispondere se la sfida sia stata vinta. Il mio giudizio alla prima visione è che il film vive di alti e bassi, pur raggiungendo la sufficienza piena (3,25/5).
Tra gli aspetti che non mi hanno del tutto convinto ci sono proprio quelli più tecnici, della messa in scena, in particolar modo il bianco e nero delle scene in flashback mi hanno lasciato una sensazione di prodotto televisivo (ci sarà un modo alternativo di fare uno stacco temporale senza ricorrere al b/n?). Inoltre, capisco che Jeremy Allen White - che pure è impressionate nella sequenza live in cui interpreta Born to run - dovesse "travestirsi" da Bruce, ma indossare per metà film la camicia che il vero Springsteen portava sulla copertina di The River forse è un pò too much.
D'altra parte chi, come me, si è documentato negli anni sulla storiografia springstiniana, avrà apprezzato alcuni riferimenti: la battuta del discografico in relazione alla montagna di outtakes (i pezzi inediti) di qualità che, fino al 1998, Bruce ha caparbiamente negato ai suoi fans (e alla CBS); l'enorme influenza che i Suicide hanno avuto durante la realizzazione di Nebraska (importante perchè il duo newyorchese muoveva in ambiti musicali abissalmente distanti da quelli della E Street Band); le note influenze cinematografiche, quali La rabbia giovane (il cui titolo originale, Badlands, è anche una delle sue canzoni più note) laddove la vera storia della coppia omicida raccontata da Malick aveva letteralmente ossessionato Springsteen al punto da dedicargli il brano Nebraska e La morte corre sul fiume di Laughton, infine quelle letterarie (su tutte Flannery O'Connor). Ora, capisci bene che se per un lungo periodo vai avanti a dosi di Flannery O'Connor e Suicide è complicato che tu stia proprio bene bene. Provare per credere.
Sul
rapporto col padre, più volte trasposto nelle canzoni, Bruce si era appena lasciato alle spalle rabbia e risentimento,
precedentemente incanalate in canzoni come Factory,
nel 1978 ("Fine
della giornata lavorativa / Gli uomini escono dalla fabbrica con la
morte negli occhi / e faresti meglio a crederci ragazzo / qualcuno si
farà male stasera")
e Independendence
day del
1980 ("L'oscurità
di questa casa s'è presa il meglio di noi / c'è un'oscurità in
questa città che ha fatto lo stesso / ma loro non possono toccarmi
più / e tu non puoi toccarmi più / non faranno a me quello che gli
ho visto fare a te").
Ora,
con le session di Nebraska,
attraverso brani quali My
father's house, Used cars e My
hometown (che
sarà pubblicata in seguito, su Born
in the USA)
era iniziata la fase della compassione e della nostalgia, della
comprensione del grande male oscuro che divorava Douglas Frederick
Springsteen e che egli riceve in eredità.
"Io so chi sei, grande rockstar!". "Almeno tu lo sai". Lo scambio di battute tra il venditore di auto usate e il Boss è sintomatico di come Springsteen in quella fase si sentisse perso, irrisolto, tra una massa in adorazione crescente e il bisogno di solitudine e di ricerca di sè stesso che non poteva risolversi solo in un disco a bassa fedeltà, disperato e anomalo, ma con l'aiuto di un terapeuta.
Forse è anche qui che il film non colpisce al centro il bersaglio. Per i primi due atti ci sembra di vedere un artista tormentato dalla direzione musicale che vorrebbe intraprendere ma cui non riesce a dare la forma che vorrebbe, solo nel terzo, con l'attacco di panico, viene acceso un riflettore sulla patologia che lo attanaglia. Così facendo si ridimensiona a pochi minuti di narrazione la centralità di un problema che invece, da quanto ci dice lo stesso Boss nella sua autobiografia, non l'ha mai abbandonato nel corso di tutta la sua esistenza. E pur tuttavia, la sequenza della prima seduta psicanalitica ci arriva comunque diretta, potente e ottimamente gestita da Jeremy Allen White.
Sul momento m'è parsa un pò forzata anche la storia d'amore con Faye (un'intensa Odessa Young), ma, evidentemente, per l'artista era invece essenziale (e qui si scatena il nerd springstiniano) per il particolare della collana con San Cristoforo che Bruce continua ancora oggi ad indossare costantemente, a sancire probabilmente l'importanza di quella storia nella sua vita. Poi, certo, il rapporto con Faye ci serve anche ad entrare nelle difficoltà relazionali di un uomo abituato ogni notte ad avere decine di migliaia di persone in pugno, ma che scappa davanti a quelli che potrebbero diventare legami importanti, duraturi.
Viceversa ho particolarmente apprezzato l'interpretazione di Jeremy Strong, che, dopo l'eccellente prova fornita per Roy Cohn, l'avvocato luciferino e corrotto, cattivo maestro del giovane Trump, ci regala un'altra recitazione perfettamente in parte, con un meraviglioso basso profilo, che ben ci spiega il rapporto paterno (nonostante per età si dovrebbe parlare di fratellanza) di Jon Landau con Springsteen. Sua una delle battute più esaltanti del film, quella "Qui, in questo ufficio, nel mio ufficio, noi crediamo in Bruce Springsteen" in risposta al manager CBS che ironizzava sulle potenzialità della canzone My father's house, in effetti la più indigesta di Nebraska, con le sue sei strofe tutte uguali per sei minuti di durata. A lui Landau fa digerire il diktat di Springsteen "no singles, no press, no tour", qualcosa di inaccettabile, per il mercato discografico dell'epoca e per un artista che ha costruito la sua leggenda sui concerti.
In realtà, alla fine, un singolo fu pubblicato. Si trattava di Open all night. E' dall'ultima riga di testo di questo pezzo saturo di disperazione e solitudine (richiamata in premessa al post e curiosamente identica ad un'altra canzone del disco, State trooper), che deriva il titolo della pellicola. Dedicargli qualche secondo pedagogico per spiegarlo forse sarebbe stato opportuno, diversamente lo spettatore deve sbizzarrirsi in ipotesi (anche irriverenti) sulla sua ragion d'essere.
Mettiamola così: il disco Nebraska (su cui peraltro tornerò a breve per la pubblicazione di una expanded edition) è uno dei più importanti della storia moderna della musica, il libro Deliver me from nowhere è un testo importante per comprenderlo a fondo, questo film è un buon prodotto che tuttavia dubito resista in salute all'erosione del tempo.
giovedì 6 novembre 2025
Recensioni capate: Capi di Stato in fuga (2025)
lunedì 3 novembre 2025
My Favorite Things, ottobre '25
Una battaglia dopo l'altra (4/5)
martedì 28 ottobre 2025
Nothin' but a good time - La storia non censurata dell'hair metal degli anni 80 (2025)
Il progetto Nothin' but a good time (che prende il titolo dal brano manifesto dei Poison) è stato innanzitutto un libro, un racconto orale con le testimonianze dei protagonisti, raccolte dai giornalisti musicali Tom Beajour e Richard Bienstock. La filosofia del volume è ripresa paro paro da questo documentario, diviso in tre episodi, e diffuso da Paramount +.
La carrellata è impietosa nel mostrarci i segni del tempo su corpi e visi degli allora figoni in spandex e lacca: corpi flaccidi, pelli cadenti, alopecie maldestramente occultate da cappellini improponibili e bandane grosse come l'Ohio. In qualche caso, come per Jack Russell, leader dei Great White, l'intervista è avvenuta poco prima della morte (agosto '24) e infatti le sue condizioni ci appaiono veramente al limite.
I commenti a corredo delle immagini (che vanno a ripescare anche il fondamentale volume due de The decline of western civilization) spiegano bene cos'è stato quel periodo. Il sunset strip, la via di Los Angeles affollata di locali in cui le band si esibivano, è stata per qualche anno come Hollywood, solo che invece di aspiranti attori, quel boulevard accoglieva tutta una nidiata di giovanotti che arrivavano anche dalla più remota provincia americana agghindati da manuale, con o senza band, convinti che un bel faccino sarebbe bastato per farli sfondare. E per un pò ha funzionato, anche perchè le major mettevano sotto contratto a ciclo continuo, o meglio a catena di montaggio, una volta capito che il modello funzionava.
Ciononostante, la qualità della musica ha raggiunto anche picchi di autentica qualità: i primi due lavori dei Crue, lo sleaze di Hanoi Rocks e LA Guns, prodomico all'avvento dei GNR, il blues zeppeliniano delle due band White (i Great e Lion) e, sì, chiaramente, il pop appena diluito di aggressività di Poison, Warrant e, ad un certo punto, Def Leppard.
Grande ruolo nell'esplosione del genere è da attribuire a MTV che, attraverso video spesso infarciti di misoginia, determinava vita e morte degli artisti: la vita, nel caso ad esempio di GNR e Def Leppard, i cui masterpiece Appetite for destruction e Hysteria partirono male ma, grazie alla rotazione dei video di Welcome to the jungle e Pour some sugar on me vennero catapultati nell'olimpo delle vendite (oddio, nel caso dei Leppard c'è anche una storiella sugli strip clubs della Florida...), e nel male: quando in un episodio dell'irriverente cartone animato Beavis and Butt-head i due character prendono per il culo un ragazzino cicciottello con la maglietta dei Winger, producono, involontariamente, un autentico tracollo per la band, che è addirittura costretta a cancellare il tour negli States.
La fine arrivò per tutti all'alba dei novanta, e fu così repentina che vide contratti strappati dall'oggi al domani, budget azzerati e video musicali interrotti durante le riprese. Black out, interruttore giù e major che si scapicollavano a nord, dal sole della California a Washington e al drizzle di Seattle, a sfoggiare camicioni di flanella a scacchi e a spompinare il nuovo fenomeno musicale per cui i kids impazzivano.
E, beh, anche questo è molto americano.
lunedì 20 ottobre 2025
Mani nude (2024)
Il risultato è molto incoraggiante, questa storia di vendetta e redenzione (tratta da un romanzo di Paola Barbato, che ha già avuto una trasposizione sotto forma di graphic novel) ambientata nel mondo dei combattimenti clandestini è praticamente perfetta nel primo atto, arriva ad un bel finale aperto e "molto poco americano", ma trascina eccessivamente il secondo atto (complessivamente il film sarebbe potuto durare dieci quindici minuti in meno, anche se a me non è pesato).
Tuttavia il punto di forza sono senza dubbio le prove attoriali: Gassman recita tanto con la fisicità e lo fa davvero bene, in questo modo quando Mancini gli regala un'imprevista scena ad alto tasso di emotività l'effetto è ancora più potente, perchè non la vedi arrivare. Gheghi, se non lo è già, potrebbe diventare il nostro Timothèe Chalamet: sguardo indifeso e fisico gracile non gli impediscono di sprigionare intensità e forza. Quando, all'inizio, esce dal vano del camion/utero ricoperto di sangue, in stato confusionale, proiettato verso l'ignoto, davvero replica una seconda nascita, questa volta in cattività.
giovedì 16 ottobre 2025
Biff Byford & John Tucker, Never surrender (2007)
Per entrare in topic: il lavoro letterario Never surrender viene dato alle stampe nel 2006 e rappresenta il primo elaborato di questo tipo per i Saxon, rivestendo pertanto un valore di primogenitura testimonianza diretta sulla storia del combo inglese, superstite dalla nwobhm. Il testo ha uno sviluppo canonico, dall'infanzia di Byford nello Yorkshire ai primi anni duemila. Emerge la personalità del singer e il suo posizionamento nell'ambito della società inglese soprattutto dei settanta, con qualche contraddizione: pur apparendo come un classico conservatore british egli detesta la Thatcher a causa degli interventi contro la classe operaia (minatori, prevalentemente) del suo territorio, ma si riallinea subito manifestando avversione per la sinistra ("comunistacci").
Tornando al libro, tralasciando l'iperattivismo sessuale di Biff, consuetudine delle rockstar negli anni pre-AIDS, e le tensioni nel gruppo che hanno portato una parte di membri originali, capitanati da Oliver e Dawson ad intentare una causa - persa - per appropriarsi del brand-Saxon, la parte che più mi ha interessato è stata quella artistica, il dietro le quinte della realizzazione degli album. Poco altro.
lunedì 13 ottobre 2025
Saxon, Hell, fire and damnation (2024)
A proposito di veterani del gruppo, ha invece mollato il membro originale Paul Quinn, che prima ha rinunciato ai tour e ora anche alle session di registrazione (al netto di un contributo su un paio di brani), sostituito da Brian Tatler (ex chitarrista Diamond Head).
giovedì 9 ottobre 2025
Recensioni capate: Il padrino della mafia (2019)
lunedì 6 ottobre 2025
Osvaldo Soriano, Triste, solitario y final (1973)
Triste, solitario y final è il notissimo debutto letterario di un allora trentenne Osvaldo Soriano, che esordisce in maniera fulminante con un romanzo totalmente surreale. Soriano è intenzionato a celebrare alcuni suoi eroi del cinema e della letteratura americana, in particolare Stan Laurel, morto in povertà e dimenticato dall'industria cinematografica, e Philip Marlowe, per il quale lo scrittore argentino ha immaginato una parabola conclusiva che riprende il titolo del libro (che a sua volta cita una battuta dello stesso Marlowe), e quindi non certo gloriosa, nei settanta.
Il romanzo si apre con Stan Laurel che si reca da Marlowe per ingaggiarlo e il detective che lo irride, non prendendolo minimamente in considerazione. Anni dopo, a seguito della morte dell'attore, Marlowe si imbatte in un giornalista argentino giunto a Los Angeles per raccogliere informazioni allo scopo di pubblicare un libro proprio su Stan Laurel. Non serve sforzo di immaginazione per identificare nel giornalista lo scrittore stesso, perchè il personaggio si chiama Osvaldo Soriano. L'incosciente determinazione dell'argentino miscelata al rassegnato ma al tempo stesso indomito nichilismo dell'anziano detective daranno vita ad un combinato dirompente, all'insegna dei migliori buddy movies.
Marlowe infatti, lontano dal glamour degli anni d'oro e colmo di rimorsi per il trattamento riservato a Laurel, si lancia in imprese impossibili, quasi sovversive (sovviene la distruzione della proprietà borghese messa scientificamente in atto nei film di Lauren & Hardy), dal disastroso esito già implacabilmente scritto, prende una sacca di botte, ma subito riparte per un'altra follia portandosi dietro l'inconsapevole compagno che prende la sua quota di mazzate.
Soriano descrive l'America senza, fino a quel momento, esserci mai stato e nonostante ciò la riconosciamo, nell'ottusa e razzista condotta del LAPD, in uno star system reazionario e violento, capitanato da un manesco John Wayne che agisce nella certezza dell'impunità data dal suo status di star repubblicana. Non ne esce bene nemmeno Chaplin, Soriano vorrebbe intervistarlo per porgli delle accuse in relazione al suo boicottaggio di Lauren & Hardy, ma, va da sè, non ci riuscirà, nonostante un rapimento che avviene in una modalità che rimanda alle imprese tragicomiche raccontate in tante pellicole dai Coen.
Questa versione, al tempo stesso apocrifa e distopica del personaggio creato da Raymond Chandler, risulta quanto mai credibile e, in un certo modo, per lo scenario degli anni settanta americani, si allinea alla trasposizione che ne ha fatto Altman (curiosamente uscita lo stesso anno del libro, il 1973) anche se in quel caso Marlowe era ancora piuttosto giovane (un Elliot Gould trentacinquenne), mentre il character di Soriano è vecchio e si sente vecchio, fuori posto, colmo di rimorsi e risentimenti pronti per deflagrare ad ogni occasione.
L'amore che traspare dal socialista Soriano per gli States con tutte le loro contraddizioni (che l'Argentina da lì a poco avrebbe conosciuto sulla propria carne viva) è lo stesso di noi vecchi comunisti, che criticavamo l'imperialismo USA ma amavano Hollywood, Steinbeck, Hemingway e il rock and roll. Se sostituite il rock and roll con il blues, questo è il materiale di formazione che Soriano mette nel suo romanzo d'esordio, nel quale è impossibile non identificarci (aggiungo che, almeno in questa edizione, il libro ha una sorta di postfazione interessante: Chandler ci spiega il suo punto di vista riguardo il suo personaggio più famoso attraverso varie interviste nel corso del tempo).
Non è certo un inedito che uno scrittore parli di posti in cui non è mai stato quasi meglio dei colleghi indigeni, ma ecco, insomma, Triste, solitario y final presentò al mondo un romanziere atipico, dalle passioni trasversali (come quella per il calcio, tifosissimo del Torino, al quale propose l'acquisto di un giovanissimo talento argentino all'epoca poco noto: Diego Armando Maradona), destinato a lasciare il segno e purtroppo scomparso troppo presto.
giovedì 2 ottobre 2025
My favorite things, settembre '25
La legge della notte (3/5)
lunedì 29 settembre 2025
Skunk Anansie, The painful truth
Da allora il gruppo guidato dall'inconfondibile voce e presenza di Skin ha fatto il suo percorso composto da sette album (a cui vanno aggiunti i due solisti della frontwoman), ma sul blog non ne ho mai parlato. E non è che fossi distratto, semplicemente dopo l'epifania iniziale, quello che girava in termini di singoli e video non mi ha mai fatto venire la voglia di approfondire. Cioè, quella confidence zone fatta di ballate e midtempo, costruita su misura per esaltare l'ugula di Skin, proprio non confaceva ai miei gusti.
Qualche settimana fa inserisco The painful truth, il loro ultimo lavoro, nella chiavetta USB che uso in auto (sono anziano, eh), ma non lo ascolto mai, finchè, per il caso determinato dal fatto che gli album sono riprodotti in sequenza alfabetica, terminato il disco di Samantha Fish parte il lavoro degli Skunkies, e parte con una traccia sensazionale, destinata ad entrare nel novero delle mie migliori dell'anno. A quel punto, maledetti, mi hanno agganciato.
La traccia è An artist in as artist, una sorta de L'avvelenata in abito rock, se mi passate il paragone, dove Skin rivendica orgogliosamente la sua postura artistica ("An artist is an artist/Without followers or fartists/Without comments, without views, without consequence/They ain't here for your pleasure/Changing up like British weather") e tanta è l'urgenza comunicativa che il frenetico cantato lambisce il rap. Pezzo della madonna, davvero, non ho la necessaria conoscenza della discografia della band per dirlo, ma nel mio piccolo questo è il tiro che vorrei sempre da Skin e soci.
Ovviamente gli Skunk Anansie non abdicano dal sound che li ha visti affermarsi al grande pubblico, perciò This is not your life è esattamente quello che ti aspetti da loro, così come Shame o Lost and found, che con l'inizio a cappella enfatizza la clamorosa pulizia della voce di Skin (come mi piacerebbe vederla misurarsi col classic soul). Devo ammettere che fosse stato per questi brani, sebbene oggettivamente validi, avrei abbandonato l'ascolto, e invece qualche perla che aumenta le battute lungo la tracklist l'ho ancora scovata, come Cheers, Fell in love with a girl e, soprattutto, Shoulda been you, centrato omaggio ai primi Police.
Colpo di coda.
giovedì 25 settembre 2025
Recensioni capate: Un uomo perbene (1999)
Sicuramente faranno di meglio Bellocchio e Gifuni, ma, onestamente, ci vuole poco.
Prime
lunedì 22 settembre 2025
I delinquenti (2023)
Moràn è un grigio impiegato di banca di Buenos Aires, dall'esistenza monotona e scandita dall'abitudinarietà. Decide di deviare il corso già scritto della sua vita sottraendo denaro al suo istituto di credito, farsi arrestare e godersi il malloppo dopo qualche anno di carcere. Perchè ciò funzioni ha bisogno di un complice, e, a cose fatte, lo individua in Romàn, un collega incredulo e restio al coinvolgimento, che però, sotto ricatto, accetta.
Approfitto della promozione estiva di Mubi (sei mesi a quasi un terzo del prezzo dell'abbonamento) e comincio a buttare un occhio ai titoli in catalogo. Parto con questo film argentino di Rodrigo Moreno perchè, lo ammetto, la sinossi sembra essere quella di un heist movie. Niente di più sbagliato, o meglio, potrei azzardare che I delinquenti stia all'heist movie come Fino all'ultimo respiro di Godard sta al noir. Siamo cioè nel campo in cui una manifestazione artistica libera prende a pretesto un genere popolare per esprimersi liberamente. E mai "inganno" si è rivelato più felice di questo.
Faccio un parallelo con la nouvelle vague perchè ritrovo molti dei suoi elementi dentro la pellicola di Moreno che, in tre ore di film, utilizza il furto esclusivamente come perno sul quale agire per mettere in scena l'alienazione, la libertà autentica (anticonvenzionale, sessuale, anti-capitalistica), le maschere che portiamo, la fragile stabilità su cui è costruita la nostra vita, le convenzioni sociali alle quali soccombiamo.
Moràn (un Daniel Elias bravissimo a lavorare per sottrazione), come il Belluca di Pirandello (anche lui contabile, casualmente), ad un certo punto della sua vita sente "il fischio del treno" e decide di rivoluzionare il suo destino. Il repentino raggiungimento di questa consapevolezza avviene però fuori scena, lo spettatore assiste alla mutazione del personaggio senza indizi, ne deriva che il momento del furto è privo delle canoniche fasi preparatorie e spogliato di qualunque escalation di tensione, viceversa elemento irrinunciabile di qualunque heist movie.
La narrazione è sostanzialmente divisa in due scenari, il primo nella capitale argentina, ripresa negli aspetti più negativi delle grandi metropoli, il grigiore, l'indifferenza della gente per strada, la solitudine, l'alienazione, le abitazioni che tentano di essere abbellite ma risultano opprimenti e, come contrasto, i luoghi naturali di una bellezza indescrivibile dell'Alpa Corral, regione selvaggia a circa settecento chilometri di distanza da Buenos Aires, dove, chi ha scelto di viverci, ad esempio la giovane Norma (Margarita Morfino) assieme alla sorella e gli amici, lo fa all'insegna della vita frugale, della simbiosi con la natura e della più completa libertà, a spregio di ogni ipocrita convenzione sociale. Ad un Moràn, visitatore occasionale che le dice di volersi trasferire lì risponde che tutti i cittadini lo affermano, ma poi non trovano il coraggio di farlo. In seguito, quando Norma passa del tempo a Buenos Aires trova noiosa la metropoli e patetico il suo piagnucoloso partner che fallisce nel tentativo di ricattarla emotivamente, ponendosi d'ostacolo al suo essere anticonvenzionalmente libera.
Le sezioni del film - una storia nella storia - che si svolgono all'Alpa Corral sono quelle che più lo affrancano dalle consuete dinamiche heist/crime e più richiamano, nei tempi dilatati, nell'andare fuori tema, la nouvelle vague. Entrambi i protagonisti maschili, in modalità differenti, vivono, e sono trasformati, dall'esperienza di questo paradiso incontaminato, l'uno però tornerà mestamente alla sicurezza della vita passata mentre l'altro cercherà fino all'ultimo (letteralmente) di sradicarsi dalla sua esistenza precedente.
Non conosco gli attori (ho delle lacune sul cinema argentino) però l'impressione, data la naturalezza delle interpretazioni, è che si tratti quasi di recitazioni in orbita neorealismo. Tutti davvero convincenti, di qualcuno ho già accennato, tuttavia meritano una menzione anche Esteban Bigliardi (il collega Romàn) e Germàn De Silva, che se si affina la vista lo si riconosce in due ruoli, in entrambi i casi, emblematicamente, come "capo" di Moràn: prima in banca, e poi in prigione.
Essendo questo un blog ad ampia vocazione musicale non posso concludere senza citare la Pappo's Blues, band argentina realmente esistita il cui ellepì d'esordio (1971) fa da filo rosso, passando di mano in mano, alle varie fasi della narrazione e la cui musica (blues con testi sociali) sottolinea più di una scena della pellicola, fino ai titoli di coda.
I delinquenti è una visione che richiede impegno, ma restituisce un'epifania per gli occhi, il cervello e l'anima.
Mubi
giovedì 18 settembre 2025
Due parole sul nuovo corso di Dexter
lunedì 15 settembre 2025
Recensioni capate: Samantha Fish, Paper doll
La Fish viene notata nel 2009 dopo l'auto-pubblicazione di un album dal vivo (Live bait) nel quale proponeva standards e pezzi inediti. Da allora pubblica una decina di dischi a proprio nome, più qualcuno in comproprietà con altre blueswomen.






















