giovedì 4 dicembre 2025

My Favorite Things, Novembre '25

ASCOLTI

Rosalìa, Lux












Sarah Jane Morris, Forever young
Agnostic Front, Echoes in eternity
Cheap Trick, All washed up
D.K. Harrell, Talkin' heavy
The Fall, 50,000 Fall fans can't be wrong
Paolo Conte, Concerti
Coroner, Dissonance theory
Daron Malakian and Scars on Broadway, Addicted to the violence
Lathe of Heaven, Aurora
Bruce Springsteen, Nebraska '82

Monografie/Playlist

Trivium
Biffy Clyro
Fela Kuti
KISS
Elvis Costello


VISIONI

La coda del diavolo (3/5)
House of dynamite (3,5/5)
I peccatori (3,75/5)
Flight risk - Trappola ad alta quota (2,25/5)
Mountainhead (3/5)
The running man (3,5/5)
Attacco al potere - The siege (1998) (2,75/5)
Il colibrì (2,5/5)
28 anni dopo (3,75/5)
Poker face (2,5/5)
Il maestro (3,5/5)
The Bricklayer (2/5)
Absolution - Storia criminale (2,5/5)

Visioni seriali

The sinner, stagione uno, otto episodi (2,75/5)
Reacher, stagione uno, otto episodi (2,5/5)

LETTURE

Luigi Pirandello, Uno, nessuno e centomila

lunedì 1 dicembre 2025

Recensioni capate: Volbeat, God of angels trust



Nono album per i Volbeat, a quattro anni da quello che a mio avviso è stato il loro disco peggiore, Servant of the mind. Pensionato il chitarrista Rob Caggiano, la band si riduce a tre elementi, con il leader Poulsen a suonare tutte le parti di chitarra (presumo che dal vivo si aggiungerà un tour member). Questo God of angels trust è un passo in avanti in termini di durezza rispetto all'ultimo lavoro, posto che la band ha sempre nelle melodie catchy una sua cifra ben definita e radicata. I Volbeat dopo tanti anni di carriera hanno un sound riconoscibile tra mille gruppi, e questo sicuramente è un punto a loro favore, che diventa però un difetto nel momento in cui ci si crogiolano troppo. Intendo dire: ormai ci si aspetta che in ogni disco ci sia la traccia country/metal, in questo caso In the barn of the goat giving birth to satan's spawn in a dying world of doom, così come quella rockabilly/metal (Better be fueled than tamed). La parte più ariosa, radiofonica si sarebbe detto un tempo, anch'essa immancabile, è invece deputata a Time will heal ed Acid rain. Tuttavia la formula funziona (il disco ha venduto bene, soprattutto nei Paesi europei a forte tradizione hard rock) e quindi avanti così.
Alla fine un buon ritorno per un lavoro piacevole, non ci si può aspettare, dopo vent'anni spaccati di produzione discografica, il sacro fuoco dell'ispirazione originaria. Bella cover "metal".

lunedì 24 novembre 2025

Tiziano Terzani, Lettere contro la guerra (2002)

 


All'indomani dell'attacco terroristico dell'undici settembre, Oriana Fallaci pubblica sul Corriere della Sera il suo (per me) famigerato j'accuse contro un intero popolo, quello di fede islamica. Tutti abbiamo letto quelle righe, chi con cieca esaltazione, io personalmente con sconcerto per come una delle migliori giornaliste e scrittrice italiane di sempre potesse, nell'età teoricamente della ragione, rovesciare tanto odio non contro dei criminali colpevoli di omicidio di massa, ma anche contro il resto del miliardo di esseri umani "colpevoli" solo di essere musulmani. La lettera/pamphlet s'intitolava La rabbia e l'orgoglio.

Molti meno, ne sono certo, hanno invece letto la risposta che, sempre il Corsera, pubblicò qualche giorno dopo. Io, per esempio, non lo feci. La scrisse Tiziano Terzani, come la Fallaci anche'egli toscano e giornalista/scrittore, s'intitolava Lettera da Firenze - Il sultano e San Francesco ed è raccolta, insieme ad altre sei, che rappresentano la ripresa della sua collaborazione con il giornale milanese, in tempi e modalità non codificati (cioè, scriveva quando aveva qualcosa da dire), ma tutte da una provenienza asiatica, il continente a cui Tiziano era più fisicamente e spiritualmente legato.

E di spiritualità è intrisa la risposta alla svolta di aggressiva intolleranza della Fallaci, rivolgendosi direttamente a lei, Terzani entra nel merito della dignità delle persone da lei così violentemente disprezzate , spiegandone con coraggio intellettuale (in quella fase erano in molti a condividere l'opinione di Oriana e la necessità di una nuova "crociata") storia, torti, occupazioni (anche di territori sacri) da parte di oriente e occidente, discriminazioni, violenze, sopraffazioni, appropriazione di risorse naturali, con le popolazioni locali perennemente tenute in uno stato di totale indigenza. Il tutto naturalmente senza mai giustificare nemmeno lontanamente la violenza e la brutalità dei terroristi che uccidevano persone innocenti. Semplicemente spiegando e indicando responsabilità, auspicando infine che Oriana potesse: "trovare pace. Perchè se quella non è dentro di noi non sarà mai da nessuna parte."

Come dicevo, la raccolta si compone poi di altre lettere, tutte affascinanti e tutte inviate da stati asiatici (Peshawar e Quetta, Pakistan; Kabul, Afghanistan; Delhi, India; Himalaya). In particolare le missive dall'Afghanistan, che raccontano bene la condizione di un Paese da sempre sottomesso ad occupanti stranieri (inglesi, russi, talebani, americani) ma che non si è mai piegato, abituato com'è alla fame, agli stenti, alla resistenza. Terzani ci racconta senza ipocrisie l'ostilità di quella gente, scottata da secoli di occupazione, nei confronti degli stranieri ("cosa sei venuto a fare, qui? Vi uccideremo tutti", gli dice un giovane), ma, al tempo stesso, pazientemente si fa interprete della tradizione orale che, soprattutto gli anziani, sono disposti a tramandargli. Troppo presto abbiamo dimenticato la dottrina Bush/Cheney, le violazioni dei diritti umani perpetrati in quelle terre da "contractors", società private che, in appalto per gli USA avevano le mani totalmente libere per rapire, torturare, uccidere chiunque volessero (consiglio la visione di The torture report, del 2019). Troppo presto abbiamo voluto dimenticare ciò che è stato fatto in Afghanistan, i cui abitanti invece ricorderanno. A lungo.

La raccolta di scritti di Terzani è unita dal filo rosso di un modello di vita alternativo, che sempre più si assottiglia anche nei Paesi più spirituali come l'india, un modello assemblato sul rifiuto del consumismo, del superfluo e invece sul rafforzamento del concetto di collettività, di solidarietà e di mutuo soccorso, senza secondi fini. E' passato quasi un quarto di secolo da quando queste lettere sono state pubblicate ed è incredibile come la loro forza, il loro appello serva come l'ossigeno oggi più che allora.


giovedì 20 novembre 2025

Recensioni capate: I peccatori (2025)


Recupero finalmente, dopo essermelo perso al cinema, questo film di Ryan Coogler (Creed, i due Black Panther) che, pur avendo goduto di un budget sostanzioso, è scresciuto a dismisura grazie al passaparola tra gli spettatori. I peccatori è un bel filmone di genere che celebra l'orgoglio nero, capace però di regalare più spunti, tutti interessanti. In molti l'hanno paragonato a Dal tramonto all'alba di Rodriguez e la similitudine ci sta, sia per come Coogler svolge il primo atto nel quale ignoriamo il tema sovrannaturale, sia per la parte home invasion del secondo. L'aspetto che mi ha conquistato, al netto di un'ottima messa in scena action/horror e il sottotesto sociale rispetto alla condizione dei neri tra le due guerre, nel Mississippi (e non solo lì, ovviamente), è quello musicale, con il protagonista Preacherboy (Miles Caton) che, analogamente a tanti altri chitarristi del Delta all'inizio del novecento, ha un talento per il blues. Un talento che, nel film, attiva addirittura gli interessi demoniaci di una creatura malvagia (Jack O'Connell, semplicemente perfetto), bianca, irlandese, che vorrebbe appropriarsene attraverso la vampirizzazione del bluesman. L'ho trovata una metafora abbastanza esplicita di come gli afroamericani hanno sempre accusato i bianchi di essersi arricchiti con la musica dei neri, lasciando le briciole a questi ultimi. Le due parti quasi da musical del film: il concerto blues nel juke joint le cui note torride aprono una breccia temporale sul futuro e, di contro, la danza irlandese dei vampiri sulle note de The rocky road to Dublin mi hanno esaltato e sono tra i momenti migliori di una pellicola che non si risparmia nemmeno su scene di sesso, praticato e raccontato.
La scena finale tarantiniana celebra il mattatore assoluto Michael B. Jordan, chiamato da Coogler allo sdoppiamento. 

Un vero spasso. Un titolo che sicuramente andrà tra i migliori dell'anno.  


Prime e Sky (a pagamento)

lunedì 17 novembre 2025

Passione cofanetti / 2 - Winds of time: The New Wave Of British Heavy Metal 1979-1985


Nel 2018 la storica etichetta indipendente inglese Cherry Red Records (Mott the Hoople, Runaways, Dead Kennedys) dà alle stampe questa esaustiva raccolta che accende un riflettore potente sulla nascita dell'heavy metal attraverso la discoperta di oltre cinquanta band che hanno animato il suo periodo più glorioso ed eccitante, quello che, dal 1979, ha dato origine alla NWOBHM. L'opera, per scelta artistica o per necessità (leggi diritti discografici) si concentra su combo meno noti, non troverai ad esempio Maiden o Priest, che sfido anche i più esperti del genere a conoscere. A fianco dei "nomi di punta", tra i quali Saxon, Venom, Angel Witch, Tokyo Blade, Diamond Head, troviamo infatti band sommerse dalle sabbie del tempo come Hellanbach, Aragorn, Brooklyn, Persian Risk, Fist, Gaskin, Bitches Sin e una marea di altre. Il packaging è molto buono, il contenitore è di cartone rigido e si apre a scrigno, i tre CD sono contenuti da una busta anch'essa di cartoncino e il libretto, a colori, consta di venti pagine. Non credo ci sia in commercio niente di così appassionato, minuzioso e curato.

lunedì 10 novembre 2025

Springsteen - Liberami dal nulla


"Hey, mister deejay won'tcha hear my last prayer?
hey ho, rock and roll deliver me from nowhere"  
Open all night, Nebraska, 1982

Bruce Springsteen è l'artista più taggato del blog (siamo a quaranta post nel corso degli anni), ed è anche l'artista musicale che, come ho già avuto modo di affermare, fa più parte di me. Ciononostante, o forse proprio per questo, non gli ho mai risparmiato critiche, evidenziato incoerenze, segnalato un'eccessiva deriva "istituzionale", nonchè, di recente, rimproverato una bulimia di pubblicazioni dal valore altalenante ma tendente al basso, in palese contrasto con il rigore assoluto delle sue scelte nel periodo maggiormente florido ed ispirato (indubbiamente l'orizzonte temporale 1972/1984).

Ecco, per uno come me, che coltiva questo tipo di relazione con un artista (non sono l'unico, devi sapere che gli springstiniani - brutta razza - misurano la propria credibilità enunciando il numero di concerti visti del Boss, allo stesso modo con cui i ragazzini si sfidano misurandosi l'uccello), il momento del biopic movie non è un momento banale. Mettiamoci anche che fa strano assistere ad un film biografico con l'artista ancora in vita e che partecipa attivamente alla sua realizzazione. Non vorrei davvero essere nei panni del suo psicanalista. O forse sì.

Per fortuna, un pò ricalcando la stessa scelta compiuta per il recente film su Dylan, la pellicola si concentra su un periodo limitato della vita del rocker. Se per Bob era il primo lustro di carriera discografica, per Springsteen è addirittura poco più di due anni: dall'ultima tappa del trionfale tour di The river (Cincinnati, 13 settembre1981), passando per l'uscita di Nebraska (30 settembre 1982), e all'anno successivo, in cui mette a punto Born in the USA e inizia il suo lungo percorso terapeutico.

Il film di Scott Cooper è una trasposizione del libro di Warren Zanes Liberami dal nulla, recensito giusto qualche mese fa, che affronta una manciata di temi esistenziali ricorrenti per il Boss: la sua vita giù dal palco, le conseguenze del difficile rapporto col padre, il suo rapporto rigoroso con la musica che produce(va) e la depressione.

La difficoltà di mettere in scena una biografia di un artista marchiato a fuoco nella cultura pop è quello di trovare un bilanciamento e creare un prodotto audiovisivo d'impatto che accontenti i milioni che lo idolatrano e chi, il resto del pubblico potenziale, vorrebbe semplicemente assistere ad un film coinvolgente. Lascio ai secondi rispondere se la sfida sia stata vinta. Il mio giudizio alla prima visione è che il film vive di alti e bassi, pur raggiungendo la sufficienza piena (3,25/5).

Tra gli aspetti che non mi hanno del tutto convinto ci sono proprio quelli più tecnici, della messa in scena, in particolar modo il bianco e nero delle scene in flashback mi hanno lasciato una sensazione di prodotto televisivo (ci sarà un modo alternativo di fare uno stacco temporale senza ricorrere al b/n?). Inoltre, capisco che Jeremy Allen White - che pure è impressionate nella sequenza live in cui interpreta Born to run - dovesse "travestirsi" da Bruce, ma indossare per metà film la camicia che il vero Springsteen portava sulla copertina di The River forse è un pò too much.

D'altra parte chi, come me, si è documentato negli anni sulla storiografia springstiniana, avrà apprezzato alcuni riferimenti: la battuta del discografico in relazione alla montagna di outtakes (i pezzi inediti) di qualità che, fino al 1998, Bruce ha caparbiamente negato ai suoi fans (e alla CBS); l'enorme influenza che i Suicide hanno avuto durante la realizzazione di Nebraska (importante perchè il duo newyorchese muoveva in ambiti musicali abissalmente distanti da quelli della E Street Band); le note influenze cinematografiche, quali La rabbia giovane (il cui titolo originale, Badlands, è anche una delle sue canzoni più note)  laddove la vera storia della coppia omicida raccontata da Malick aveva letteralmente ossessionato Springsteen al punto da dedicargli il brano Nebraska e La morte corre sul fiume di Laughton, infine quelle letterarie (su tutte Flannery O'Connor). Ora, capisci bene che se per un lungo periodo vai avanti a dosi di Flannery O'Connor e Suicide è complicato che tu stia proprio bene bene. Provare per credere.

Sul rapporto col padre, più volte trasposto nelle canzoni, Bruce si era appena lasciato alle spalle rabbia e risentimento, precedentemente incanalate in canzoni come Factory, nel 1978 ("Fine della giornata lavorativa / Gli uomini escono dalla fabbrica con la morte negli occhi / e faresti meglio a crederci ragazzo / qualcuno si farà male stasera") e Independendence day del 1980 ("L'oscurità di questa casa s'è presa il meglio di noi / c'è un'oscurità in questa città che ha fatto lo stesso / ma loro non possono toccarmi più / e tu non puoi toccarmi più / non faranno a me quello che gli ho visto fare a te"). 
Ora, con le session di 
Nebraska, attraverso brani quali My father's house, Used cars e My hometown (che sarà pubblicata in seguito, su Born in the USA) era iniziata la fase della compassione e della nostalgia, della comprensione del grande male oscuro che divorava Douglas Frederick Springsteen e che egli riceve in eredità.

"Io so chi sei, grande rockstar!". "Almeno tu lo sai". Lo scambio di battute tra il venditore di auto usate e il Boss è sintomatico di come Springsteen in quella fase si sentisse perso, irrisolto, tra una massa in adorazione crescente e il bisogno di solitudine e di ricerca di sè stesso che non poteva risolversi solo in un disco a bassa fedeltà, disperato e anomalo, ma con l'aiuto di un terapeuta.

Forse è anche qui che il film non colpisce al centro il bersaglio. Per i primi due atti ci sembra di vedere un artista tormentato dalla direzione musicale che vorrebbe intraprendere ma cui non riesce a dare la forma che vorrebbe, solo nel terzo, con l'attacco di panico, viene acceso un riflettore sulla patologia che lo attanaglia. Così facendo si ridimensiona a pochi minuti di narrazione la centralità di un problema che invece, da quanto ci dice lo stesso Boss nella sua autobiografia, non l'ha mai abbandonato nel corso di tutta la sua esistenza. E pur tuttavia, la sequenza della prima seduta psicanalitica ci arriva comunque diretta, potente e ottimamente gestita da Jeremy Allen White. 

Sul momento m'è parsa un pò forzata anche la storia d'amore con Faye (un'intensa Odessa Young), ma, evidentemente, per l'artista era invece essenziale (e qui si scatena il nerd springstiniano) per il particolare della collana con San Cristoforo che Bruce continua ancora oggi ad indossare costantemente, a sancire probabilmente l'importanza di quella storia nella sua vita. Poi, certo, il rapporto con Faye ci serve anche ad entrare nelle difficoltà relazionali di un uomo abituato ogni  notte ad avere decine di migliaia di persone in pugno, ma che scappa davanti a quelli che potrebbero diventare legami importanti, duraturi.

Viceversa ho particolarmente apprezzato l'interpretazione di Jeremy Strong, che, dopo l'eccellente prova fornita per Roy Cohn, l'avvocato luciferino e corrotto, cattivo maestro del giovane Trump, ci regala un'altra recitazione perfettamente in parte, con un meraviglioso basso profilo, che ben ci spiega il rapporto paterno (nonostante per età si dovrebbe parlare di fratellanza) di Jon Landau con Springsteen. Sua una delle battute più esaltanti del film, quella "Qui, in questo ufficio, nel mio ufficio, noi crediamo in Bruce Springsteen" in risposta al manager CBS che ironizzava sulle potenzialità della canzone My father's house, in effetti la più indigesta di Nebraska, con le sue sei strofe tutte uguali per sei minuti di durata. A lui Landau fa digerire il diktat di Springsteen "no singles, no press, no tour", qualcosa di inaccettabile, per il mercato discografico dell'epoca e per un artista che ha costruito la sua leggenda sui concerti.

In realtà, alla fine, un singolo fu pubblicato. Si trattava di Open all night. E' dall'ultima riga di testo di questo pezzo saturo di disperazione e solitudine (richiamata in premessa al post e curiosamente identica ad un'altra canzone del disco, State trooper), che deriva il titolo della pellicola. Dedicargli qualche secondo pedagogico per spiegarlo forse sarebbe stato opportuno, diversamente lo spettatore deve sbizzarrirsi in ipotesi (anche irriverenti) sulla sua ragion d'essere.

Mettiamola così: il disco Nebraska (su cui peraltro tornerò a breve per la pubblicazione di una expanded edition) è uno dei più importanti della storia moderna della musica, il libro Deliver me from nowhere è un testo importante per comprenderlo a fondo, questo film è un buon prodotto che tuttavia dubito resista in salute all'erosione del tempo.



giovedì 6 novembre 2025

Recensioni capate: Capi di Stato in fuga (2025)


Tira più un film action USA che... 
Recentemente la piattaforma Prime Video ha rilasciato due film action con contaminazioni comedy più o meno marcate. Il primo, su cui nutrivo discrete aspettative, in considerazione del ritorno di Shane Black, è Play dirty (che resuscita per l'ennesima volta Parker, il criminale inventato da Westlake/Stark)il secondo, che avevo pregiudizialmente snobbato è invece Capi di Stato in fuga. Imprevedibilmente il ritorno di Black dietro alla mdp è stato una delusione (film impersonale, che avrebbe potuto dirigere un Simon West qualunque) mentre l'inverosimile Heads of State si è rivelato sì la classica "americanata"(2,5/5), ma con un ottimo ritmo e qualche battuta efficace - ad esempio "l'originalità" con cui gli americani chiamano le cose - . 
Forse perchè la regia è stata affidata al russo Il'ja Najsuller (peraltro anche musicista con la band di indie rock Biting Elbows), già dietro la mdp per Hardcore e Io sono nessuno
Cast ricco: Elba (che qui fa il premier UK, mentre in House of dynamite il presidente USA), Cena, Considine, Chopra Jonas, Gugino, "prezzemolino" Jack Quaid, e a mio avviso ben sfruttato, per una storia che prende in giro grossolanamente i luoghi comuni di britannici e americani, con, soprattutto nel caso di John Cena, un presidente USA ipertrofico, nazionalista, ma tutto sommato bonaccione e un pò tonto. Interessante come il film sia stato girato tra il 2023 e il 2024 ma il traditore americano dietro al complotto per rovesciare l'ordine costituito utilizzi esattamente gli autentici slogan del Trump presidente contro Europa e NATO, colpevoli di aver dissanguato l'America. E insomma, inquadrare come subdolo e meschino traditore un personaggio che usa retorica e "argomenti" di Trump non è proprio malaccio per un film che nasce indiscutibilmente per una fruizione mainstream. 
Dopodichè è chiaro a tutti che i buddy movie di Walter Hill erano ben altra cosa, ma di questi tempi abbiamo visto decisamente di peggio.

Prime video

lunedì 3 novembre 2025

My Favorite Things, ottobre '25

ASCOLTI

Coroner, Dissonance theory
The 2 Bears, Be strong
Bruce Springsteen, Nebraska '82
Mammoth, The end
Doja Cat, Vie
Cameron Winter, Heavy metal
Marcus King, Honky Tonk hell
Daniel Donato's Cosmic Country BandHorizons
Ryan Adams, Changes
Wino, Create or die
Testament, Para Bellum
Joe Strummer, 001













VISIONI

in grassetto i film visti in sala

Niente di nuovo sul fronte occidentale (2022) (3,5/5)
Una battaglia dopo l'altra (4/5)
Ho affittato un killer (4/5)
Companion (3,5/5)
Mr Morfina (3,5/5)
Il debito (2,75/5)
The master (4/5)
Vivere e morire a Los Angeles (4,5/5)











Mulholland drive (4,5/5)
In the mood for love (4/5)
Play dirty (2,25/5)
Capi di stato in fuga (2,5/5)
Eddington (4/5)
The brutalist (3,5/5)
Crime and punishment - Delitto e castigo (1983) (3,5/5)
Springsteen - Deliver me from nowhere (3,25/5)
La grande fuga (3,75/5)


Visioni seriali

Nothin' but a good time - La storia non censurata dell'hair metal degli anni 80 (doc) tre episodi (3/5)
Black Rabbit, otto episodi (3,5/5)


LETTURE

Tiziano Terzani, Lettere contro la guerra
Eric Hobsbawn, Il secolo breve

martedì 28 ottobre 2025

Nothin' but a good time - La storia non censurata dell'hair metal degli anni 80 (2025)


Quanto ci piaceva l'hair metal! In un certo senso era la quintessenza del marketing degli USA stessi: look estremo, eccessi, bellezza, sesso, droghe e rock and roll a portata di mano per i più sfacciati e spudorati (e quindi non necessariamente i più bravi). Chiaro che non poteva durare, ma come ogni genere musicale (anche più dignitoso del cazzo di glam-metal) nessuno dei protagonisti se n'era accorto per tempo, fino a quando non è arrivato il meteorite grunge a distruggere tutto il creato hair conosciuto. 
Il progetto Nothin' but a good time (che prende il titolo dal brano manifesto dei Poison) è stato innanzitutto un libro, un racconto orale con le testimonianze dei protagonisti, raccolte dai giornalisti musicali Tom Beajour e Richard Bienstock. La filosofia del volume è ripresa paro paro da questo documentario, diviso in tre episodi, e diffuso da Paramount +. 

La narrazione procede in ordine cronologico, partendo dai primi vagiti del genere, attribuiti a Motley Crue e Quiet Riot, quando gli anni ottanta erano alla linea di partenza. Tra gli intervistati (giornalisti, produttori, musicisti) spiccano Corey Taylor degli Slipknot, all'epoca grande fan del genere, e Bret Michaels, singer e frontman dei Poison. A seguire una sfilza di interviste a protagonisti dell'epoca, tra band di spicco e one hit wonder, quali Def Leppard, Warrant, Winger, L.A. Guns, Hanoi Rocks, Great White, Dokken, Skid Row, Guns 'n' Roses etc.
La carrellata è impietosa nel mostrarci i segni del tempo su corpi e visi degli allora figoni in spandex e lacca: corpi flaccidi, pelli cadenti, alopecie maldestramente occultate da cappellini improponibili e bandane grosse come l'Ohio. In qualche caso, come per Jack Russell, leader dei Great White, l'intervista è avvenuta poco prima della morte (agosto '24) e infatti le sue condizioni ci appaiono veramente al limite.

I commenti a corredo delle immagini (che vanno a ripescare anche il fondamentale volume due de The decline of western civilization) spiegano bene cos'è stato quel periodo. Il sunset strip, la via di Los Angeles affollata di locali in cui le band si esibivano, è stata per qualche anno come Hollywood, solo che invece di aspiranti attori, quel boulevard accoglieva tutta una nidiata di giovanotti che arrivavano anche dalla più remota provincia americana agghindati da manuale, con o senza band, convinti che un bel faccino sarebbe bastato per farli sfondare. E per un pò ha funzionato, anche perchè le major mettevano sotto contratto a ciclo continuo, o meglio a catena di montaggio, una volta capito che il modello funzionava.

Ciononostante, la qualità della musica ha raggiunto anche picchi di autentica qualità: i primi due lavori dei Crue, lo sleaze di Hanoi Rocks e LA Guns, prodomico all'avvento dei GNR, il blues zeppeliniano delle due band White (i Great e Lion) e, sì, chiaramente, il pop appena diluito di aggressività di Poison, Warrant e, ad un certo punto, Def Leppard.

Grande ruolo nell'esplosione del genere è da attribuire a MTV che, attraverso video spesso infarciti di misoginia, determinava vita e morte degli artisti: la vita, nel caso ad esempio di GNR e Def Leppard, i cui masterpiece Appetite for destruction e Hysteria partirono male ma, grazie alla rotazione dei video di Welcome to the jungle e Pour some sugar on me vennero catapultati nell'olimpo delle vendite (oddio, nel caso dei Leppard c'è anche una storiella sugli strip clubs della Florida...), e nel male: quando in un episodio dell'irriverente cartone animato Beavis and Butt-head i due character prendono per il culo un ragazzino cicciottello con la maglietta dei Winger, producono, involontariamente, un autentico tracollo per la band, che è addirittura costretta a cancellare il tour negli States.

La fine arrivò per tutti all'alba dei novanta, e fu così repentina che vide contratti strappati dall'oggi al domani, budget azzerati e video musicali interrotti durante le riprese. Black out, interruttore giù e major che si scapicollavano a nord, dal sole della California a Washington e al drizzle di Seattle, a sfoggiare camicioni di flanella a scacchi e a spompinare il nuovo fenomeno musicale per cui i kids impazzivano. 

E, beh, anche questo è molto americano.


Paramount +

lunedì 20 ottobre 2025

Mani nude (2024)



Davide, poco più che ventenne, viene rapito da una festa in cui si trovava e caricato a forza nel vano vuoto di un camion. Qui, nel buio, subisce l'aggressione di uno sconosciuto. Quando il TIR si ferma i responsabili del rapimento si aspettano ne esca l'aggressore, e invece, ferito e semi incosciente, emerge Davide. Quello che doveva essere il suo omicidio diventa il prologo di una seconda vita, violenta e coercitiva, agli ordini di un certo Minuto. 


Dopo il teso, magari non perfettamente riuscito, ma interessante Non odiare, Mauro Mancini tenta la strada del genere puro portandosi dietro Alessandro Gassman (con lui nel film precedente) e il giovane (2002, ma con già una buon numero di ruoli) Francesco Gheghi. 
Il risultato è molto incoraggiante, questa storia di vendetta e redenzione 
 (tratta da un romanzo di Paola Barbato, che ha già avuto una trasposizione sotto forma di graphic novel) ambientata nel mondo dei combattimenti clandestini è praticamente perfetta nel primo atto, arriva ad un bel finale aperto e "molto poco americano", ma trascina eccessivamente il secondo atto (complessivamente il film sarebbe potuto durare dieci quindici minuti in meno, anche se a me non è pesato). 

Per il resto: la messa in scena è adeguata, così come la fotografia fredda e l'ottimo utilizzo del campo largo nelle inquadrature, il comparto trucco è quasi sempre all'altezza . 
Tuttavia il punto di forza sono senza dubbio le prove attoriali: Gassman recita tanto con la fisicità e lo fa davvero bene, in questo modo quando Mancini gli regala un'imprevista scena ad alto tasso di emotività l'effetto è ancora più potente, perchè non la vedi arrivare. Gheghi, se non lo è già, potrebbe diventare il nostro Timothèe Chalamet: sguardo indifeso e fisico gracile non gli impediscono di sprigionare intensità e forza. Quando, all'inizio, esce dal vano del camion/utero ricoperto di sangue, in stato confusionale, proiettato verso l'ignoto, davvero replica una seconda nascita, questa volta in cattività.  
Non posso infine esimermi dal citare l'interpretazione di Renato Carpentieri, anche se il character assegnatogli da Mancini rientra nella sua comfort zone. 

Lo sviluppo della trama non è - mi viene da dire ovviamente - imprevedibile (anche se la sequenza finale se la gioca bene), si adatta alla forma del genere, ma non l'ho vissuto come un problema (al netto di un evidente buco di sceneggiatura: senza spoilerare, come Gassman arrivi ad individuare in Gheghi il colpevole da punire). 
Nel complesso il film non sfigura davanti alle produzioni spagnole, coreane o francesi, molto più consolidate rispetto a noi per questa tipologia di prodotti audiovisivi. 
E non mi sembra fattore da poco.

Paramount+ 

giovedì 16 ottobre 2025

Biff Byford & John Tucker, Never surrender (2007)


Hai ragione, due post consecutivi sui Saxon, cazzo siamo, nel 1981? Per fortuna (o purtroppo, a seconda) no, semplicemente la lettura dell'autobiografia del leader della band ha fatto da scontata cinghia di trasmissione per riprendere il loro ultimo disco
Per entrare in topic: il lavoro letterario Never surrender viene dato alle stampe nel 2006 e rappresenta il primo elaborato di questo tipo per i Saxon, rivestendo pertanto un valore di primogenitura testimonianza diretta sulla storia del combo inglese, superstite dalla nwobhm. Il testo ha uno sviluppo canonico, dall'infanzia di Byford nello Yorkshire ai primi anni duemila. Emerge la personalità del singer e il suo posizionamento nell'ambito della società inglese soprattutto dei settanta, con qualche contraddizione: pur apparendo come un classico conservatore british egli detesta la Thatcher a causa degli interventi contro la classe operaia (minatori, prevalentemente) del suo territorio, ma si riallinea subito manifestando avversione per la sinistra ("comunistacci"). 

Grande spazio, ovviamente, alla carriera musicale, prima coi Son of Bitch e poi con i Saxon. 
Una parte eccessiva della narrazione se la prende il rammarico/lamentazione per non aver sfondato a livello mainstream, soprattutto in America, tema ridondante che individua i colpevoli in manager e produttori inadeguati, timing sbagliati o tensioni interne alla band. Per come la vedo io, da adepto che li preferisce agli Iron Maiden, ci sta tutto, ma molto semplicemente i Maiden erano migliori, le loro canzoni più intense e articolate, il loro brand più accattivante, lo statement più autorevole. Anche a livello di comunicazione, nel mondo dei metalhead avere una "mascotte" riconoscibile (Eddie, per la band di Steve Harris, ma anche Snaggletooth per i Motorhead), è stato uno dei fattori vincenti e ai Saxon mancava. Infine, i singoli. I Maiden (benchmark assillante di Byford) sebbene indiscutibilmente legati al metal, una manciata di singoli che hanno decollato oltre la loro fanbase li hanno centrati (Run to the hills, Flight of Icarus, Can I play with madness), i Saxon no (Ride like the wind ha avuto una buona esposizione ma fuori tempo massimo, oltre ad essere una cover).

Tornando al libro, tralasciando l'iperattivismo sessuale di Biff, consuetudine delle rockstar negli anni pre-AIDS, e le tensioni nel gruppo che hanno portato una parte di membri originali, capitanati da Oliver e Dawson ad intentare una causa - persa - per appropriarsi del brand-Saxon, la parte che più mi ha interessato è stata quella artistica, il dietro le quinte della realizzazione degli album. Poco altro.
Dubito che Never surrender possa diventare un testo di riferimento trasversale, come fu, ad esempio, La sottile linea bianca di Lemmy, Io sono Ozzy, di Ozzy Osbourne o Miles: l'autobiografia di Miles Davis (per citare artisti di un perimetro musicale definito), che riesca cioè a travalicare il genere, mi sembra piuttosto  il classico prodotto for fans only.

lunedì 13 ottobre 2025

Saxon, Hell, fire and damnation (2024)

 


Nel film Al lupo al lupo, un incauto avventore della discoteca si avvicina al DJ (Verdone) e gli chiede quando arrivino i lenti. "Mai" gli risponde lui perentorio, "non arrivano mai!". Questa è la regola non scritta dei Saxon, un gruppo che qua e là qualche ballata l'ha rilasciata, sempre un pò controvoglia, quasi per dovere (commerciale), ma perlopiù ha derogato a questa norma non scritta dei dischi di metal commerciale, in particolare degli ottanta. 
Non sorprende pertanto che in Hell, fire and damnation il combo tiri dritto, se rallenta è solo per un'economia delle dinamiche dentro i singoli pezzi o per un paio di tracce midtempoes.

L'album, confezionato dentro una cover d'impatto, è il ventiquattresimo in quarantacinque anni di produzione discografica della band, per una media quasi scientifica di due album l'anno (media che si incrementa con i tre dischi solisti di Biff). 
Premi play e dunque sai già cosa aspettarti, il pattern dei Saxon è da tempo quello dei true defender, heavy metal con influenze teutoniche (in Pirates of the airways e Witches of Salem fanno ciao con la manina gli Accept) senza mai perdere la bussola della melodia ne tantomeno quella della ferocia dei bpm, anche grazie ad una doppia cassa (Fire and steel) sfasciata dal veterano Nigel Glocker che, a dispetto dell'età (quest'anno sono settantadue), non ne vuole sapere di rallentare. 
A proposito di veterani del gruppo, ha invece mollato il membro originale Paul Quinn, che prima ha rinunciato ai tour e ora anche alle session di registrazione (al netto di un contributo su un paio di brani), sostituito da Brian Tatler (ex chitarrista Diamond Head). 

E poi c'è lui, Biff Byford, il Boss indiscusso (non solo in quanto frontman, ma proprio perchè possessore dei diritti legali del brand), immarcescibile, un old englishman con una passione - che riversa nei testi - per la storia, antica (1066, Kubla Khan and the merchant of Venice) e più moderna (Madame Guillotine, There's something in Roswell), ed una voce stentorea che ancora si arrampica su tonalità divenute irraggiungibili per molti coetanei. 
Vecchi a chi? 

giovedì 9 ottobre 2025

Recensioni capate: Il padrino della mafia (2019)


Il potere di dissuasione di un titolo trasposto a cazzo di cane. Nel 2019 esce, diretto dal regista canadese Daniel Grou e tratto da un omonimo romanzo d'inchiesta scritto dai giornalisti André Cédilot e André Noël, il film Mafia inc (come da manifesto originale che ho postato). Traduzione per il mercato italiano? Non un conseguente e comunque d'impatto Mafia Spa, ma Il padrino della mafia, titolo che rimanda con la memoria alla produzione italiana dai sessanta agli ottanta quando si prendeva un blockbuster, in genere americano, e lo si replicava spesso  sciattamente e con quattro soldi, nel tentativo di attirare il pubblico richiamando la pellicola di successo. 
Dopo diverso tempo (il film è nel pacchetto Sky da parecchio) sono riuscito ad andare oltre questa sgrammaticatura autolesionista, scoprendo in verità una pellicola dignitosa, con una storia inedita da raccontare - la mafia canadese -,  e buone prove attoriali come quella di Marc-Andre Gondrin, ma anche, massì, di Sergio Castellitto (attore che non mi entusiasma), qui in parte e anche efficace nel districarsi, oltre all'italiano, con francese e inglese. 
La pellicola ci regala inoltre un buon livello di violenza e una regia misurata, congrua. Ulteriore elemento di interesse in relazione alla stretta attualità l'incipit del film, ambientato nel '94 dopo l'affermazione elettorale di Berlusconi, con le tre cupole (americana, italiana, canadese) riunite a fregarsi le mani immaginando il guadagno che realizzeranno, grazie agli affidamenti politici, con il Ponte sulle Stretto. Ovviamente, come recita il disclaimer sui titoli di testa, è solo finzione. 
Già.


Sky

lunedì 6 ottobre 2025

Osvaldo Soriano, Triste, solitario y final (1973)



Triste, solitario y final è il notissimo debutto letterario di un allora trentenne Osvaldo Soriano, che esordisce in maniera fulminante con un romanzo totalmente surreale. Soriano è intenzionato a celebrare alcuni suoi eroi del cinema e della letteratura americana, in particolare Stan Laurel, morto in povertà e dimenticato dall'industria cinematografica, e Philip Marlowe, per il quale lo scrittore argentino ha immaginato una parabola conclusiva che riprende il titolo del libro (che a sua volta cita una battuta dello stesso Marlowe), e quindi non certo gloriosa, nei settanta.

Il romanzo si apre con Stan Laurel che si reca da Marlowe per ingaggiarlo e il detective che lo irride, non prendendolo minimamente in considerazione. Anni dopo, a seguito della morte dell'attore, Marlowe si imbatte in un giornalista argentino giunto a Los Angeles per raccogliere informazioni allo scopo di pubblicare un libro proprio su Stan Laurel. Non serve sforzo di immaginazione per identificare nel giornalista lo scrittore stesso, perchè il personaggio si chiama Osvaldo Soriano. L'incosciente determinazione dell'argentino miscelata al rassegnato ma al tempo stesso indomito nichilismo dell'anziano detective daranno vita ad un combinato dirompente, all'insegna dei migliori buddy movies.

Marlowe infatti, lontano dal glamour degli anni d'oro e colmo di rimorsi per il trattamento riservato a Laurel, si lancia in imprese impossibili, quasi sovversive (sovviene la distruzione della proprietà borghese messa scientificamente in atto nei film di Lauren & Hardy), dal disastroso esito già implacabilmente scritto, prende una sacca di botte, ma subito riparte per un'altra follia portandosi dietro l'inconsapevole compagno che prende la sua quota di mazzate.

Soriano descrive l'America senza, fino a quel momento, esserci mai stato e nonostante ciò la riconosciamo, nell'ottusa e razzista condotta del LAPD, in uno star system reazionario e violento, capitanato da un manesco John Wayne che agisce nella certezza dell'impunità data dal suo status di star repubblicana. Non ne esce bene nemmeno Chaplin, Soriano vorrebbe intervistarlo per porgli delle accuse in relazione al suo boicottaggio di Lauren & Hardy, ma, va da sè, non ci riuscirà, nonostante un rapimento che avviene in una modalità che rimanda alle imprese tragicomiche raccontate in tante pellicole dai Coen.

Questa versione, al tempo stesso apocrifa e distopica del personaggio creato da Raymond Chandler, risulta quanto mai credibile e, in un certo modo, per lo scenario degli anni settanta americani,  si allinea alla trasposizione che ne ha fatto Altman (curiosamente uscita lo stesso anno del libro, il 1973) anche se in quel caso Marlowe era ancora piuttosto giovane (un Elliot Gould trentacinquenne), mentre il character di Soriano è vecchio e si sente vecchio, fuori posto, colmo di rimorsi e risentimenti pronti per deflagrare ad ogni occasione.

L'amore che traspare dal socialista Soriano per gli States con tutte le loro contraddizioni (che l'Argentina da lì a poco avrebbe conosciuto sulla propria carne viva) è lo stesso di noi vecchi comunisti, che criticavamo l'imperialismo USA ma amavano Hollywood, Steinbeck, Hemingway e il rock and roll. Se sostituite il rock and roll con il blues, questo è il materiale di formazione che Soriano mette nel suo romanzo d'esordio, nel quale è impossibile non identificarci (aggiungo che, almeno in questa edizione, il libro ha una sorta di postfazione interessante: Chandler ci spiega il suo punto di vista riguardo il suo personaggio più famoso attraverso varie interviste nel corso del tempo).

Non è certo un inedito che uno scrittore parli di posti in cui non è mai stato quasi meglio dei colleghi indigeni, ma ecco, insomma, Triste, solitario y final presentò al mondo un romanziere atipico, dalle passioni trasversali (come quella per il calcio, tifosissimo del Torino, al quale propose l'acquisto di un giovanissimo talento argentino all'epoca poco noto: Diego Armando Maradona), destinato a lasciare il segno e purtroppo scomparso troppo presto.


giovedì 2 ottobre 2025

My favorite things, settembre '25

ASCOLTI

David Byrne, Who is the sky
Ryan Adams, Changes
Helms Deep, Chasing the dragon
Neil Young, Comes a time
Paradise Lost, Ascension
Inspector Cluzo, Less is more
Mariah Carey, Here for it all
John Fogerty, Legacy - The Creedence Clearwater Revival years
K.D. Lang, Shadowland
Kneecap, Fine art
Malevolence, Where only the truth is spoken
Robert Plant with Suzi Dian, Saving grace
Oingo Boingo, Skeletons in the closet
Pappo's Blues, ST
Saxon, Hell, fire and damnation
Suede, Antidepressants
Wucan, Axioms
Tyler Childers, Snipe hunters


VISIONI

I delinquenti (4/5)
A hard day (3,25/5)
La legge della notte (3/5)
Il padrino della mafia (2,75/5)
U.S. Palmese (2,25/5)
Ballerina (2,75/5)
Cold in July (3,5/5)
Mani nude (3,5/5)
Un uomo perbene (2/5)
Non odiare (2,5/5)
Ombre nel passato (4/5)
Querido Fidel (3/5)
Kill (2024) (3,5/5)
Sangue facile (4/5)
Nightmare detective (3,75/5)
I gangsters (4,5/5)














Visioni seriali

Dexter: Resurrection , dieci episodi (2,5/5)
Rabbit hole, otto episodi(2/5)
Rapinatori, sei episodi (2,25/5)


LETTURE

Osvaldo Soriano, Triste solitario y final
Biff Byford & John Tucker, Never surrender

lunedì 29 settembre 2025

Skunk Anansie, The painful truth

Tracciamo qualche coordinata. Era il 1996 e nei cinema italiani usciva Strange days della Bigelow. Un film che a tutt'oggi resta uno dei mei preferiti tra i "moderni". La colonna sonora, il cui CD acquistai ad occhi chiusi, recitò un ruolo significativo nella riuscita del film e dentro la colonna sonora Selling Jesus degli Skunk Anansie fece da formidabile traino per il lancio della band. 
Da allora il gruppo guidato dall'inconfondibile voce e presenza di Skin ha fatto il suo percorso composto da sette album (a cui vanno aggiunti i due solisti della frontwoman), ma sul blog non ne ho mai parlato. E non è che fossi distratto, semplicemente dopo l'epifania iniziale, quello che girava in termini di singoli e video non mi ha mai fatto venire la voglia di approfondire. Cioè, quella confidence zone fatta di ballate e midtempo, costruita su misura per esaltare l'ugula di Skin, proprio non confaceva ai miei gusti. 

Qualche settimana fa inserisco The painful truth, il loro ultimo lavoro, nella chiavetta USB che uso in auto (sono anziano, eh), ma non lo ascolto mai, finchè, per il caso determinato dal fatto che gli album sono riprodotti in sequenza alfabetica, terminato il disco di Samantha Fish parte il lavoro degli Skunkies, e parte con una traccia sensazionale, destinata ad entrare nel novero delle mie migliori dell'anno. A quel punto, maledetti, mi hanno agganciato.

La traccia è An artist in as artist, una sorta de L'avvelenata in abito rock, se mi passate il paragone, dove Skin rivendica orgogliosamente la sua postura artistica ("An artist is an artist/Without followers or fartists/Without comments, without views, without consequence/They ain't here for your pleasure/Changing up like British weather") e tanta è l'urgenza comunicativa che il frenetico cantato lambisce il rap. Pezzo della madonna, davvero, non ho la necessaria conoscenza della discografia della band per dirlo, ma nel mio piccolo questo è il tiro che vorrei sempre da Skin e soci.

Ovviamente gli Skunk Anansie non abdicano dal sound che li ha visti affermarsi al grande pubblico, perciò This is not your life è esattamente quello che ti aspetti da loro, così come Shame o Lost and found, che con l'inizio a cappella enfatizza la clamorosa pulizia della voce di Skin (come mi piacerebbe vederla misurarsi col classic soul). Devo ammettere che fosse stato per questi brani, sebbene oggettivamente validi, avrei abbandonato l'ascolto, e invece qualche perla che aumenta le battute lungo la tracklist l'ho ancora scovata, come Cheers, Fell in love with a girl e, soprattutto, Shoulda been you, centrato omaggio ai primi Police.

Colpo di coda.


giovedì 25 settembre 2025

Recensioni capate: Un uomo perbene (1999)


In attesa della distribuzione a inizio 2026 di Portobello di Marco Bellocchio, la nuova serie che si occupa del "caso Tortora" (il tempismo, ahimè, a ridosso del referendum sulla separazione delle carriere, temo ne favorirà la strumentalizzazione propagandistica del governo, benchè il contenuto della proposta di legge niente abbia a che vedere con la responsabilità dei magistrati), sono andato a recuperare la prima produzione cinematografica che si è occupata del caso: Un uomo perbene, girato da Maurizio Zaccaro. Il film può essere preso a caso di scuola di come spesso non bastino le buone intenzioni. Ci teniamo quelle, il grande valore civile e divulgativo del più noto e kafkiano caso di persecuzione contro un uomo innocente, ma il risultato è ai limiti dell'inguardabilità. C'è poco da aggiungere, il film, nonostante un buon cast (Placido, Accorsi, Melato, la Mezzogiorno, Gemma) è pessimo sotto ogni punto di vista. La regia è piatta, da fiction televisiva, ma a livello Gli occhi del cuore e le recitazioni ne risentono, non riuscendo mai ad essere convincenti, Leo Gullotta è parodistico, nonostante il ruolo assegnatogli (il pentito Pandico) poteva essere il più stimolante, per un attore. La narrazione in flashback e flashforward aveva delle potenzialità, ma è gestita male, fino ad arrivare ad una sciatteria inqualificabile nella caratterizzazione dei personaggi, che mette in bocca a Pasquale Barra (O'Animale) un dialetto siciliano, lui che era camorrista campano. 
Sicuramente faranno di meglio Bellocchio e Gifuni, ma, onestamente, ci vuole poco.

Prime

lunedì 22 settembre 2025

I delinquenti (2023)

Moràn è un grigio impiegato di banca di Buenos Aires, dall'esistenza monotona e scandita dall'abitudinarietà. Decide di deviare il corso già scritto della sua vita sottraendo denaro al suo istituto di credito, farsi arrestare e godersi il malloppo dopo qualche anno di carcere. Perchè ciò funzioni ha bisogno di un complice, e, a cose fatte, lo individua in Romàn, un collega incredulo e restio al coinvolgimento, che però, sotto ricatto, accetta. 


Approfitto della promozione estiva di Mubi (sei mesi a quasi un terzo del prezzo dell'abbonamento) e comincio a buttare un occhio ai titoli in catalogo. Parto con questo film argentino di Rodrigo Moreno perchè, lo ammetto, la sinossi sembra essere quella di un heist movie. Niente di più sbagliato, o meglio, potrei azzardare che I delinquenti stia all'heist movie come Fino all'ultimo respiro di Godard sta al noir. Siamo cioè nel campo in cui una manifestazione artistica libera prende a pretesto un genere popolare per esprimersi liberamente. E mai "inganno" si è rivelato più felice di questo.

Faccio un parallelo con la nouvelle vague perchè ritrovo molti dei suoi elementi dentro la pellicola di Moreno che, in tre ore di film, utilizza il furto esclusivamente come perno sul quale agire per mettere in scena l'alienazione, la libertà autentica (anticonvenzionale, sessuale, anti-capitalistica), le maschere che portiamo, la fragile stabilità su cui è costruita la nostra vita, le convenzioni sociali alle quali soccombiamo.

Moràn (un Daniel Elias bravissimo a lavorare per sottrazione), come il Belluca di Pirandello (anche lui contabile, casualmente), ad un certo punto della sua vita sente "il fischio del treno" e decide di rivoluzionare il suo destino. Il repentino raggiungimento di questa consapevolezza avviene però fuori scena,  lo spettatore assiste alla mutazione del personaggio senza indizi, ne deriva che il momento del furto è privo delle canoniche fasi preparatorie e spogliato di qualunque escalation di tensione, viceversa elemento irrinunciabile di qualunque heist movie.

La narrazione è sostanzialmente divisa in due scenari, il primo nella capitale argentina, ripresa negli aspetti più negativi delle grandi metropoli, il grigiore, l'indifferenza della gente per strada, la solitudine, l'alienazione, le abitazioni che tentano di essere abbellite ma risultano opprimenti e, come contrasto, i luoghi naturali di una bellezza indescrivibile dell'Alpa Corral, regione selvaggia a circa settecento chilometri di distanza da Buenos Aires, dove, chi ha scelto di viverci, ad esempio la giovane Norma (Margarita Morfino) assieme alla sorella e gli amici,  lo fa all'insegna della vita frugale, della simbiosi con la natura e della più completa libertà, a spregio di ogni ipocrita convenzione sociale. Ad un Moràn, visitatore occasionale che le dice di volersi trasferire lì risponde che tutti i cittadini lo affermano, ma poi non trovano il coraggio di farlo. In seguito, quando Norma passa del tempo a Buenos Aires trova noiosa la metropoli e patetico il suo piagnucoloso partner che fallisce nel tentativo di ricattarla emotivamente, ponendosi d'ostacolo al suo essere anticonvenzionalmente libera.

Le sezioni del film - una storia nella storia - che si svolgono all'Alpa Corral sono quelle che più lo affrancano dalle consuete dinamiche heist/crime e più richiamano, nei tempi dilatati, nell'andare fuori tema, la nouvelle vague. Entrambi i protagonisti maschili, in modalità differenti, vivono, e sono trasformati, dall'esperienza di questo paradiso incontaminato, l'uno però tornerà mestamente alla sicurezza della vita passata mentre l'altro cercherà fino all'ultimo (letteralmente) di sradicarsi dalla sua esistenza precedente.

Non conosco gli attori (ho delle lacune sul cinema argentino) però l'impressione, data la naturalezza delle interpretazioni, è che si tratti quasi di recitazioni in orbita neorealismo. Tutti davvero convincenti, di qualcuno ho già accennato, tuttavia meritano una menzione anche Esteban Bigliardi (il collega Romàn) e Germàn De Silva, che se si affina la vista lo si riconosce in due ruoli, in entrambi i casi, emblematicamente, come "capo" di Moràn: prima in banca, e poi in prigione.

Essendo questo un blog ad ampia vocazione musicale non posso concludere senza citare la Pappo's Blues, band argentina realmente esistita il cui ellepì d'esordio (1971) fa da filo rosso, passando di mano in mano, alle varie fasi della narrazione e la cui musica (blues con testi sociali) sottolinea più di una scena della pellicola, fino ai titoli di coda.

I delinquenti è una visione che richiede impegno, ma restituisce un'epifania per gli occhi, il cervello e l'anima. 


Mubi


giovedì 18 settembre 2025

Due parole sul nuovo corso di Dexter



Dexter debutta come serial nel 2006, ispirato ad un personaggio letterario creato da Jeff Lindsay e, in un'altra era, agli albori della centralità mediatica che acquisiranno le serie tv, si guadagna una notevole attenzione, al pari ad esempio di titoli come Lost o The Shield
Ne ho scritto molto sul blog, credo tendenzialmente di aver coperto tutte le annate (c'è il tag specifico), quindi non mi dilungo sugli alti e bassi di otto stagioni (l'ultima nel 2013) di un titolo che, almeno nelle intenzioni iniziali, era ricco anche di sottotesti in relazione a chi siamo e ai compromessi che facciamo per farci accettare dentro le convenzioni sociali. Gli autori, come spesso accade con i franchise di successo, al termine dell'ultimo episodio dell'ultima stagione che avrebbe dovuto determinare la fine del personaggio,  si lasciano comunque la porta aperta per ogni eventualità di "recupero".
Al contrario Michael C. Hall, l'attore che dà forma a Dexter, decide di volersi affrancare dal character, onde evitare di essere a lui esclusivamente associato (peraltro Hall aveva già girato cinque stagioni di un'altra bella serie, Six feet under)
Pertanto Michael prova a rilanciarsi nel cinema, con risultati dimenticabili (forse le interpretazioni migliori nella collaborazione con il regista Jim Mickle - Cold in July e All'ombra della luna, che peraltro ho recentemente rivisto - ), e nel teatro, si ammala gravemente, guarisce, ed infine, beh, si consegna allo show biz cominciando a pensare al mutuo e ai figli. 

Così, nel 2022 il serial killer dei serial killer torna, con Dexter: New blood, in cui lo troviamo nello stato di New York, in una piccola e nevosa cittadina rurale, a vivere mantenendo un basso profilo, inserito nella locale comunità. Ovviamente il camuffamento non durerà. La conclusione della serie stavolta dovrebbe porre fine definitivamente al personaggio, e invece no, perchè arriva Dexter: Resurrection (in mezzo Original sin, un prequel con le origini del character, cancellato dopo la prima stagione), e se New blood chiedeva tanto allo spettatore in termini di sospensione dell'incredulità (che nell'epoca moderna ci si possa nascondere e cambiare nome come se fossimo negli anni trenta del secolo scorso non sta proprio in piedi), in Resurrection (già rinnovata per una nuova stagione) entriamo proprio nel campo dell'inverosimile eletto a regola, cioè del tipo che proprio non torna un cazzo ma chi se ne fotte. 
Alla fine ce ne fottiamo anche noi, continuiamo a guardarlo perchè è un rito di famiglia e accantoniamo ogni velleità di analisi e verosimiglianza, lasciandoci divertire (2,5/5) da un intrattenimento crime che è assunto a mito televisivo, e come tale attira nel progetto nomi interessanti, quali Uma Thurman, Krysten Ritter, Peter Dinklage e Eric Stonestreet, senza trascurare un cameo di John Lightgow, indimenticabile villain della quarta stagione originale.




lunedì 15 settembre 2025

Recensioni capate: Samantha Fish, Paper doll

Originaria di Kansas City, classe 1989, Samantha Fish è una delle realtà blues più interessanti e stimolanti di un panorama musicale storicamente monopolizzato dal genere maschile (al netto di qualche storica, significativa eccezione), ma che di recente, come tutto l'universo rock, sta cambiando. 
La Fish viene notata nel 2009 dopo l'auto-pubblicazione di un album dal vivo (Live bait) nel quale proponeva standards e pezzi inediti. Da allora pubblica una decina di dischi a proprio nome, più qualcuno in comproprietà con altre blueswomen. 
Paper doll esce quest'anno e ci propone una musicista completa, sia dal punto di vista dello strumento che da quello vocale nonchè in relazione alla qualità delle composizioni. 
Nove tracce (esiste anche un'edizione a dieci con la cover di Neil Young Don't let it bring you down) per una quarantina di minuti di blues e rock-blues eccelso, che accende la miccia con la pirotecnica, orgogliosa I'm done runnin' e che mantiene la tensione con il rhythm 'n blues Can ya handle the heat? e Lose you, prima sciogliersi nella ballata Sweet southern sounds la quale, come suggerisce il titolo, si sposta in ambito southern rock. 
Le dinamiche nelle singole canzoni aggiungono un elemento di valore ad un album tosto e piacevolissimo, che dimostra come Samantha sia oggi un'artista matura, che riesce a coniugare una notevole presenza scenica ad una capacità artistica e produttiva non scontata. Insomma,  oggi si rischia di essere fraintesi ma una  volta si diceva senza problemi bella e brava.