lunedì 25 marzo 2019

Tyla's Dogs D'amour, In vino veritas

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Non è che il mondo si fermi e suonino le fanfare quando esce un nuovo disco dei Dogs D'amour, però questi debosciati riescono sempre a catturare l'attenzione di un manipolo di nostalgici dotati di pazienza da monaco tibetano, che non si scoraggiano quindi a dover attendere lustri su lustri per ascoltare materiale nuovo.
E di pazienza qui ce n'è voluta davvero tanta, se l'ultimo full lenght della band è datato 2005 (Let sleeping dogs...) e l'unico cenno di vita in questo orizzonte temporale è stato contrassegnato dal pur ottimo EP Cyber recordings del 2013.
E' da tempo ormai che il gruppo, inteso in senso letterale, non c'è più, con il solo il buon Tyla (al secolo Timothy Taylor) a tirare la baracca.
Perciò, per la release di In vino veritas il frontman deve aver deciso di rendere ancora più evidente la cosa, abbinando il proprio nome allo storico monicker.
Cambia poco: prima di abbandonarsi agli epici midtempos che hanno fatto la fortuna dei DDA, l'album parte con "111" una traccia che è una frustata da cattedra universitaria dello sleaze-metal.
Poi ci si assesta nella confort zone di Tyla, con una serie di pezzi che non si vergognano (per fortuna!) di rallentare il ritmo, flirtare con il pop (Empire; Everything to me) o di abusare magnificamente del contributo del sax (Black confetti; Bottle of red; In vino veritas), per poi tornare al blues (Fuck off devil; Monster) e quindi chiudere il cerchio tornando al glam (Chicago Typewrter; Movie star).
Insomma, una festa per quei pochi che hanno amato i Dogs D'amour e, a quanto pare, niente di che per tutto il resto del mondo.

Perchè è dannatamente vera la massima che cantava il buon Hank 3: "Not everybody's likes us, but we drive some folks wild".

P.S. La release è stata accompagnata da un album di cover a tiratura limitata intitolato In musica veritas.

lunedì 18 marzo 2019

Rival Sons, Feral roots

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Rival Sons...Rival Sons... 
Quante volte gli amici blogger Ale e Filippo mi hanno decantato le lodi di questa band...
Ma io niente! Qualche ascolto distratto e controvoglia, che aveva la stessa possibilità di accendere una scintilla di quella che si otterrebbe sfregando due legnetti sotto il diluvio.
Questa volta invece, chi lo sa, forse era semplicemente arrivato il momento. 
Fatto sta che appena licenziato Feral roots (si parla di fine gennaio) l'ho messo sotto e ancora oggi resta tra i miei ascolti top.
La band californiana (Long Beach) si inserisce indubbiamente nel filone retro rock che tanto ci piace e che tanto ci fa storcere il naso, ma lo fa con una consapevolezza dei propri mezzi ed una cassetta degli attrezzi (sound + songwriting) per i quali ogni polemica sta a zero.
E' vero, come molti hanno fatto notare, che Feral roots parte a razzo con un pezzo ruffiano ed irresistibile (Do your worst), ma è altrettanto vero che il bello arriva scorrendo la tracklist, con l'apice massimo che a mio modestissimo parere ti si schianta contro nella tripletta delineata dalle traccie numero quattro, Look away, cinque, Feral roots, e sei, Too bad.
Dentro il mood sfrontato e arrogante dei RS ci sento tanto rock del passato, magari non necessariamente nei pattern copia carbone, ma sicuramente a livello dell'impatto emotivo di gruppi quali Rolling Stones, Led Zeppelin, Black Crowes, Bad Company, ma anche Black Keys di El Camino (Sugar on the bone è in questo senso inequivocabile).

Uno dei dischi del 2019? 
Pur essendo solo a Marzo, io azzardo un sì convinto.

lunedì 11 marzo 2019

Under the skin (2013)

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Qualche anno fa leggevo Sotto la pelle, un romanzo anomalo e inquietante di Michel Faber. Tempo dopo la stessa amica che mi aveva fatto dono del libro pensa bene di raddoppiare, e regalarmi anche il dvd dell'adattamento cinematografico.

Il film, diretto e co-sceneggiato da Jonathan Glazer (regista che si afferma con i videoclip: Massive Attack; Blur; Radiohead tra gli altri), ha una lunghissima gestazione che inizia subito dopo le riprese di quel gioiellino che risponde al titolo di Sexy Beast - L'ultimo colpo della bestia del 2000, ha potuto contare su un buon budget (13 milioni di dollari) ma è stato un colossale flop al botteghino. La ragione è presto detta, Under the skin è un film ancora più ostico del libro, che già lasciava al lettore diverse chiavi di lettura, ma che almeno spiegava cosa c'era dietro l'operato di questa ragazza misteriosa che andava alla ricerca di persone sole da far salire sul suo furgone.
Glazer invece azzera ogni tipo di spiegazione, eliminando quasi totalmente trama e dialoghi e giocando la sua rappresentazione sui silenzi, sulle espressioni, sulla suggestione malinconica dei paesaggi urbani o periferici di Glasgow, su una fotografia opaca, fredda e inospitale. A questo scopo è efficace l'idea di girare alcuni dialoghi con le persone agganciate dalla ragazza (Scarlett Johansson) attraverso una camera nascosta, quindi a loro insaputa.
Ne deriva che la pellicola è tutt'altro che agevole da vedere, se non si è letto il libro da cui è tratta è veramente complicato venirne a capo con una sola visione. 

Tuttavia ritengo di poter affermare che Under the skin sia un film riuscito, magnetico ed affascinante, che parla della natura umana attraverso le esperienze di chi umano non è ma che, a un certo punto, vorrebbe disperatamente esserlo, forse per far parte di qualcosa, invece che essere isolato in un mondo straniero.
La protagonista (che nel film non ha nome, ma nel libro si chiamava Isserly), da fredda cacciatrice si trasforma in qualcosa di diverso, comincia a voler comprendere l'animo umano, le sue dinamiche personali e collettive, fino ad un finale (diversissimo dal romanzo), nel quale affronta le conseguenze tragiche della sua volontà di evolversi.
Dal punto di vista visivo, il film, oltre alle caratteristiche di cui ho indicativamente parlato, è davvero audace, tutte le sequenze che mostrano il destino delle persone catturate sono atrocemente oniriche, con lo schermo invaso da un nero opprimente, e restano impresse nella memoria in maniera indelebile, così come l'incipit viceversa virato al bianco, ma non per questo meno inquietante.

Un film troppo presto dimenticato, che a mio avviso ha tutte le carte in regola per essere ampiamente rivalutato nel corso degli anni.

lunedì 4 marzo 2019

Cody Jinks, Lifers (2018)

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E al decimo anno di carriera discografica Cody Jinks sfornò il capolavoro.
Il settimo disco del texano è un lussuoso compendio di musica americana, con l'aggiunta di uno scatto in avanti in tema di lyrics, aspetto che non è mai stato sottovalutato da Jinks, ma che qui trova davvero il suo apice, collocando l'artista a fianco dei migliori del suo tempo (Sturgill Simpson e Chris Stapleton i primi che mi vengono in mente), ma con molto meno attitudine snob, se capite cosa intendo.
L'album parte forte, e non si ferma più. Holy water è un pezzo rock arioso, entusiasmante nel suo incedere gioioso con protagonisti i soliti splendidi losers senza speranza in cerca di redenzione. Ma siamo solo all'inizio, perchè con Must be the whiskey Cody piazza un'altro pezzaccio che già è entrato nel ristretto lotto dei preferiti dei fans del countryman (i classici Mamma song; Cast no stones; David), un brano che sul refrain chiama spontaneamente il singalong come solo le grandi canzoni sanno fare. 
Anche tutti quelli che aspettano l'artista country alla prova della love song non possono che essere soddisfatti, dal risultato che Cody mette a disposizione nella tracklist: Somewhere between I love you and I'm leavin' possiede infatti le stimmate della perfetta canzone d'amore redneck, con quel lirismo che riesce ad essere al tempo stesso altamente poetico ed arrivare immediatamente al cuore.
Ma siccome Jinks è anche un performer collaudato da anni di concerti (anche) nei locali più malfamati dell'intera bible belt, sa quando arriva il momento di fare baldoria e lo dimostra piazzando nella raccolta due sconquassanti pezzi honky tonk (Big last name e Can't quit enough) che farebbero ballare anche uno scaldabagno, alternati ad un'accorata traccia folk quale è la title track e un paio di cowboy songs che rispondono al nome di Desert wind e Colorado.

Lifers è dunque un disco bellissimo e imprescindibile, che mi ha imposto di utilizzare una pratica, quella della recensione track by track, che non amo molto, alla quale però, dato il livello delle composizioni, ho dovuto cedere.
Il musicista texano, alla soglia dei quarant'anni e dopo una traiettoria artistica invidiabile, riesce a superare in maniera tutt'altro che scontata l'ottimo precedente lavoro I'm not the devil, lanciandosi nell'olimpo dei rappresentanti del true country e dell'americana a tutto tondo.