lunedì 28 febbraio 2011

Photobook / 2

Dopo l'acclamato esordio, le nuove opere di Stefano.




Secondo tentativo di autoritratto


Serve una mano?





A view from the backseat


My favorite cartoon



Che inizi la battaglia!













sabato 26 febbraio 2011

Album o' the week / Sergio Caputo, Cocktail (1998)



Ecco un'altra mia passione giovanile che ciclicamente torna. Le raccolte di successi vanno bene per celebrarla, anche se è nei pezzi meno noti dei singoli album che si scava meglio nella visionaria poetica di Sergio, anche perchè i greatest hits che lo riguardano racchiudono immancabilmente il periodo CGD-Warner (1983/1989), che sicuramente con hit quali Sabato Italiano, L'astronave,Il Garibaldi innamorato,Italiani mambo è quello di maggior successo commerciale.Occhio però, perchè anche la produzione successiva, penso a dischi come Egomusicocefalo del 1993, è meritoria di attenzione.
Certo che nell'immaginario collettivo il cantante romano è quello dello swing, del jazz, della rumba, delle atmosfere fumose da night club americani. Tutto questo si trova nella raccolta di oggi, ma sarebbe criminale fermarsi qui.

giovedì 24 febbraio 2011

La figlia del minatore


Nel novero delle arzille vecchiette (termine utilizzato dall'amico Filo per il post su Wanda Jackson e Mavis Staples) andrebbe aggiunta a pieno titolo anche la signora Loretta Lynn from Kentucky, classe 1935 (come la mia mamma!).
Country singer classica, specializzata in duetti e con una discografia mostruosamente lunga che vanta tra l'altro diversi singoli al numeri uno, la Lynn ha fortemente ispirato anche il cinema (ritagliati sulla sua figura La ragazza di Nashville - in originale proprio Coal's miner daughter - , premiato con l'Oscar e Nashville di Altman, anch'esso pluripremiato dall'Academy).
Van Lear Rose, l'album del 2004 che ha segnato il suo ritorno in sala d'incisione è stato prodotto da Jack White.
Questo per dire dello spessore dell'artista nella tradizione musicale USA.

A fine 2010 è uscito un tributo a lei dedicato, con un ottimo cast tutto orientato, a parte qualche significativa eccezione, al country-folk.
E' l'honky-tonk, mood prevalente nello stile dell'artista, ad aprire festosamente la raccolta, con le interpreti country Gretchen Wilson e Lee Ann Womack a proporre i classici Don't come home a drinkin' e I'm a honky-tonk girl.
I White Stripes (ecco una delle eccezioni a cui alludevo) grattano sull'acustica per un'espressiva e coinvolgente Rated X.
Dopo un lotto di artisti mainstream country (Carrie Underwood sull'orgogliosa You're lookin' at country, Alan Jackson & Martina McBride sulla hit Lousiana woman, Mississippi man e Faith Hill a gorgheggiare sulla ballata Love is the foundation) ecco un'altra deviazione rispetto al canone istituzionale: i Paramore che si calano lo Stetson in testa e, acustica in spalla, intonano una convincente, anche se un pò scolastica, You ain't a woman enough (To take my man).
I coniugi Earle (Steve e Allison Moorer) si misurano efficacemente con After the fire is gone, mentre con I know how prezzemolino Kid Rock sterza, non so quanto opportunamente, sul rock'n'soul radiofonico. Lucinda Williams è languidamente ruvida, come solo lei sa essere, sulla struggente Somebody Somewhere.
L'autobiografica Coal's miner daughter chiude l'album. Ad interpretarla la stessa Loretta Lynn, accompagnata dalla brava (e bella) Miranda Lambert e Sheryl Crow.

Coal's miner daughter, a tribute to Loretta Lynn è un'ottima occasione per fare la conoscenza di un'icona della musica americana e delle star che qui la festeggiano (a conti fatti stupisce molto l'assenza di Taylor Swift). L'album è sicuramente consigliato a quanti non hanno problemi ad ascoltare, anche solo occasionalmente, il country nella sua traduzione più commerciale e amata dal pubblico USA.

mercoledì 23 febbraio 2011

Strategie vincenti

M'informano e (più o meno) prontamente pubblico:


Telecom, che stretta al p2p: stop software 'mangia-banda'

TELECOM Italia comincerà a rallentare, per i propri clienti Adsl, i servizi che consumano più banda, come il peer to peer (file sharing): l'ha annunciato nei giorni scorsi 1. Dal primo marzo metterà questa novità nero su bianco, aggiornando le condizioni contrattuali. Non è certo il primo operatore a compiere questo passo in Italia. Ma è comunque una cosa notevole, dato che si tratta dell'operatore maggiore e del proprietario della rete nazionale italiana. Sembra quindi che la vita degli appassionati di peer to peer sia destinata a diventare più difficile, a breve. Telecom annuncia infatti che "potrà limitare la velocità di connessione ad Internet, intervenendo sulle applicazioni che determinano un maggior consumo di banda (peer to peer, file sharing ecc.)". Il motivo dichiarato è "garantire l'integrità della rete e il diritto da parte della generalità degli utenti di accedere ai servizi di connettività a internet anche nelle fasce orarie in cui il traffico dati è particolarmente elevato". Ricordiamo che su circuiti peer to peer si trovano spesso musica, film e software pirata, ma non solo: anche opere e contenuti leciti.


qui l'articolo di Repubblica per esteso

martedì 22 febbraio 2011

Catalogami questo!

Chi mi legge avrà ormai capito che quando devo indicare le coordinate musicali di una band, generalmente le taglio con l'accetta del rock-pop-heavy-blues-jazz-punk-soul-country-folk.

In molti, più preparati di me, sono invece aggiornatissimi su ogni sottogenere di questi stili, e sì che se ne contano davvero a bizzeffe. E allora un pò per colmare il mio senso di inadeguatezza e un pò come riempitivo del blog nelle fasi di blocco dello scrittore, ho deciso di descrivere i vari sottogeneri compilando un piccolo dizionario a puntate.
Niente di orginale, si capisce. Procedo in rigoroso copia/incolla, citando le fonti (spesso wiki) e linkandole.

Comincio con un genere tutto sommato piuttosto noto, il garage rock:


Il garage rock è una forma di rock & roll più grezza, nata negli Stati Uniti verso la prima metà degli anni sessanta come evoluzione della musica americana degli anni cinquanta, sotto l'influenza di artisti come i Wailers di Tacoma, che avevano destrutturato ed estremizzato il rhythm & blues.

Un errore molto frequente è quello di identificare la nascita del Garage Rock americano come conseguenza della British Invasion. Già nel 1963, un anno prima che i Beatles approdassero a New York, gruppi come i The Kingsmen e i The Trashmen avevano pubblicato singoli come Louie Louie e Surfin Bird. Il Garage rock è caratterizzato da una rivisitazione in chiave nichilistica del rhythm and blues, con suoni spesso ai limiti della distorsione e forme di cantato che anticipano il punk rock. I Wailers di Tacoma, Link Wray e lo stesso Bob Dylan si possono considerare fra i padrini del movimento. La Etiquette di Tacoma potrebbe definirsi la distorsione della Stax Records.

Tra le principali band del genere ricordiamo: Seeds, Count Five, The Sonics, 13th Floor Elevators, The Chocolate Watchband, Standells, The Remains, ? & The Misterians, Electric Prunes, Blues Magoos, Shadows of Knight, Litter, Moving Sidewalks e Flaming Groovies. Da notare come molte delle scene locali finiranno per divenire sinonimo di uno stile ben preciso: la California e il Texas (ognuna con soluzioni stilistiche ben diverse) saranno più psichedeliche, Boston più morbida e raffinata, Seattle più aggressiva e sporca, Detroit poi farà genere a sé grazie a The Stooges e MC5 e al loro essere diversi da qualsiasi cosa in circolazione. La scena troverà una sua pubblica ribalta solo in maniera postuma, con la pubblicazione nei primi anni settanta dell'antologia Nuggets (curata da Lenny Kaye, futuro chitarrista di Patti Smith), che solleverà finalmente l'interesse verso questi gruppi fino ad allora sottovalutati.


Durante i primi anni settanta assistiamo quindi alla nascita del proto-punk, ovvero quel filone di gruppi di ispirazione garage che precedettero l'ondata punk rock dei metà anni settanta, come i già citati The Stooges, Patti Smith, MC5 o New York Dolls, che diedero alla luce i primi accenni di punk rock proprio sulle basi del garage. Il punk rock infatti sarà considerato un genere direttamente discendente dal garage rock per le sue caratteristiche generalmente più grezze e distorte rispetto al rock & roll più tradizionale(...).


lunedì 21 febbraio 2011

Eternal flame


La metamorfosi è completa, i Black Crowes hanno assunto il ruolo che in fondo era previsto per loro fin dall'inizio dalle sacre scritture del rock. Quello di band classica fuori dal tempo, alla Grateful Dead, alla Little Feat o alla Allman Brothers per intenderci. Formazioni che (lutti permettendo, o nonostante essi) vivono on the road, non hanno più bisogno di incidere materiale nuovo e portano in giro le radici della musica americana mischiando le sue influenze più nobili.


E' a questa conclusione che arrivo ascoltando Croweology, antologia dei classici dei Corvi Neri suonati ex-novo e unplugged (non inganni il termine, gli strumenti ci sono tutti) in occasione del ventennale del combo dei fratelli Robinson, caduto nel 2010 (Shake your money maker era del 1990).


Sono il boogie più tradizionale, il blues e gospel (ascoltate la straripante Morning song), già presenti nella cifra stilistica della band, ma qui enfatizzati al massimo splendore, a sciogliere il vecchio cuore di un dinosauro che perde più di un colpo davanti a queste versioni, ai sensuali cori femminili, all'incessante lavoro del pianoforte, all'armonica, alla voce di Chris (forse meno potente ma mooolto più calda), al mood complessivo dell'album.

Per rafforzare la mia teoria iniziale chioso dicendo che Croweology succede a Before the frost...Until the freeze, doppio album registrato in presa diretta dal gruppo durante un autoesilio in un'enorme casa (ricordate l'esordio di The Band?) e che tra le bonus tracks della raccolta troviamo Willin' dei Little Feat.

Il cerchio è chiuso.






sabato 19 febbraio 2011

MFT, febbraio 2011


Album

Hayes Carll, Kmag Yoyo
The Decemberist, The king is dead
Cheap Wine, Stay alive!
Social Distortion, Hard times and nursery rhymes
Ministri, Fuori
The Bellrays, Black lightning
Mavis Staples, You are not alone

The Mahones, Irish punk collection
Coal miner's daughter, a
tribute to Loretta Lynn


Visioni

Sons on Anarchy, season 1



giovedì 17 febbraio 2011

I migliori della vita, 11


Prince, Sign o' the times (1987)


Qualunque artista darebbe un braccio per attraversare un periodo d'ispirazione artistica analogo a quello che ha accompagnato Prince negli anni ottanta, gli basterebbe incidere anche uno solo di quei dischi per avere la garanzia di una rendita vitalizia.
A partire da Dirty mind (1980) infatti, durante quella decade sono usciti otto album (di cui due doppi), contraddistinti da una media qualitativa spaventosa. Parliamo di roba come 1999, Purple rain, Around the world in a day, Parade. E Sign o' the times.

Ecco, Sign o' the times (LP doppio) potrebbe essere per la musica nera ciò che London Calling fu per quella bianca. Un'inarrestabile consuntivo di tutte le influenze del Principe (Jimi Hendrix, George Clinton, James Brown, il free jazz, la ballata hard rock, il pop) espresse ciascuna al suo massimo potenziale.

Sulla sola title track ci sarebbe da scrivere per giorni. Spettrale, sostenuta da una ritmica essenziale di basso-batteria, con il testo che emerge come schiuma di rifiuti industriali dalle onde del mare: "In France a skinny man died of a big disease with a little name...". Un trip incredibile, che si presta ad essere ascoltato in loop visto l'effetto circolare che crea.

La prima facciata vira poi sul funk con le scatenate Play in the sunshine e Hearthquake. Sulla seconda spiccano l'erotismo di Slow love, la ballata postfolk di Starfish and coffee e il sentimento di Forever in my life.

Sulla terza si fa festa, su quattro canzoni, tre dei cinque singoli estratti complessivamente dall'album sono piazzati qui, e il quarto non è da meno. Sfilano in sequenza U got the look, If i was your girlfriend, I could never take the place of your man. In mezzo il midtempo Strange relationship.

L'ultima side è quella più sperimentale. Apre The cross, ballata rock in crescendo, segue l'entusiasmante improvvisazione live, tra funk e jazz,di It's gonna be a beautiful night, chiude Adore.

Ascoltato oggi Sign o' the times (io l'ho appena riacquistato in cd) conserva intatto il suo splendore. Non risulta datato o too much eighties. La produzione, i suoni, gli arrangiamenti creano un tale effetto a-temporale che potrebbero essere stati incisi in qualunque momento, dai settanta ad oggi. Le liriche sono sempre "sul pezzo" tra passione, denuncia sociale e divertimento. Il falsetto di Prince è semplicemente sublime.

Evergreen è poco. Everblack mi sembra più consono.

mercoledì 16 febbraio 2011

Sono stanco

I'm so tired, I haven't slept a wink
I'm so tired, my mind is on the blink
I wonder should I get up and fix myself a drink
No,no,no.

I'm so tired I don't know what to do
I'm so tired my mind is set on you
I wonder should I call you but I know what you would do

You'd say I'm putting you on
But it's no joke, it's doing me harm
You know I can't sleep, I can't stop my brain
You know it's three weeks, I'm going insane
You know I'd give you everything I've got
for a little peace of mind

I'm so tired, I'm feeling so upset
Although I'm so tired I'll have another cigarette
And curse Sir Walter Raleigh
He was such a stupid get.

You'd say I'm putting you on
But it's no joke, it's doing me harm
You know I can't sleep, I can't stop my brain
You know it's three weeks, I'm going insane
You know I'd give you everything I've got
for a little peace of mind
I'd give you everything I've got for a little peace of mind
I'd give you everything I've got for a little peace of mind

martedì 15 febbraio 2011

Armored


Nella programmazione televisiva di Sky s'incappa a volte in produzioni USA anomale, costruite intorno a cast prestigiosi, dai titoli mai sentiti prima.

E' il caso di Armored (in italiano Blindato), film del 2009 che vede recitare insieme Matt Dillon, Laurence Fishburne e Jean Reno, oltre ai meno noti, ma già visti in giro: Amaury Nolasco (Prison Break), Skeet Ulrich (Qualcosa è cambiato) e Columbus Short (The losers).

Spunto interessante ( la routine quotidiana di un gruppo di guardie giurate che fanno servizi di scorta ai furgoni blindati attratti dal colpo della vita) ma voglia di lavorare, da parte di sceneggiatori, regia e attori pari a zero. Mastrota che fa la pubblicità ai materassi sarebbe più convincente di questo gruppo di debosciati.

Il perchè gente come Dillon e Fishburne si presti a codeste ciofeche fa parte dei misteri cosmici della vita.

lunedì 14 febbraio 2011

Di liquidità, non d'acqua


L'avevamo lasciato che propagandava il suo movimento politico per la vita da "bible belt" americana. Neanche il tempo di chiedersi se la sua fosse una lista civetta o un partito (almeno nelle intenzioni) serio che il responso delle urne l'ha asfaltato.

Poi, conduzione de Il Foglio a parte, un periodo di esilio dai media più popolari.

Lo ritroviamo che fa quello che da una ventina d'anni a questa parte gli riesce meglio. Quello per cui viene profumatamente retribuito. La difesa d'ufficio al cavaliere.


Sabato a Milano, davanti ad una platea di fini intellettuali, che annoverava in prima fila il ministro La Russa e il sottosegretario Daniela "Berlusconi è uno che le donne le vuole solo in posizione orizzontale" Santanchè, il nostro Giulianone ha messo da parte tutta l'arguzia e la capacità d'analisi politica di cui è capace (quando vuole), coniando slogan ("in mutande ma vivi; oggi a lui domani a noi; io Santoro l'avrei già licenziato") buoni per il raffinato parterre che affollava il teatro. Chissà che invidia avrà provato Fede, quella roba lì sarebbe venuta benissimo anche a lui.

E dire che nei rari momenti di lucidità nei quali si ricorda di essere uno dei migliori giornalisti italiani (Otto e mezzo su La7, l'idea de Il Foglio) Ferrara è davvero bravo.

Peccato ci sia quel dannato mutuo da pagare...


domenica 13 febbraio 2011

Back in brown


E così anche l'orso Yoghi ha avuto l'onore (?) di un film tutto suo nel quale appare non in cartoon ma con la tecnica di animation movie già vista per Scooby-Doo e Garfield. Il cast è di livello decisamente minore, le star sono tutte concentrate nel doppiaggio. Il film in lingua originale si avvale infatti di Dan Aykroyd e Justin Timberlake quali "controfigure" vocali rispettivamente di Yoghi e Bubu.
Non ci crederete ma nella colonna sonora figura, oltre all'immancabile hair-metal nelle scene d'azione (a questo giro si resuscitano i Poison), anche Michael Franti con The sound of sunshine.

venerdì 11 febbraio 2011

Drifting from the rural route


I Legendary Shack Shakers sono un gruppo americano (from Paducah, Kentucky) dedito ad una malsana contaminazione tra i peggiori (affettuosamente inteso) generi del sud degli states. Nati come formazione rockabilly hanno in seguito abbracciato un po’ tutti i generi tipicamente rurali: dal country, al blues, all’hillbilly,al blugrass. Ognuno di essi regolarmente violentato da una costante ferocia esecutiva. Per quelli a cui piacciono le etichette, la loro è chiamata cowpunk.
Noti per gli show adrenalinici, annoverano tra i loro fans gente come Robert Plant e Jello Biafra (Dead Kennedys, per chi provenisse da marte).

Con AgriDustrial arrivano,inossidabili, al sesto album aumentando, se possibile, i numeri di giri della loro incredibile centrifuga.
Dopo un breve prologo(Melungeon Melody) si parte con una veloce armonica blues che sta dietro ad un ritmo rockabilly, è Sin Eater.

La successiva Sugar Baby si avventura sul terreno del blugrass, mentre il combat folk anima la anthemica Dixie Iron Fist, e Two Tickets To Hell è la ballata spettrale in odore di Shane Mac Gowan. Si affaccia qua e la anche lo yodel, o in qualche caso (Greasy Creek) sarebbe più opportuno coniare il termine di heavy-yodel.

Le ritmiche sono ossessive, l’approccio quello di un Johnny Rotten ventenne e sfrontato. Non esistono perimetri o steccati per la musica dei Legendary. Capita perciò che Hammer and Tongs possa sembrare un pezzo dei Primus con alla voce Nick Cave mentre i semi rumoristi di Tom Waits siano piantati un po’ per tutto l’orto del combo (Hog-Hayed Man; The Hills of Hell; la conclusiva Killswitch).

Laddove in molti finiscono, i Legendary Shack Shakers iniziano a scaldarsi. Dovendo coniare uno slogan che spieghi la band, opterei per questo.

mercoledì 9 febbraio 2011

I fought the law (and the law won) 2/2


Il contesto.


C'è stata indulgenza nel caratterizzare il Vallanzasca del film di Placido? A mio avviso sì. In parte per scelta artistica, per l'ergonomia del racconto. In parte forse, smussare alcuni angoli (quelli più brutali) può essere stato un calcolo traguardato ad ottenere l'empatia del pubblico nei riguardi di questa controversa figura.

Se è vero che alcuni passaggi sono infatti riportati esattamente così come sono stati raccontati dalle cronache o dalle testimonianze dello stesso Renato e dei suoi complici, cito ad esempio le dinamiche della fuga dal traghetto - di cui Vallanzasca parla durante quella latitanza
nell'intervista a radiopop - , il pianto a dirotto per aver investito un complice durante una fuga - confermata da Rossano Cochis, Moritz Bleibtreu/Sergio del film - , molti atti di insoburdinazione alle autorità carcerarie raccontate in prima persona in diverse interviste nonchè nell'autobio Il fiore del male, è altrettanto vero che alcuni episodi meno "edificanti" sono stati ignorati o edulcorati.

E' il caso della mattanza che si è compiuta nel carcere di Novara nel 1981 e dell'esecuzione dell' (ex) amico fraterno Massimiliano Loi (Enzo nel film).
Ecco, questo personaggio non ha beneficiato da parte degli autori della stessa benevolenza riservata al suo capo. Enzino viene infatti dipinto come un tossico inaffidabile, debole, debosciato e alla fine anche infame. In qualche modo, nell'ambito delle regole della malavita, se ne "giustifica" l'omicidio in carcere. La cronaca ci dice invece che quando il vero Loi è stato ucciso non era nemmeno ventenne. Che data la sua giovane età voleva rifarsi una vita, uscire dal giro. Che aveva iniziato a collaborare ma che non era provata la vile aggressione a scopo di furto ai genitori del bel Renè.
Questo omicidio è probabilmente l'unico, tra quelli di cui si è accusato pubblicamente Vallanzasca, sul quale l'ergastolano ha cambiato più versioni. Quello che si sa è che Massimiliano Loi, durante la rivolta nel carcere di Novara fu seviziato, ucciso e decapitato. Dell'agghiacciante particolare che con la sua testa i suoi assassini ci abbiano giocato a calcio non c'è conferma. Vallanzasca si è più volte contraddetto in merito alla sua responsabilità in quella esecuzione. Sta di fatto che Placido nel film ricostruisce un'altra dinamica. Rossi Stuart si fa giustizia, ma con una parvenza di dignità, sono altri detenuti ad accanirsi poi sul personaggio interpretato da Timi.
Così come non vengono raccontati altri due tentativi di evasione (falliti) compiuti armi alla mano in diversi carceri, anche lo stratagemma usato per farsi ricoverare in ospedale è diverso dalla realtà (ingestione di chiodi invece che iniezioni perpetrate nel tempo di sangue e urina infetti), ma fa comunque parte di un raccapricciante rituale che i più disperati tra i carcerati mettevano in atto per lasciare le celle.

Anche la figura affascinate, quasi romantica, del boss Turatello lascia un pò interdetti, dato che a suo riguardo le cronache parlano di una persona d'azione, cinica e spietata con i nemici.

Il Renato Vallanzasca che Placido consegna nelle mani degli spettatori è un concentrato quasi "idealizzato" della personalità del bandito d'onore, ma tutto sommato non così distante da quello reale, che non sopportava l'autorità precostituita,
che ancora oggi afferma di essere "deontologicamente" a posto perchè, cito testuale, non ha mai tradito, non ha mai sparato alle spalle e non ha mai aperto il fuoco per primo e che sostiene che i poliziotti sono consapevoli di rischiare la morte perchè ricevono un indennità di rischio (frase questa recitata anche nel film dove per fortuna è bilanciata dalla reazione sbigottita di Antonella, la sua interlocutrice).

Vallanzasca (quello vero) non si riconosce nel personaggio di Kim Rossi Stuart, nonostante il film sia tratto dalla sua autobiografia, la collaborazione alla sceneggiatura della moglie Antonella e la veridicità di molti episodi narrati. La cosa un pò mi stupisce perchè sembra che anche lui non voglia mancare al coro di polemiche che l'opera ha generato.

Polemiche che sono a mio avviso (al netto delle reazioni dei parenti delle vittime che hanno ogni diritto di protestare) figlie di una disonestà intellettuale di fondo, di un'ipocrisia tutta nostrana, considerando come i media, da sempre, inzuppino il biscotto in tutti gli aspetti della vita di Vallanzasca e di come, ancora oggi, il bandito dagli occhi di ghiaccio faccia vendere copie.
Non si capisce nemmeno perchè tutta questa morale valga solo per l'opera Gli angeli del male, visto che, ad esempio,il prodotto Romanzo Criminale (libro, film e serial) nonostante la banda della Magliana sia stato un vero cancro per lo Stato e abbia lasciato alle sue spalle centinaia di morti, ha invece raccolto consensi unanimi di critica e pubblico, arrivando a livelli di popolarità tali che ai mercati rionali si vendono bene t-shirt e felpe con le frasi della saga o con i nomi del Libanese e del Dandi, il tutto senza che nessun politico si scomponga, mentre, quando si cita Renato Vallanzasca ogni volta casca il mondo.

Dove sta il problema? Forse nel fatto che quelli della magliana sono o morti o spariti dalla ribalta in quanto pentiti, mentre il bandito della comasina è ancora vivo e non ne vuole sapere di tacere?
Il male o la sua rappresentazione esercitano da sempre un fascino oscuro, forse perchè rappresentano una fuga da un realtà che per molti è fatta di convenzioni, affetti formali, noiosi tran tran, rate del mutuo da pagare.
Però, in fin dei conti, può essere sul serio apologetico o a rischio emulazione raccontare la storia di una persona che su sessant'anni di vita ne ha passati quaranta in carcere (tra l'altro è di ieri la notizia dell'ennesima negazione della semilibertà), con il corpo sconquassato dai rigori della detenzione e dalle botte, che porta nel fisico i segni di una dozzina di colpi di arma da fuoco, che non ha in pratica mai visto il suo unico figlio?
Perchè è questa, in ultima analisi la morale che ci consegna la storia del bandito Vallanzasca.

Ho letto Il fiore del male una decina di anni fa, completamente a digiuno dell'argomento, a parte qualche sfocato fotogramma visto al tiggì da bambino, e devo ammettere che la storia mi aveva coinvolto, in una certa misura affascinato. Ma uno degli elementi che mi sconvolse fu leggere della condizione dei detenuti nelle carceri italiane. Anche di questa realtà, sebbene marginalmente, si occupa il film di Michele Placido. Di una realtà drammatica che ha visto nel 2010 suicidarsi una sessantina di persone fra le mura delle celle.

Ma con questo argomento, sarà una coincidenza, non ha polemizzato nessuno.

martedì 8 febbraio 2011

Faith

Stefano fa i compiti in cucina. Io gli sto seduto a fianco per un pò. Quando vedo che ha preso bene il giro mi alzo per farlo lavorare in modo indipendente.
Gli dico: - Sono qui intorno se hai bisogno.-
Mi risponde: - Lo so che posso contare su di te.-

lunedì 7 febbraio 2011

I fought the law (and the law won) 1/2


Il film



Gli angeli del male comincia con una scena molto poco italiana (cit) per dinamicità, uso della macchina da presa ed efficacia. Renato Vallanzasca è rinchiuso nel carcere di Ariano Irpino, è rientrato dopo la doccia nella sua cella (siamo a metà anni ottanta ma sembra una segreta di un castello medievale) e, fatto oggetto di un piccolo-grande sopruso, reagisce colpendo la guardia carceraria ritenuta responsabile. Conscio delle conseguenze della sua azione, aspetta quasi in trance che esse si manifestino. E infatti da lì a poco una mezza dozzina di secondini entrano nella minuscola prigione per massacrarlo di botte. E' difficile immaginare una condizione in cui un essere umano sia più indifeso: nudo, rinchiuso in pochi metri quadrati, offre consapevolmente il suo corpo alle legnate di un'intera squadra di guardie. Perchè lo fa? Perchè non accetta le regole della prigione, fatte anche di umiliazioni e sopraffazioni, per la sua incolumità, il suo quieto vivere? Innescando questa domanda nel pubblico, Michele Placido gli offre immediatamente la chiave di lettura del personaggio.


Partendo da questo prologo, guidati da una voce fuori campo, parte un flashback sulla carriera del bel Renè, dall'infanzia a Milano con le prime, quasi romantiche, imprese (che comunque lo conducono al riformatorio), alle batterie di fuoco, la bella vita, le donne, i night-club e, inevitabilmente la reclusione, particolarmente dura perchè il milanese si assume l'intera responsabilità dei colpi effettuati da tutta la banda. A causa del suo carattere ribelle, che lo porta ad aggredire indifferentemente secondini e poliziotti, viene ripetutamente trasferito da un carcere d'Italia all'altro e sistematicamente sottoposto a violenti pestaggi. Si trova a Bari, legato su una branda con il corpo impietosamente tumefatto, quando Consuelo (la donna dalla quale aspetta un figlio) riesce a fargli visita.

E' con la fuga dall'ospedale, dove era riuscito a farsi trasferire dopo un atto di autolesionismo, e con la successiva latitanza, che inizia la fase leggendaria del bandito Vallanzasca. Con la costituzione della batteria che terrorizzerà Milano attraverso rapine, sparatorie e rapimenti. In questa fase si alimenta lo scontro con la mafia di stanza nel capoluogo lombardo, all'epoca gestita da Francis Turatello. Nel 1977 è di nuovo arrestato dopo essere fuggito da una sparatoria dove aveva lasciato a terra un complice e due poliziotti e dove aveva guadagnato una pallottola in un gluteo. In prigione nasce l'imprevedibile (visti i precedenti...) amicizia con Turatello. E' durante la detenzione nel carcere di Novara che si svolge la fase più agghiacciante della "carriera" del Renato: quella delle sentenze di morte per i pentiti, con l'amico d'infanzia Enzo in cima alla lista. La narrazione torna quindi al tempo reale, quello del pestaggio nella cella di Ariano Irpino e da lì prosegue, fino all'epilogo con la fuga dal traghetto che da Genova doveva portarlo all'Asinara.



Tutte le perplessità che avevo sulla scelta di Kim Rossi Stuart per interpretare il gangster della comasina sono svanite dopo pochi minuti di film. Il lavoro che l'attore romano ha fatto sui dettagli è strabiliante (e pensare che temevo l'effetto Celentano che parla romanesco in Er più) e per niente folkloristico. Molto bravi anche Paz Vega (Antonella), la Solarino (Consuelo) e Francesco Scianna (Turatello) anche se, ca va san dir, la palma del migliore in senso assoluto va a Filippo Timi per la sua interpretazione di Enzo, l'amico fraterno del Renato, che lo avvicina per metodo ad un certo Gian Maria Volontè.

Michele Placido, come già accennato in premessa, dirige con piglio di livello internazionale la storia, che infatti ha ricevuto molti plausi fuori dai confini italiani, dimostrando di essere un regista moderno e originale, capace di rendere sapientemente le scene d'azione (l'inseguimento alle auto di Turatello, la rapina al blindato, la rivolta in carcere) ma di toccare anche le corde più sensibili ed emotive degli spettatori (i colloqui in carcere con Consuelo, quelli al parlatoio e da latitante con Antonella, le riprese dall'alto nell'ora d'aria in isolamento, il finale con i genitori e il tempo che si ferma nella piazzola di sosta dell'autostrada).
Congrua, perchè non invasiva (io detesto i Negramaro), anche la colonna sonora.


Non ho accennato di proposito alle polemiche scatenate dal film già dal momento del suo annuncio. Alle contraddizioni, alla ricostruzione della storia,all'opportunità stessa di girare una pellicola così. Volevo affermare il principio che il film Vallanzasca - Gli angeli del male è un ottimo prodotto che il cinema italiano dovrebbe fieramente esportare all'estero. Su tutto il resto mi dilungherò (ahivoi) nella seconda parte della recensione.

domenica 6 febbraio 2011

Album o' the week / Francesco Guccini, Quello che non...(1990)

Album considerato minore nella discografia dell'artista emiliano, ma che, a livello personale, mi ha aperto le porte della percezione alle opere di Guccini.
A parte questo, un disco che contiene Canzone delle domande consuete, Quello che non... e Canzone per Anna farebbe la fortuna di qualunque altro cantante, altro che opera minore!

venerdì 4 febbraio 2011

Outta rock 'n' roll




Social Distortion
Hard Times and Nursery Rhymes
Epitaph, 2011



Mi risparmio il pippotto sul solco della tradizione del punk californiano e sul ritorno di una band (o di ciò che ne è rimasto) che al suo debutto si era imposta grazie un sound veloce e aggressivo, perchè tutte le chitarre distorte di questo mondo e la caratteristica voce abrasiva di Mike Ness non tolgono il fatto che questo è il primo album dei Social Distortion composto in larga parte da ballate. Ma non è mica un problema, intendiamoci. Anzi. Trovo la cifra stilistica dell'opera molto rispondente ai miei gusti, al punto che l'album è da tempo in altissima e continua rotazione nella playlist dei miei ascolti.

Quando parlo di ballate faccio riferimento principalmente a tutto il blocco centrale dell'album, a partire dalla traccia numero tre Gimme the sweet and lowdown, alla successiva Diamond in the rough (uno dei miei pezzi preferiti) fino a Bakersfield, passando per Machine gun blues. Anche Writing on the wall, che arriva più avanti è da ascrivere in questa categoria.

L'altro aspetto del disco è quello della prepotente virata verso un rock'n soul elettrico. Da qui i cori femminili, il pianoforte, l'onnipresente impronta boogie di fondo. Esemplare da questo punto di vista è la scintillante Can't take with you. Il giro di chitarra di Far side of nowhere rimanda invece,imprevedibilmente, ai REM di Out of time.

Spazio anche al country, grande passione di Ness e con esso a Hank Williams sr, l'interprete che Mike predilige. La canzone coverizzata è la struggente Alone and forsaken e, da fan della musica bianca del sud degli states quale sono, penso di poter dire che anche in questa versione elettrica la drammaticità del pezzo è preservata. Still alive (già sentita dal vivo nel 2009) è l'ultima tappa di questo viaggio. Classico pezzo da end titles, dotato di un refrain accattivante da cantare fino allo sfinimento.

Hard times and nursery rhymes riprende in sostanza l'ambito stilistico del precedente Sex, love and rock and roll (del 2004, unico disco della band nella prima decade degli anni zero) coniugando però quella predisposizione da rock da stadio con una più spiccata vena intimista che trova traduzione in testi (verosimilmente) a carattere autobiografico.


I Social Distortion che conoscevamo sono morti, viva i Social Distortion.







martedì 1 febbraio 2011

Sang a song for everyone



Superata la soglia dei settanta, l'incantevole lady che risponde al nome di Mavis Staples (avevo parlato brevemente di lei qui e qui) si è ritagliata una nuova carriera, grazie principalmente al suo enorme talento ma non di meno a gente come Ry Cooder, che gli ha prodotto nel 2007 lo splendido We'll never turn back e Jeff Tweedy che con questo You're not alone ha fatto, se possibile, di meglio.

I tredici pezzi che compongono l'album sono al solito profondamente intrisi di spiritualità, luce interiore e profonda religiosità. Ma anche d'orgoglio e di lotte. Lo stile musicale muove dal gospel per lambire un pò tutti gli orientamenti black del passato. Il risultato, beh, emoziona e commuove sin dalle prime note, con Don't knock e la titletrack a mettere a dura prova ogni patetica riluttanza alle lacrime.

Passata questa doppietta si tira il fiato giusto un attimo perchè a metà tracklist c'è I belong to the band che assesta un'altra mazzata emotiva mica da ridere. Con Only the Lord knows il registro vira su un protofunk essenziale, non così lontano dai seventies della blaxpotation.
A questo punto, proprio quando sono indifeso come un bambino che al cinema assiste all'omicidio della mamma di Bambi da parte dei cacciatori, parte una Wrote a song for everyone dei Creedence Clearwater Revival che mi annienta definitivamente. E mancano ancora tre canzoni alla fine dell'album. Vi dico solo questo, ascoltando il coro di voci gospel guidato dalla Staples dentro Wonderful savior sarete colpiti da un irrefrenabile impulso ad alzare il volume di una, due, tre tacche. Ancora e ancora.

Disco uscito da qualche mese ma, che ve lo dico affà, assolutamente da recuperare.