lunedì 29 agosto 2016

Volbeat, Seal the deal and let's boogie

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In pochissimo tempo i Volbeat si sono guadagnati sul campo, anche grazie ad un concerto strepitoso, l'ingresso in quella ristretta cerchia di band che, per l'attesa spasmodica nutrita nell'attesa delle loro nuove release, mi fanno sentire come se avessi ancora diciassette anni.
Ma non è certo a causa di improvvisi sbalzi d'umore adolescenziali se il successore del superlativo Outlaw Gentlemen and Shady Women, soprattutto nei primi ascolti, ha raffreddato molta della mia eccitazione.
Proprio nella recensione di quell'album del 2013, esordivo richiamando un vecchio slogan pubblicitario e, applicandolo all'hard rock, affermavo come la potenza fosse nulla senza il controllo. Quello che intendevo esprimere era come la particolarità della band fosse la capacità di districarsi agevolmente tra ritornelli killer e rimandi al metal più pesante, riuscendo in ciò a forgiare un complicato ed invidiabile bilanciamento tra melodia e asprezza dei suoni che è diventato nel tempo l'inconfondibile marchio di fabbrica del monicker.
Eccoci quindi alla principale criticità di questo nuovo Seal the deal & Let's boogie: le composizioni sono totalmente orientate verso, perdonatemi il termine desueto e forse inappropriato, una sorta di pop metal versione 2.0. Spariscono pertanto le accelerazioni, gli strappi, i repentini break thrash/death metal (anche nell'ambito di una stessa canzone, come quel capolavoro che risponde al titolo di Still Counting) e con esse si perdono anche un pezzo di sound dei Volbeat. Nel nuovo album non c'è dunque spazio per inedite Wild rover of hell, Who they are, Evelyn, Dead but rising o Room 24 viceversa sempre presenti nei precedenti lavori, a testimoniare la versatilità e la passione per tutto il genere metal da parte della band. Così come, d'altro canto, è accantonata la vena country folk, altro elemento stabilizzatore dell'alchimia del sound della band.

Detto dello spiazzamento che questa scelta mainstream ha comportato, non posso con altrettanta franchezza esimermi dall'elogiare la capacità del leader Michael Poulsen (definirei senza dubbio i Volbeat una one-man band, se non facessi un torto alla storia e all'autorevolezza dell'axeman Rob Caggiano) di scrivere canzoni, soprattutto refrain, che hanno più presa del Super Attak. Perciò, una volta superato l'ostacolo di patterns musicali un pò troppo simili e ripetitivi tra loro, non si può non celebrare pezzi come l'omaggio alla NWOBHM rappresentato dall'ottima The gates of Babylon oppure dalle anthemiche  The devil's bleeding crown; Marie Laveou o Mary Jane Kelly che denotano peraltro l'impegno mai banale di Poulsen nel songwriting, scavando nel passato, nella cronaca o nella letteratura e spesso prediligendo personaggi femminili. 
Per fare un esempio pratico di quanto si insinuino subdolamente i pezzi di questo disco nei ricettori cerebrali, la prima volta che ho sentito Goodbye forever l'ho irrimediabilmente bollata come la peggior canzone mai prodotta dal gruppo (in gran parte a causa del coro che fa da break, davvero indigesto). Ebbene, la mattina seguente mi sono svegliato con una melodia in testa cercando faticosamente di ricondurla ad un titolo, e che mi venga un colpo se dopo ore passate a scandagliare i  miei archivi musicali mentali la canzone non fosse proprio Goodbye forever! 
Se i pattern musicali di questo album sono parzialmente mutati, non cambiano invece altre abitudini consolidate, come quella di coinvolgere ospiti esterni a coadiuvare Poulsen, con il grintoso Danko Jones che duetta in Black Rose, o come la presenza di cover: Rebound, anche se sembra un omaggio ai Ramones, è la prima di esse e riprende un brano dei Teenage Bottlerocket, mentre l'altra è l'ancora più sorprendente Battleship chains dei mai troppo celebrati rockers Georgia Satellites.
La traccia migliore, non a caso quella che cambia marcia rompendo lo schema delle restanti dodici composizioni del lavoro, è a mio avviso la title track. Tirata e fragorosa come dio comanda è lasciata sola a sventolare la bandiera dell'hard rock più trascinante.

Se l'obiettivo di Puolsen e Caggiano era quello di avere un maggiore riscontro di pubblico rendendo il suono più commerciale, a giudicare dal numero di copie vendute il risultato è senza dubbio raggiunto, visto che Seal the deal & Let's boogie ha scalato le classifiche ufficiali generaliste fino al primo posto in Austria, Belgio, Danimarca, Finlandia, Germania, Svezia e Svizzera; il secondo in Canada e Norvegia e il quarto negli States. Mai prima d'ora i Volbeat avevano raggiunto una popolarità di queste dimensioni.

Che dire allora? Seal the deal and let's boogie, già a partire dal titolo, e nonostante i soggettivi punti di debolezza di cui parlavo, risulta comunque divertente in una maniera che definirei contagiosa, è  tuttavia aspra la sensazione di una parziale perdita d'identità di una band che adoro e la preoccupazione che per i Volbeat sia iniziata la parabola discendente.

venerdì 26 agosto 2016

80 minuti di my favorite 90/95 songs 3/3

Ultima parte della playlist. Gli esclusi sono INXS, Duran Duran, Thunder, Offspring, Pavement, Mano Negra e Vasco Rossi.

01. Les negresses vertes, Famille heureuse
02. Haddaway, What is love
03. Lenny Kravitz, Are you gonna go my way
04. Steve Earle, Goodbye
05. Southside Johnny, Comin' back
06. Soundgarden, Spoonman
07. Massive Attack, Unfinished simphaty
08. Wighfield, Saturday night
09. Alice in Chains, Would?
10. Soul Asylum, Runaway train
11. John Mellencamp, Human wheels
12. Crash Test Dummies, Mmm mmm mmm
13. 99 Posse, Curre curre guagliò
14. Ugly Kid Joe, Everything about you
15. Queen, The show must go on
16. Stone Temple Pilots, Interstate love song
17. Mr. Big, To be with you
18. The Pogues, Sayonara
19. Extreme, More than words

mercoledì 24 agosto 2016

80 minuti di my favorite 90/95 songs 2/3

Seconda parte. Qui gli esclusi sono stati Modena City Ramblers, Nine Inch Nails, Alanis Morrisette, Jovanotti, Jane's Addiction e Babybird.

01. Sting, All this time
02. Blur, Country life
03. Metallica, Sad but true
04. Ten Sharp, You
05. Elio e le Storie Tese, Servi della gleba
06. Rage Against The Machine, Killing in the name of
07. Corona, Rhythm of the night
08. Ben Harper, Burn one down
09. Red Hot Chili Peppers, Give it away
10. 2Pac, California Love
11. Screaming trees, Nearly lost you
12. 883, Sei un mito
13. Depeche Mode, I feel you
14. Jeff Buckley, Last goodbye
15. REM, Losing my religion
16. 4 Non Blondes, What's up
17. Portishead, Glory box

lunedì 22 agosto 2016

80 minuti di my favorite 90/95 songs 1/3

Non ricordo in quale preciso momento mi sia venuta la fregola di imbarcarmi in questa ennesima impresa, probabilmente ero all'autolavaggio ad aspirare i sedili dell'auto. Se avessi solo immaginato dello sbattimento necessario per portarla a termine, non mi ci sarei nemmeno messo. O forse, sì. Perché la verità è che mi piace tremendamente preparare playlist (ricordate no, Rob Fleming?): è un esercizio che mi rilassa al pari di un'attività manuale di quelle svolte con passione.
Insomma, ero lì all'autolavaggio con l'autoradio che suonava la mia compilation degli anni ottanta e ho pensato: "perché non assemblarne una dei novanta?" . Meglio ancora, "perché non dividerla in due: primo e secondo lustro?". Pensavo in questo modo A) di rendere più giustizia all'ultima decade musicale davvero eccitante B) dividendo la decade, ridurre il numero dei brani da includere su ogni CD. Giusto? Sbagliato! Perché nonappena ho preso carta e penna per stilare l'elenco delle canzoni, mi è apparso subito chiaro che non me la sarei cavata facilmente, dato il numero strabordante di pezzi che "non potevano mancare". E ogni giorno che passava, la lista si allungava sempre di più, fino a sfiorare i cento brani. A quel punto, pur essendo partito con l'idea di un CD singolo, ho dovuto arrendermi prima all'evidenza che me ne sarebbero serviti due, per poi sbracare totalmente, chiudendo a tre.
 
La filosofia che ha guidato le mie scelte è stata rigorosamente orientata al connubio tra "alto" e "basso" , come direbbe Crozza/Freccero. Volevo che a rappresentare il periodo preso in considerazione ci fosse sì il grunge , ma anche la dance, tornata in quel periodo prepotentemente alla ribalta. Non solo il brit pop, ma anche il pop italiano da classifica. Le nuove contaminazioni metal e il trip hop. I miei personali beniamini e gli indipendenti scoperti in ritardo. Gli artisti navigati insieme alle one hit wonder. Volevo insomma non solo le band e gli artisti di cui ho la discografia completa, ma anche quelli lontanissimi dai miei gusti che, proprio per questo motivo, fotografano in maniera ancor più nitida un momento, riconducono ad un istante irripetibile. Infine, una volta circoscritto il perimetro a circa sessanta artisti, bisognava individuare la canzone giusta a rappresentarli: altra sfida, nella quale ho dovuto tener conto di una serie di elementi: la mia personale saturazione verso alcune tracce storicamente più rappresentative di quelle che poi ho effettivamente selezionato (per fare qualche esempio dei Nirvana non c'è Smells like teen spirit ma Breed; dei Pearl Jam niente dall'esordio ma Rearviewmirror; dei Metallica Sad but true e non Enter sandman), il migliore aggancio tra la fine di una canzone e l'inizio della successiva, il minutaggio, l'alternanza lenti-veloci, eccetera eccetera. Quello che vi propongo in tre post (oggi, dopodomani e venerdì) è il parto della difficile ma appassionante gestazione.
Qualcosa è rimasto inevitabilmente fuori, alcune scelte sono state davvero dolorose, ma alla fine posso ritenermi soddisfatto (almeno fino a quando, tra qualche giorno non mi verrà in mente "IL pezzo" che non poteva mancare e che invece ho trascurato).
Per il momento dal final cut di questo volume uno sono rimasti fuori Jayhawks, Bryan Adams, AC/DC, Duran Duran, Prince, Madonna, Motorhead.

01. EMF, Unbelievable
02. The Cure, High
03. Pearl Jam, Rearviewmirror
04. Luca Carboni, Mare mare
05. U2, Mysterious ways
06. Nirvana, Breed
07. The Mavericks, All you ever do is bring me down
08. The Connels, 74/75
09. Right Said Fred, I'm too sexy
10. Ligabue, Vivo morto o X
11.  Spin Doctors, Two princes
12. Counting Crows, Mr. Jones
13. Pantera, Cowboys from hell
14. Franco Battiato, Povera patria
15. Oasis, Wonderwall
16. Ace of Base, All that she wants
17. Bruce Springsteen, If I should behind
18. Green Day, When I come around
19. Tom Waits, I don't wanna grow up
20. Beck, Loser
21. Johnny Cash, Tennessee stud
 

martedì 16 agosto 2016

80 minuti di ... angry singalong

E' sempre tempo di compilation. Anche se l'estate si presta in particolar modo a questa specifica attività, la playlist che segue l'ho confezionata già da qualche mese, in un periodo di intenso stress nel quale mi serviva espellere un po' di veleno con una manciata di pezzi adrenalinici, ancora perfettamente in grado di svolgere la funzione di sfogatoio. E che dire, nonostante le millemila volte che ho ascoltato alcune di queste canzoni, il loro sporco lavoro continuano a farlo. Provare per credere.


01.  Ramones, Blitzkrieg bop
02.  Van Halen, You really got me
03.  Sepultura, Refuse / Resist
04.  Guns ‘n’ Roses, Welcome to the jungle
05.  AC/DC, Back in black
06.  Metallica, Battery
07.  Thunder, Low life in high places
08.  Nirvana, Smells like teen spirit
09.  ZZ Top, Sharp dressed man
10.  Twisted Sister, We’re not gonna take it
11.  Offspring, Self esteem
12.  Pantera, Fucking hostile
13.  Black Sabbath, Paranoid
14.  Green Day, Basket case
15.  Led Zeppelin, Black dog
16.  Motley Crue, Dr Feelgood
17.  Volbeat, Still counting
18.  Billy Idol, Rebel yell
19.  Blur, Song 2
20.  Pogues, Body of an american

lunedì 8 agosto 2016

Monty's Favorite Tips, dicembre 2015/luglio 2016

Riprendo una delle rubriche più longeve del blog, nata fondamentalmente perchè adoro compilare liste nonchè quale riempitivo, nei periodi di vacche grasse, per non scendere sotto ad un certo numeri di post a settimana. Curioso come adesso il problema non sia più quello di trovare l'ispirazione che permetta di postare tre articoli a settimana, ma anche solo di ricavare del tempo per scrivere le cose che ho in mente, prima che scappino via. Vabbeh, la pianto qui, che con sta cosa del tempo vi ho fatto due balle formato angurie e passo al merito del post.
Grazie alle ferie (merda, quanto avevo bisogno di staccare!) ho raggiunto un idilliaco momento di passione musicale, riuscendo ad apprezzare una manciata di dischi nuovi che mi hanno premesso di superare un lungo periodo nel quale ho ascoltato solo roba consolidata e rassicurante che conoscevo nota per nota, parola per parola, refrain per refrain.
I gli artisti e i titoli che mi stanno facendo da viagra mentale rispondono ai nomi di Brian Fallon, Painkillers; Motorhead, Bad magic; Steven Tyler, We're all somebody from somewhere; Volbeat, Seal the deal & let's boogie; Gojira, Magma; Hayes Carll, Lovers and leavers; Red Hot Chili Peppers, The getaway; Shawn Colvin & Steve Earle, Colvin and Earle; lo strepitoso doppio cd The Christic Shows del 1990 di Springsteen, finalmente pubblicato in forma ufficiale dal sito del Boss. Per concludere, alcuni classici come i greatest hits di Journey e Little Richard. Spero che questo stato di grazia mi permetta di buttare giù anche qualche recensione prima di essere di nuovo risucchiato nel vortice lavorativo.

Anche per le serie televisive cose grosse. Dopo averlo custodito gelosamente per anni, come un buon vino da stappare solo nelle grandi occasioni, mi sono deciso a dedicarmi alla sesta ed ultima stagione dei Soprano. Mi mancano un paio di episodi alla conclusione e non posso che confermare l'epica grandezza di questa produzione. Dopo perentorie segnalazioni degli amici Ale e Filippo ho inoltre attaccato Rectify (sono al termine della seconda stagione), fidelizzandomi subito allo straordinario personaggio di Daniel Holden (interpretato da un immenso Aden Young).

 http://www.tvworthwatching.com/img/pages/0YU3BKW4M3P53WZ.jpg

In ambito lettura sto tenendo ancora un buon ritmo, al punto che avevo tentato il ritorno ai classici con Viaggio al termine della notte di Cèline, prima che un'amica, il cui giudizio letterario tengo sempre in molta considerazione, inorridisse a causa delle accuse di antisemitismo che riguardano lo scrittore (che nella mia abissale ignoranza ignoravo), castrando in un colpo solo tutto il mio entusiasmo.

lunedì 1 agosto 2016

Red Hot Chili Peppers, The getaway

 http://www.clashmusic.com/sites/default/files/field/image/red-hot-chili-peppers-the-getaway-ltd.jpg

Ricordo di aver letto Lou Reed affermare come l'ascolto più importante di un nuovo disco fosse il primo, in quanto quello è il momento, unico e irripetibile, nel quale i nostri ricettori sono terreno fertile, pronto ad essere inseminato dai nuovi germogli musicali. Beh, avessi dovuto esprimere un giudizio definitivo di The getaway sulla base del primo ascolto, più delle parole sarebbe stata efficace l'immagine del ciddì che volava fuori dalla finestra di casa mia accompagnato da una sequela di improperi. 
E invece.

Invece, complice un'agognata settimana di relax sperduto in una zona montana dove il mio telefonino non ha campo, ho messo sotto il nuovo lavoro dei Red Hot Chili Peppers (a tre-quattro canzoni per volta, che è il limite massimo di tempo concessomi prima che mio figlio reclami la mia presenza) e diamine, devo confessare che il tempo ha lavorato a suo favore. Intendiamoci, il glorioso passato è irrimediabilmente andato e non credo possa più tornare: una volta regolati i conti con questo assioma si può apprezzare quello che di buono è rimasto in un album (l'undicesimo a cinque anni di distanza da I'm with you ) di un gruppo che è in giro da quasi trentanni, i cui componenti in ogni intervista non mancano mai di ribadire lo stupore di essere ancora vivi, dopo gli eccessi di gioventù.

I peppers moderni e salutisti, che possono permettersi di scegliere un produttore di grido come Danger Mouse (dopo l'accantonamento di Rick Rubin e il cordiale rifiuto di Brian Eno e Nile Rodgers), invece, confezionano un tredici tracce all'insegna del consolidato gusto per la melodia e per i patterns radio friendly. Ecco allora, pronte per un massiccio airplay Dark necessities, Encore e Goodbye angels, ma anche il lento The longest wave o la disguided ballad Sick love.
In questi peppers appare abbastanza evidenze come le chiavi della macchina siano consegnate a Flea e Kiedis. Sono loro i depositari di ciò che resta dell'antico splendore che si dischiude in pezzi come We turn red, This ticonderoga, Go robot (la mia preferita) e Detroit, mentre rimangono un po' più defilati le chitarre di Klighoffer e le pelli di Smith. La chiusura è saggiamente lasciata alla malinconia e all'introspezione di classe con The hunter, e la psichedelica (con incipit morriconiano) Dreams of a samurai (forse dedicata a Scott Weiland e forse no):senza dubbio il brano meno accondiscendente dell'intera opera.

Insomma, una volta messa da parte l'iconografia dei “nostri” Red Hot Chili Peppers si può scoprire in The getaway un disco piacevole, confezionato con classe, intelligenza e misura. Questi sono peppers moderni: prendere o lasciare.