lunedì 29 giugno 2020

Avatarium, The fire I long for (2019)

AVATARIUM - The Fire I Long For

Tra le tante formazioni che si rifanno al classic metal, gli svedesi Avatarium sono forse tra quelle che sono riuscite maggiormente ad imporre un sound riconoscibilissimo e sufficientemente personale. La band, che nasce su impulso del bassista Leif Edling, ex Candlemass, che rimarrà negli Avatarium lo spazio dell'album di debutto, pur mantenendo l'impronta stilistica doom, anche grazie all'inconfondibile contributo della singer Jennie-Ann Smith è riuscita a muovere su territori meno rigidi del genere coniato dai Black Sabbath (sempre presenti comunque, nei fraseggi di chitarra di Marcus Jidell).

The fire I long for (titolo poetico e suggestivo) è il quarto frutto in sei anni del combo, che non cade troppo lontano dal robusto albero del mood che ha contraddistinto i precedenti lavori (soprattutto Hurricanes and halos, del 2017), una costante tensione drammatica, testi molto evocativi, viaggi anche lisergici cuciti tra le chitarre di Jidell e le tastiere di Rickard Nillson. 
Mancano forse i pezzi più lunghi e blues oriented del disco precedente (mi sovvengono Medusa, The sky at the bottom of the sea; When breath turns to air), "compensati" da una maggiore fruibilità dei pezzi, alcuni dotati di potenziale mainstream, come Rubicon; Lay me down; Shake that demon, mentre la title track è forse il brano dotato di maggiore pathos e componente onirica.
Un buon album, che ha forse il limite di non aggiungere molto alla carriera del gruppo, non gli fa compiere un salto commerciale ne è coraggioso a sufficienza per stravolgere quanto fatto finora. Tuttavia, come scritto in premessa, la band ha un suo stile definito ed immediato. 
E di questi tempi non è davvero poco.

giovedì 25 giugno 2020

Da 5 Bloods

Da 5 Bloods dal 12 Giugno su Netflix il film di Spike Lee

Raramente mi sono trovato così in disaccordo con la critica cinematografica in merito al giudizio di un film. Mi è successo con Da 5 Bloods, il nuovo Spike Lee, uscito da poco per Netflix, indiscriminatamente incensato dai recensori e per me al limiti dell'inguardabile.
Il dito del regista americano è rivolto verso la più grande ossessione americana, il Viet Nam, ma indica, questo è evidente, la luna della questione razziale e discriminatoria dei neri americani. Il plus sta sicuramente nell'aver inserito elementi di contrasto alla consueta narrazione della comunità nera, come ad esempio un protagonista afroamericano (Paul/Delroy Lindo) a sua volta trumpiano e intollerante (verso messicani ed asiatici), a far riflettere su come il seme del razzismo continui a germogliare ovunque, analogamente a quello del rancore dei vietnamiti per le crudeltà commesse dall'esercito USA. Se vogliamo parlare degli elementi positivi della pellicola dobbiamo però fermarci qui, perchè per il resto l'impianto filmico è di una bruttezza talmente rara da pensare che l'abbia girata il criceto di Spike, mentre regista faceva trekking nella foresta.

D'accordo, la trama (cinque veterani della guerra in Viet Nam tornano nel Paese asiatico per recuperare una cassa di lingotti d'oro - sic!- e trovare le spoglie del loro amico e leader morto in battaglia) è solo una scusa, un gigantesco MacGuffin, per parlare delle tensioni odierne, però si sarebbe potuta fare la stessa operazione con una storia e una messa in scena degne di tale nome e della storia di Lee.
Evidentemente la verosomiglianza con la realtà non interessava il regista che (SPOILER)  manda cinque settantenni nella giungla, li fa inciampare in centinaia di lingotti d'oro "sepolti" da cinquant'anni sotto due centimetri due di terriccio e lo stesso fa con i resti dell'amico, ritrovati nelle medesime modalità, con ancora la piastrina col nome al collo. Poi li fa saltare su mine inesplose, li piazza in un conflitto a fuoco che è un massacro di americani, vietnamiti e francesi dai quali i superstiti non subiscono conseguenze penali e se ne tornano sorridenti e miliardari in America. 
Le cinque o sei persone che leggono questo blog sanno benissimo il mio posizionamento politico, quindi non devo stare qui ad affermare quanto concordi con lo Spike pensiero, ma, davvero, qualche anno fa il Maestro avrebbe scelto forse metafore più colte di un berretto con lo slogan di Trump ("make America great again", in realtà rubata da un discorso di Reagan) gettato sul cadavere di un nero, per fare denuncia sociale.

Film dal messaggio politico forte e totalmente condivisibile che però si mangia tutto il resto. Peccato.

lunedì 22 giugno 2020

Body Count, Carnivore

BODY COUNT - Carnivore

Da quando, nel 2014, Ice-T, assieme al fido chitarrista Ernie C, ha definitivamente riattaccato la spina al progetto Body Count, sono ben tre gli album usciti in sei anni. D'altro canto Ice-T è un uomo impegnato. Non tanto dalla sua carriera di rapper, sostanzialmente interrotta dal 2006, ma da quella di attore, ben più intensa, nella quale l'artista del New Jersey ha già partecipato a un centinaio tra film e serie TV, dal 1984.
Ma noi ai Body Count siamo particolarmente affezionati, da quel debutto cattivissimo e sboccato scolpito a fuoco nella memoria (io l'ho scoperto un pò in ritardo...) a questo Carnivore, qualcosa è cambiato, ma l'attitudine è sempre quella, si pesta giù sempre duro, nella commistione tra rap e metal più autorevole (e resistente) che c'è in giro.
Si preme play e la title track attacca i vegani come nell'immagine della copertina di Vulgar display of power dei Pantera, cioè con un metaforico pugno in faccia. Il pezzo non è tra i puoi veloci, qualche urlo in growling e tanto spazio ad Ernie C, alla chitarra, ma insomma, Ice-T, come da costume non le manda a dire.
La tracklist di undici pezzi è messa assieme con diverse collaborazioni, una cover ed alcuni recuperi di vecchie tracce del periodo rap. 
Capitolo ospitate: per Point the finger troviamo Riley Gale dei grandi Power Trip e dentro Another level il duetto è con Jamey Jasta degli Hatebreed. 
C'è poi la cover di Ace of spades dei Motorhead, aperta da un breve spoken di ricordo per Lemmy, suonata alla grande con tutti i Motorhead superstiti. L'iniziativa è più che apprezzabile, ma se Ice-T avesse scelto un pezzo meno sputtanato e stra-noto? 
Nei recuperi del periodo rap, sottoposti alla cura Body Count, ci sono l'indimenticabile Colors, pezzo portante del film omonimo del 1988 di Dennis Hopper con Sean Penn e Robert Duvall che per la prima volta portò al grande pubblico la "guerra" di L.A. tra le gang dei Crips e dei Bloods, e addirittura il primo successo di Ice-T, quel 6 in tha morning del 1987 sempre gentilmente dedicato ai ragazzi della LAPD.
I pezzi da headbanging selvaggio (pericoloso per rocker della mia età...) sono sicuramente Another level e  Bum rush.
Tra influenze hardcore-punk, thrash, doom, sludge e passaggi alla Rage Against The Machine, mi sembra che anche questa volta ci sia tutto.
Non il disco dell'anno, ma restate indifferenti, se potete.

giovedì 18 giugno 2020

Vita da vampiro (2014)

Vita da vampiro (2014) - Streaming | FilmTV.it

Dopo Deathgasm, un altro film neozelandese che è già diventato un piccolo grande culto.
Vita da vampiro (in originale What we do in the shadows, con questo titolo è stata lanciato anche uno spin-off sotto forma di serie tv) esce nel 2014, ma da noi arriva direttamente in home video solo quattro anni dopo e, attraverso lo stile mockumentary, racconta la storia di un gruppo di vampiri molto diversi tra loro per età (sarebbe più corretto dire epoche), abitudini, stili di vita e cultura, che condividono una casa a Wellington e che, per un certo periodo di tempo, vengono "seguiti" costantemente da una troupe cinematografica.
La macchina da presa li tallona nel quotidiano (che comprende ovviamente i loro "pasti"), nei loro spostamenti, nelle trasformazioni e nei (difficili) rapporti sociali.
Il film è una delle cose più divertenti viste negli ultimi anni. 
Se dovessi segnalare le sequenze più spassose non basterebbe lo spazio che di norma riservo a questi post, tuttavia cito, per sommi capi: il rapporto con l'umano tuttofare Stu; l'iniziazione ad internet; la masturbazione di Viago dentro la bara; il rapporto di odio/amore con i licantropi e con le altre creature del male; l'incredibile festa tra freaks. 
Ma è davvero l'intera messa in scena a risultare irresistibile, a partire dai racconti autobiografici di presentazione dei vampiri.
I protagonisti principali, Viago e Vladislav (interpretati dai due registi Taika Waititi e Jemaine Clement) sono caratteri che difficilmente dimenticherete nel loro essere al tempo stesso naif, ingenui e, quando serve, spietati, ma sempre nel modo più infantile, spontaneo, aristocratico e naturale possibile.

Imperdibile.

lunedì 15 giugno 2020

Matt Woods, Natural disasters (2019)

Natural Disasters by Matt Woods on Amazon Music - Amazon.com

Doveroso recupero sull'anno appena passato, quello del quarto disco del countryman Matt Woods (lo specifico perchè con lo stesso inflazionato nome esistono almeno un DJ e un bluesman), artista al quale sono legato per motivi che non ricorderò più per evitare di essere inutilmente ripetitivo (ma se proprio volete, trovate tutto qui).
Con Natural disasters Matt Woods prosegue orgoglioso a dipingere sulla sua tela paesaggi di un'America affollata di personaggi alla deriva, intrappolati in una vita che, come nei più realistici film noir, è segnata e senza sbocchi, incastrata dentro lavori di fatica malpagati o impigliata dentro quella piccola criminalità che conduce inevitabilmente al carcere. 
In sintesi Woods è il cantore del sogno spezzato, come racconta lui stesso senza troppi giri di parole in una The dream, la cui strofa, per un particolare corto circuito tra maestro e alunno, è modellata esattamente sul pattern di Johnny 99 di Springsteen, un'altra canzone di disperazione quotidiana nelle provincia USA.

In questo disco però Matt sposta il baricentro del suo stile verso un country rock in cui il prefisso viene oscurato a favore di una maggiore esigenza blue collar, come risulta evidente dal biglietto da visita dell'opener Blue-eyed wanderer.
Si perde insomma un pò di introspezione e si guadagna in termini di impatto, ma il messaggio non cambia. Lo sguardo da street poet del cantautore è ben focalizzato sui mali della provincia, individuando negli ottanta reganiani le cause di questo disastro (Sitcoms) per arrivare, con Cold civil war, all'analisi della situazione attuale (torna lo spettro dell'ex attore presidente: "Dad votes Reagan afraid of the nukes/ Made sure that momma did too/ We grew up watching live on TV/ what fear can make people do").
Natural disasters è, a suo modo, un (altro) disco di denuncia, ma sarebbe un errore pensare ad un mattone inascoltabile, perchè viaggia saldo sui binari di un rock popolare che non rinuncia mai alla melodia e, spesso, al ritornello catchy. Hey, heartbreaker, ad esempio, col suo essere sospesa tra i REM e i Counting Crows, fosse uscita nei novanta sarebbe stata un singolo di sicuro successo radiofonico.
E invece niente, Matt Woods continua a fare dischi belli e ispirati, che escono sottotraccia, ignorati dal pubblico. Speriamo vivamente che non si arrenda, il folk rock americano, soprattutto di questi tristi tempi, ha disperatamente bisogno di uno come lui.

giovedì 11 giugno 2020

Jeremy Saulnier: Blue ruin e Green Room

Torno al recente format "un regista per due film". 
Dopo S.C. Zahler passo ad un altro giovane e molto interessante film director.
Jeremy Saulnier (Virginia, 1976), che di certo abbraccia un campo di interessi non paragonabile a quelli di Zahler, ma che dietro alla macchina da presa e davanti ad foglio bianco dimostra indiscusso talento.
I suoi due film che ho visto in sequenza sono Blue ruin, del 2013 e Green room di due anni successivo, entrambi disponibili sulla piattaforma Amazon Prime.

Blue Ruin (2013) - Streaming | FilmTV.it

Dopo il film a low budget Murder party, molto ben accolto dalla critica ma quasi totalmente ignorato dal pubblico, Saulnier è praticamente rassegnato a dover abdicare da ogni aspirazione di carriera nel cinema. Fortunatamente gli amici e i colleghi lo spronano a non desistere, e in particolar modo l'attore Macon Blair lo incoraggia, non solo dal punto di vista morale ma anche da quello economico ad investire in nuovo film, colpito dall'intensità di una sceneggiatura che il regista gli ha fatto leggere. Nasce così Blue ruin, altro progetto a basso costo, in buona parte finanziato dallo stesso Saulnier e da Macon, al quale viene affidato il ruolo da protagonista.
Assistiamo alla vicenda di Dwight (Macon Blair), talmente sconvolto dall'omicidio dei suoi genitori da essersi ridotto a vivere alla giornata e ad usare come casa la sua vecchissima auto.
Il punto di svolta per la vita di Dwight (e per il film) è la notizia che l'assassino dei genitori sta per essere scarcerato. Questo dona finalmente a Dwight uno scopo, quello di rintracciarlo e ucciderlo, per fare giustizia e trovare una sua serenità. 
Ma se vi aspettate un revenge movie ottuso e fascista siete fuori strada, perchè questo è davvero solo lo spunto iniziale della pellicola (non credo di spoilerare troppo se rivelo che il confronto tra il protagonista e la sua vittima si conclude già nei primi venti minuti di narrazione) che presto si apre ad altri, tragici scenari.

Blue ruin è un'opera che non fa mai pesare allo spettatore la propria limitatezza di mezzi. Saulnier ci mostra la faccia di un'America che gli appassionati di crime conoscono, ma che, per ovvie ragioni, non è quella più nota. Un'America di provincia povera, individualista, violenta e border line, nella quale ognuno rivendica e pratica il proprio diritto ad avere in casa non solo un'arma, ma un vero un arsenale, quasi aspettando con impazienza la possibilità di usarlo, magari per un banale sconfinamento di confine (tema questo che tornerà, forte, nel successivo Green room) in modo da non dover rischiare praticamente nulla con la legge, neanche fossimo ancora nelle terre di confine dell'800 tanto celebrate dalla filmografia western.
Il film ha un passo lento, che segue i tempi del disadattato protagonista, con improvvisi scoppi di violenza, tanto efficaci quanto imprevedibili, rispetto al mood della storia.
I personaggi sono tutti estremamente credibili, così come l'esito dell'odissea di Dwight. Personalmente non ho visto analogie con Hitckock o i Cohen, come altri (ben più titolati di me) hanno fatto, piuttosto, anche qui, nella messa in scena, nei paesaggi, nella sporcizia delle immagini e nella storia, con certo cinema dei settanta che poteva permettersi tempi e modi oggi totalmente  indigesti per la gran massa del pubblico moderno.

Green Room | Recensissimo

Nel 2015 Saulnier scrive e dirige Green room, la storia degli Ain't Rights, una band hardcore punk che si arrabatta in giro per l'Oregon su un furgone scassato per pochi dollari di compenso, in locali di infima categoria, senza riuscire mai ad andare nemmeno in pari, al punto che è sul punto di sciogliersi.
Per riparare all'annullamento di una data prevista, un loro conoscente gli organizza un concerto in un locale sperduto nei boschi di Portland, ritrovo abituale di skinhead, neo-nazisti e suprematisti bianchi. La band è ovviamente perplessa, ma la prospettiva di un buon cachet e la presenza in cartellone di un gruppo noto (i Cowcatcher) li convince a mettersi in viaggio.
Gli Ain't Rights suonano il loro set, vengono regolarmente pagati, ma quando tornano in camerino per recuperare le proprie cose assistono a qualcosa che gli impedirà di lasciare il posto, mettendo a rischio la vita di ognuno dei componenti del gruppo, barricato nel camerino.

Fosse anche un film brutto, questo Green room, basterebbe la scena nella quale gli Ain't Rights decidono di suonare in faccia a decine di nazistoidi Nazi punks fuck off dei Dead Kennedys, per fargli guadagnare pieno rispetto. Così come, per ogni appassionato di musica, la scena dove viene proposto il consueto gioco sull'unica band da portare sull'ipotetica isola deserta, il cui nome cambia radicalmente in condizioni normali piuttosto che in punto di morte. Ma siccome un film in cui si suona in faccia alla feccia nazista quella canzone dei Dead Kennedys non può in alcun modo essere un brutto film, ecco che quelle sequenze  rappresentano solo l'antipasto di un'opera tesa, violenta e angosciante.
Rispetto a Blue ruin, questo lavoro di Saulnier viaggia veloce su un ottovolante adrenalico e con una tensione che non ti molla mai.Qualcuno, dovendo dargli un genere, lo definisce un horror, a me sembra, nonostante, certo, il sangue scorra a fiumi, di essere dalle parti del film d'assedio, Carpenter docet, anche per i riflessi sociali e politici radicati nella rappresentazione.
L'attore feticcio (nonchè amico del cuore) Macon Blair interpreta qui un ruolo secondario, ma importante, quello del gestore del locale con un ruolo incerto nell'organizzazione di suprematisti agli ordini di un misurato ma forse proprio per questo terrificante Patrick Stewart, nei panni di Darcy Banker.
Il ruolo di Darcy è centrale nel film. Infatti nonostante tutto l'odio che possiamo provare per questa gente con le svastiche tatuate sul corpo, dal film risulta evidente come molti di loro siano ragazzi persi, catturati nella rete di un pericoloso affabulatore che ha dato loro una causa e un gruppo nel quale riconoscersi. Bene anche i protagonisti principali Anton Yelchin (nei panni del chitarrista Pat) e Imogen Poots (Amber). Insomma, un ottimo film, meno autoriale ma più divertente di Blue ruin con il quale però condivide sguardo lucido, critico e spietato sulla provincia americana.

Su Netflix è disponibile l'ultimo film del regista, Hold the dark. Conto di recuperarlo.

lunedì 8 giugno 2020

Discovering Elton John (in the seventies)

A Beginners Guide to Elton John | Backseat Mafia

Nei miei primi anni ottanta vagavo senza direzione e soprattutto senza una guida che potesse incanalare la mia insaziabile fame di musica. Col senno di poi, almeno fino al termine del decennio, mi sono perso buona parte della musica che contava, orientandomi, coi pochi soldi a disposizione per acquistare i dischi (uno al mese, non di più, e se sbagliavi titolo te lo tenevi), per fortuna sul metal e sul rock americano, ma anche su molto di quello che passava, attraverso i video musicali, in televisione o alla radio.
Era inevitabile che in questo procedere a tentoni mi conducesse anche dalle parti di Sir Elton John. Il primo approccio fu con l'album Reg Strikes back, del quale mi piacevano i singoli I don't wanna go with you like that e Words in spanish. Da lì all'inevitabile greatest hits il passo fu breve. Poi, per fortuna, arrivarono i novanta e del buon Reginald e di quel pop iper prodotto con l'effetto di batteria gated reverbe non sentii più il bisogno.
Fino all'anno 2019, quando la visione del coloratissimo biopic Rocketman ha riacceso la mia curiosità.
E' grazie a quel film che ho scoperto l'Elton John degli esordi, quando era un'artista eccitante e cool che, grazie alla collaborazione con uno più prolifici parolieri di tutti i tempi, Bernie Taupin, sfornò dieci album nei primi sei anni di carriera, dal 1969 al 1975. Un entertainer dai concerti energici, dove si produceva in esibizioni atletiche, come il famoso salto sul pianoforte immortalato in molte fotografie dell'epoca.

Ecco in quell'irripetibile periodo di ispirazione, più in particolare fino al 1973 con l'apice creativo Goodbye yellow brick road, ho scoperto una vera e propria vena d'oro satura di soul, virtuosismi pianistici imbullonati dentro la tradizione ragtime e honky tonk americana, accenni di blues e di rock and roll, finanche country, ballate piene di pathos.Tutta roba mai entrata in nessuna raccolta di successi. Pazzesco.
Per fare qualche rapido esempio parto dal pezzo cardine del film, cantato anche dall'attore Taron Egerton sui titoli di coda, vale a dire Take me to the pilot, dall'album eponimo del 1970. Un pezzo con un crescendo incredibile, ricolmo di soul e di arroganza, letteralmente irresistibile. Si potrebbe poi passare a Ballad of a well-known gun (Tumbleweed connection, anch'esso 1970), con il suo intro di chitarra nervosa, country-rock, che si apre poi ad un'altra grandiosa melodia soul e un inaspettato, strepitoso, solo di chitarra di Caleb Quaye. Nello stesso lavoro Country comfort, che torna ad accarezzare con classe e leggerezza lo stile country. Taccio su Tiny dancer (Madman across the river, 1971) perchè è criminale non conoscere questa ballata e passo alle tracce contenute nell'album Don't shoot me, I'm only the piano player (1973). Questo disco, sicuramente ricordato per le mega hits Crocodile rock e Daniel, contiene perle di altissimo valore come Elderberry wine; Teacher I need you o Have mercy on the criminal.
Nel capolavoro Goodbye yellow brick road non si può fare a meno di segnalare la lunga opener Funeral for a friend, incredibile esercizio diviso in due movimenti, il primo in stile progressive e il secondo che sfocia in un rocchettone seventies.
Chiudo questa breve carrellata di brani, come si usa dire: esemplificativi ma non assolutamente esaustivi del fantastico periodo preso in esame, che, anche presi singolarmente avrebbero fatto la fortuna di qualunque cantante, con l'album Honky chateau, quello di Rocketman, che porta a casa una incantevole, esplosiva e, suppongo, autobiografica I think I'm going to kill myself e una ballata come Mona Lisas and Mad Hatters.
Ecco, questo è solo un accenno di quello che è stato capace di creare, assieme a Taupin,Elton John in quell'irripetibile periodo. Le mie considerazioni probabilmente suoneranno ovvie per molti, che già conoscevano il primo repertorio del cantante inglese, ma se potessero invece servire anche ad un solo lettore per riscoprire, come è capitato a me, tanta musica eccellente, ecco, mi accontenterei.

giovedì 4 giugno 2020

Il tempo dei cani pazzi (1996)

Il tempo dei cani pazzi (1996) - Trama, Citazioni, Cast e...

Da quando ho iniziato a mettere il voto accanto alla lista dei film visti nei miei consuntivi bimestrali, non è mai capitato che piazzassi ad un titolo un "s.v." (senza voto). 
Siccome l'ho fatto per Il tempo dei cani pazzi, mi sembra giusto spiegarne il motivo.
Questa pellicola, che si inserisce nel filone gangster movie, è semplicemente una delle produzioni più senza senso che abbia mai visto. Talmente sfasata che è difficile pensare sia frutto di incompetenza tecnica, e che, piuttosto, sia stata pensata proprio con questo scopo.
A fronte di un cast lussuoso, tra personaggi principali (Richard Dreyfuss; Gabriel Byrne; Jeff Goldblum; Ellen Barkin; Diane Lane) e camei (Gregory Hines; Burt Reynolds; Richard Pryor; Billy Idol; Paul Anka; Henry Silva), il regista (nonchè sceneggiatore e attore, nel ruolo di Falco) Larry Bishop riesce a mettere insieme un puttanaio senza capo ne coda, una storia incomprensibile, dei dialoghi al livello di The room (considerato il più brutto film della storia del cinema, celebrato da The disaster artist), e infine una regia allucinante, tra carrellate, ralenty e primi piani piazzati letteralmente alla cazzo.
Gli attori appaiono, comprensibilmente, spaesati, incastrati in characters che li obbligano a recitazioni costantemente fuori dalle righe, in un film che sembra una parodia dei gangster movie, ma non sembra rendersene conto.
L'incredulità ti assale e ti chiedi come sia possibile con un budget importante e un cast di questo livello assistere a qualcosa di così sconclusionato e surreale.
E allora ti sovviene che la chiave di lettura possa essere proprio questa, una colossale presa per il culo dello spettatore avvezzo a questo genere cinematografico, diversamente non si spiega il perchè ai tre personaggi principali vengano dati nomi che si distinguono tra loro in pratica solo per la prima consonante (Vic, Mick, Nick). 
In pratica un colossale trip di acido elargito gratuitamente a tutti. 
Una specie di The ring in cui dopo la visione non si muore, ma si viene presi da visioni lisergiche. 
Per questo, un film così, un'esperienza extrasensoriale, non può essere giudicato contenendosi dentro il limitato perimetro di un voto. Gioca in un altro campionato.

lunedì 1 giugno 2020

Biff Byford, School of hard knocks

BIFF BYFORD - School Of Hard Knocks

Anche se sono due (Byford e il chitarrista Paul Quinn) i membri storici dei Saxon presenti dal primo disco del 1979, tre se consideriamo anche Nigel Glocker, con la band dal 1981, è innegabile che ormai l'inossidabile gruppo inglese sia a tutti gli effetti una one man band saldamente nelle mani di Peter Rodney "Biff" Byford.
Pertanto, se il cantante ha sentito l'urgenza di uscire con un disco a proprio nome ad oltre quattro decenni dal suo debutto, avrà avvertito anche l'impellente esigenza di dire cose diverse da quelle espresse con il monicker che l'ha reso famoso, almeno in ambito heavy metal. 
Giusto?
Evidentemente no, perchè, nonostante i primi versi dell'opener Welcome to the show ("I've been waiting for this ever / and now we're here"), non si capisce davvero il senso di un disco che fondamentalmente non si discosta dalla roba dei Saxon.

School of hard knocks dietro una copertina, quella sì molto suggestiva e lontana dalle cover saxoniane, arriva dopo un brutta battuta d'arresto causata da serie complicazioni alla salute di Byford che l'hanno costretto prima ad un'operazione al cuore e poi ad un ovvio periodo di inattività, ma non lascia respirare all'ascoltatore nessuna emozione particolare legata all'eccezionalità del progetto o ai problemi dell'autore.
Il disco muove infatti su sintonie che spostano impercettibilmente il baricentro heavy dei Saxon su di un hard rock comunque molto robusto, con pezzi che, se ascoltati su uno dei recenti dischi della band, non avrebbero dato adito a nessuno di notare la differenza (Welcome to the show; la title track; Worlds collide; Pedal to the metal; Hearts of steel). 
Le poche divagazioni sono da ricercare col lanternino: nel break di genere progressive di The pit and the pendulum e nel trittico finale: la cover di Throw down the sword degli Wishbone Ash (ancora dalle parti del prog), la ballata pop folk You and me (dedicata alla moglie) e forse nella growin ballad classic rock Black and white (anche se il profumo è quello dei Saxon periodo glam).

Non un brutto disco, intendiamoci, ma un'operazione superflua quello probabilmente sì. E dire che tutto ci aspettavamo dal nostro Biff meno che fosse così poco coraggioso nel prendersi una vacanza dai suoi luoghi abituali.