giovedì 31 agosto 2017

Alice Cooper, Paranormal


Alice Cooper è balzato in cima alla lista di artisti che si sono guadagnati sul campo la mia stima perpetua dopo un concerto, quello in cui ha aperto per i Motley Crue, nel quale la sua classe, le sue doti di entertainer e il suo leggendario repertorio hanno abbagliato tutti i presenti. E pensare che fino a quel momento lo consideravo un mezzo fenomeno da baraccone che ormai aveva sparato da decenni le cartucce migliori. E' proprio vero che i musicisti devi vederli dal vivo per giudicarli.
Nel corso di quest'anno il quasi settantenne rocker (nasce a Phoenix nel febbraio del 1948) rilascia Paranormal, il ventiseieseimo album della sua carriera, filosoficamente nel solco, e lo si capisce fin dalla copertina, della cifra stilistica da lui stesso plasmata.
Sono sufficienti le atmosfere della title track che apre il lavoro per essere infatti proiettati nel mondo oscuro e gotico di Alice: il pezzo, scritto assieme a Roger Glover dei Deep Purple, che vi suona anche il basso, è una mini suite orrorifica di poco più di quattro minuti, divisa in due movimenti, che si cristallizza tra le cose migliori del disco.
Così come svetta il mood ai limiti dello stoner di Fireball, il puro ZZ Top boogie rock di Fallen in love (ospitata di Billy Gibson on guitar) e il soul-rock festaiolo con corredo di fiati di Holy water. Mettiamoci poi una Paranoiac personality così legata alla tradizione sonora di Cooper da risultare quasi un auto plagio (di Go to hell) e la sorprendente conclusione pinfloydiana di The sound of A e il piatto è servito.
Oltre agli ospiti già citati, sono della partita il produttore e musicista Bob Ezrin e il batterista degli U2 Larry Mullen jr (che suona in nove brani su dieci).
La tracklist di dieci pezzi, per un totale di meno di trentacinque minuti di durata, è dosata e bilanciata alla perfezione, anche se c'è in giro la solita deluxe edition con due bonus tracks e una manciata di pezzi storici dal vivo.
Un disco indubbiamente di mestiere, ma a cui non manca però una dose non comune di orgogliosa dignità.

lunedì 28 agosto 2017

L'ultima parola (2015)


Ci sono film il cui messaggio ha una valenza tale da superare anche la qualità artistica dell'opera stessa. Vicende che è doveroso riportare alla memoria collettiva non solo per restituire, anche se parzialmente, dignità e giustizia a chi ha subito tremende oppressioni, ma anche per ricordare i danni che da sempre la limitazione delle libertà individuali, giustificata con il patriottismo più becero, hanno prodotto e continuano a produrre.
L'ultima parola ha il merito di riuscire a coniugare entrambi gli aspetti: è un ottimo film, con interpretazioni di rilievo, e fotografa in maniera credibile uno dei periodi più neri del dopoguerra U.S.A.: la caccia alle streghe contro i comunisti (reali o presunti) americani, che, partendo da quanti svolgevano le mansioni più comuni, arriva fino ai dorati palazzi di Hollywood, travolgendo registi, attori e sceneggiatori.
Alla fine degli anni quaranta Dalton Trumbo è uno degli sceneggiatori più bravi e richiesti del cinema a stelle e strisce. Purtroppo per lui l'essere iscritto al Partito Comunista Americano (attività di per sé non vietata dalla legge) insieme ad un gruppo di colleghi e amici gli costerà l'esilio artistico, un processo e, dopo vari appelli finiti male, un periodo di reclusione.
A differenza di altri nelle sue condizioni però, una volta fuori di galera Dalton (interpretato da un Bryan Cranston in parte) non si dà per vinto e, essendo finito nella famigerata lista nera hollywoodiana ai cui nomi non è più permesso lavorare, comincia a scrivere sceneggiature a getto continuo per una casa di produzione di serie B guidata da Frank King, (un John Goodman come sempre irresistibile), attività nella quale coinvolgerà altri amici sceneggiatori lasciati ai margini per la stessa discriminazione politica.
L'acerrima rivale di Trumbo e dei reietti denominati con disprezzo dalla stampa "The Hollywood 10", è soprattutto la potentissima giornalista Hedda Hopper (una Helen Mirren perfidamente spettacolare) spalleggiata da un gruppo di produttori, registi ed attori reazionari capeggiati da John Wayne e Ronald Reagan.
Anche in queste condizioni di clandestinità Trumbo riesce a produrre script eccezionali che gli valgono, dietro l'utilizzo di pseudonimi o di amichevoli prestanome, due Oscar per i film Vacanze Romane e La più grande corrida. Ci vorrà il coraggio di attori e registi influenti (Kirk Douglas e Otto Preminger) per riportare il lavoro di Dalton fuori dall'oscurità fino al meritato riconoscimento pubblico.

E' lodevole il tentativo del regista Jay Roach e dello sceneggiatore John McNamara (che si è ispirato all'autobiografia di Trumbo scritta da Bruce Cook) di eludere il rischio agiografico. In questo senso mostrare il comportamento di Trumbo con i compagni, sempre un po' retorico e pieno d'enfasi, e, soprattutto con la famiglia, dove per lunghi tratti vive da separato in casa, sigillato nel suo studio o nella vasca da bagno (attrezzata da studio) a scrivere in continuazione lontano dalle gioie familiari, ci consegna un personaggio anche scostante, presuntuoso, egoista, che verosimilmente si avvicina molto alla figura reale dello scrittore.
Il cast, oltre agli attori già citati, è sontuoso: cito per brevità la sola Diane Lane, mio primo amore di celluloide ai tempi di Streets of fire, che non ha perso un grammo del suo fascino, e il comico Louis C.K., qui alle prese con un ruolo drammatico.

Nonostante L'ultima parola affronti un tema che poteva essere trattato con ben altra profondità e senza lieto fine, visto che in quella maledetta stagione l'happy handing era la clamorosa eccezione, mentre la regola era la rovina assoluta per le persone coinvolte da questa o quella commissione anti-comunista, il film raggiunge un suo equilibrio tra dramma e leggerezza, permettendo l'approccio agli argomenti trattati ad un pubblico più vasto di quello che rischiava di essere invece rappresentato dai soli vecchi comunistacci pieni di rancore come il sottoscritto, che hanno perso la voce a forza di raccontare questa pagina nera della democrazia americana a chi non ha mai voluto ascoltare.

lunedì 21 agosto 2017

It Follows (2014)


It follows appartiene al mio genere di horror preferiti.
Essendo infatti io, nonostante la non più veneranda età, ancora a disagio con slasher, splatter e più in generale con tutta la violenza esibita senza filtri, gli unici film di genere che riesco a godermi  senza distogliere lo sguardo, sono quelli costruiti su tensione e atmosfera.
Proprio come questa pellicola di David Robert Mitchell, sceneggiatore e regista di una storia che si dipana nella periferia di una Detroit messa a dura prova dalla crisi economica, con protagonisti un gruppo di adolescenti (ma non bimbiminkia), i cui genitori non compaiono mai, e che in generale sembrano vivere un'esistenza priva della guida di persone adulte. L'ambientazione malinconica e la fotografia fredda fanno da contorno alla vicenda di una sorta di maledizione che si trasmette attraverso i rapporti sessuali e che si manifesta sotto forma di un essere con sembianze umane, variabili anche da un istante all'altro, che segue senza sosta, con lo scopo di trucidare, il malcapitato cui è stata "passata" la soprannaturale condanna.
Fuori di facile metafora sui costumi sessuali dei giovani moderni, il film tieni incollati sul divano a chiappe strette, i giovani interpreti sono ben calati nella parte e la regia trasmette magnificamente non solo paura e disagio connessa alla trama, ma anche la deriva del gruppo di ragazzi, presi probabilmente ad esempio di un'intera generazione.

lunedì 14 agosto 2017

Little Steven, Soulfire


Sliding doors. E se Little Steven non avesse frequentato Bruce Springsteen, conducendo la propria carriera affrancato dall'ingombrante sodale, come sarebbe cambiata la sua storia, a fronte dell'enorme talento che madre natura gli ha regalato?
Beninteso, per me, anche rispettando il corso reale della storia, il suo lavoro è comunque a livelli d'eccellenza: cinque album fino al 1999 all'insegna di un percorso musicale continuo, mai stagnante, e un songwriting sontuoso, che avercene oggigiorno in giro.
Il debutto Men without women è del 1982: nello stesso anno in cui Bruce si rinchiude tra le quattro mura introspettive di Nebraska, Steve se ne esce con un'apoteosi rock and soul, nel quale ogni pezzo è da celebrare.
Nel lustro 1984/89 il nostro è incendiato da un vigoroso impegno politico, che si traduce in un trittico di dischi dai titoli inequivocabili (Voice of America; Freedom, No comprimise e Revolution), oltre ad un progetto contro l'apartheid in Sud Africa, nei quali si scaglia contro le nefandezze del proprio paese, sia in ambito interno che, soprattutto, estero (leggi America Latina), attraverso un sound che spazia dal rock più muscolare al reggae, dal mainstream rock al funk elettronico, cogliendo anche un discreto successo con un pezzo, Bitter fruit, eseguito insieme a Ruben Blades, che si può derubricare sotto la voce pop-salsa. 
Poi si ferma, Miami Steve, per una decina d'anni, e nel 1999 ritorna con Born again savage, dieci composizioni sature di (hard) rock settantiano, ultimo capitolo della sua discografia prima del ricongiungimento con Springsteen, che continua ancora oggi, solido e redditizio, in ciò che rimane della storica E Street Band.

Fin qui, brevemente, la storia del personaggio, rispetto alla quale ci sarebbe molto altro da aggiungere (un capitolo a sé meriterebbe infatti la carriera da attore), ma è bene arrivare al punto del post.
Little Steven torna, nel 2017, con un album che è la summa di tutta la sua vita artistica, un album che recupera autentiche gemme, regalate in passato ai vecchi amici Southside Johnny e Gary U.S. Bonds, in coabitazione con cover illustri e pezzi nuovi, all'insegna, al tempo stesso, di uno stile ormai consolidato e di un altrettanto acquisita imprevedibilità artistica.
Infatti, se l'inedita Soulfire, title track posta in apertura, è un gran pezzo classic rock, ruvido ed elegante, con una struttura vintage e un tiro potente, e i recuperi di Coming back (brano soul irresistibile, donato a Southside Johnny per Better days, disco strepitoso, tra gli imperdibili degli anni novanta) o I don't want to go home (altro regalo all'amico Southside, stavolta per l'album di debutto del 1976) stanno all'interno della comfort zone del chitarrista, con la torrida esecuzione di Blues is my business (standard noto per l'interpretazione che ne fece Etta James), in pieno stile Steve Ray Vaughan, così come con l'inedita ballata doo-wop/rock and roll The city weeps tonight o il raffinato esercizio di blaxpotation Down and out in New York city, siamo invece trasportati in ben altri suggestivi scenari, grazie alla magia di questo eclettico personaggio, eterno innamorato della musica.
Che dire poi di un rhythm and blues come Love on the wrong side of the town, che solo dei pazzi (o delle persone disinteressatamente generose) come lo stesso Steve e Bruce, possono decidere di non tenere per sé, ma regalare al fratello di vita Southside Johnny?
 
Non credo serva aggiungere altro: Soulfire è il disco emozionale di questo 2017.

mercoledì 9 agosto 2017

Sausage party


Se in passato qualcuno si era chiesto cosa mai combinassero i giocattoli lontani dagli occhi degli esseri umani, perchè non porsi la stessa domanda per tutti gli altri oggetti inanimati, a partire dal cibo? La risposta del regista Conrad Vernon e degli sceneggiatori (Seth Rogen tra gli altri) è un pò diversa da quella illustrata dalla Disney/Pixar: essi infatti scopano, parlano sboccato e credono in un falso dio, rappresentato dall'uomo.
Al centro della narrazione un gruppo di salsicce, imbustate per essere vendute in occasione della festa americana per eccellenza, il 4 luglio, che anelano di accoppiarsi voluttuosamente con del pane per hot dog (femmina) che giace sugli scaffali di un grande supermercato accanto a loro.
Essere acquistati dall'uomo è la massima aspirazione della loro vita, uscire dal supermercato nelle buste degli uomini, il raggiungimento del Nirvana. Questo fino a quando la salsiccia Frank (doppiato da Seth Rogen) non apprende l'orrenda verità e, insieme ad un gruppo improbabile di compagni di viaggio, inseguiti da una malvagia lavanda vaginale con tanto di applicatore fallico esterno, cerca di avvertire tutti i prodotti del negozio del tragico destino che li attende.

Film rigorosamente per adulti, Sausage Party gioca con il politicamente scorretto come da tradizione di Rogen e soci (non so quanti film potrebbero permettersi di mostrare una gioiosa sodomia tra un arabo,impersonato da una piada lavash halal doppiata da David Krumholtz, e un ebreo, un bagel con la voce di Edwad Norton), ma non tutto funziona alla perfezione. 
Okay la metafora dell'uomo rinchiuso nel recinto di una vita consumistica falsa e puerile, ma lo sviluppo sostenuto molto, troppo, su volgarità a ruota libera, forse alla fine non regge un film dal quale mi aspettavo un pò di più. 
Comunque da vedere (in lingua originale, che ve lo dico a fare), non fosse altro per la spettacolare ed epocale orgia finale.

lunedì 7 agosto 2017

Agosto, blog mio non ti riconosco


Il blog non è chiuso per ferie. Lo dico a beneficio di quei tre-quattro amici che ancora lo leggono. Diciamo che nonostante il caldo opprimente di questi giorni e il periodo vacanziero, il team di scrittori di Bottle of Smoke (nell'ordine: me, myself and I), oltre a litigare col pc di casa che è probabilmente arrivato a fine corsa, è stato impegnato in vicende sindacali che hanno anche avuto il loro carico di esposizione mediatica, con tanto di ricorrenti polemiche sul diritto di sciopero/diritto alla mobilità. Non ci voglio entrare in questa sede, mi limiterò a scrivere che in Italia i Governi, da tempo, hanno smesso di occuparsi di Lavoro e forse è quasi meglio così, perchè purtroppo quando si ricordano di farlo, beh producono solo danni. C'è la convinzione che non risolvere i problemi porti alla loro soluzione, come se una sana dormita, citando Jannacci, faccia guarire anche dalle peggiori malattie. 
Beh, guarda un pò. Non è così. E a volte la situazione deflagra.

In ambito svago sto rallentando con le serie e sto riscoprendo il cinema (in qualche modo potete notarlo dagli ultimi e dai prossimi post). Musicalmente vivo alti e bassi d'umore tra Joy Division, Chaka Khan, The Heavy, Guns 'n' Roses e l'ultimo, davvero superlativo, Little Steven, oltre naturalmente ad altra roba che elencherò, appena riesco, nella mia consueta lista mensile. In ambito letteratura ho da poco finito la trilogia della pianura di Kent Haruf, la cosa migliore che ho avuto la fortuna di leggere da molti anni a questa parte. Non ringrazierò mai a sufficienza l'amica Lisa per il regalo.

P.S. L'ultima recensione musicale è del 26 giugno. A occhio e croce non ho mai fatto passare un così ampio orizzonte temporale tra un post musicale e un altro...