giovedì 28 dicembre 2017

Warrior Soul, Back on the lash


Nella storia della musica rock ci sono state e sempre ci saranno band che, pur avendo tutti i numeri per raggiungere la piena affermazione di critica e pubblico: sound, testi, personalità, immagine, restano ai margini della grande popolarità. Per come la vedo io, i Warrior Soul sono una delle grandi icone di questa ingiustizia. Certo, non aiuta il livello di competizione con il quale si è trovato a misurarsi il gruppo, se pensiamo che tra il 1991 e il 1992, anni di uscita dei due capolavori dei WS (Drugs, God and the new republic e Salutations from the ghetto nation) il rock sfornava alcune tra le più importanti pietre miliari degli ultimi trent'anni: l'esordio di Pearl Jam e Rage Against The Machine, Nevermind dei Nirvana, Blood Sugar Sex Magic  dei RHCP e Vulgar display of power dei Pantera, giusto per citare i primi che mi sovvengono. E i Warrior Soul, che non erano inquadrabili nè nel pompatissimo filone grunge, nè nell'agonizzante (ma si sarebbe ripreso) bacino metal, dovevano masticare pane duro.
Una discriminazione dalla quale non si sarebbero più ripresi: se all'apice della loro ispirazione, con le canzoni anarcoidi, punk, indipendenti, orgogliose e bellissime contenute nei due album sopra citati (e aggiungo in Chill Pill e in The space age playboys del 1993 e 1994) non si sono smossi i riscontri auspicabili, era difficile ipotizzare successivi exploit.
Per questa ragione ogni volta che Kory Clarke, singer, frontman e leader indiscusso della band, riesce nell'impresa di incidere un nuovo lavoro, il voto di partenza è, a prescindere, un 7.
Lo premetto perchè in questo Back on the lash sarebbe più facile avanzare critiche che lodi: il suono è diventato più semplice e diretto e di conseguenza spersonalizzato, si sono perse quelle atmosfere dilatate tendenti al psichedelico che facevano da congruo contraltare alle mazzate in faccia dei pezzi più tirati, in alcuni passaggi si odono addirittura echi di AC/DC (la title track e Black out), ma, davvero, chi se ne sbatte, certe volte per come la vedo io bisogna azzerare la parte critico-razionale e limitarsi a muovere il culo a tempo di rock 'n' roll. E questo disco il fondoschiena lo fa muovere in maniera spontanea, con l'aggiunta di testi che menano fendenti all'atrofizzata società americana, nel nome di un'anarchia comportamentale che, vista l'età di Kory, sarà anche affievolita, ma che va sempre bene. La breve ma incisiva opener (American idol) , la trascinantissima I get fucked up e via via fino alla conclusiva That's how we roll ci consegnano un'opera breve (poco più di mezzora di musica) ma tostissima e una band che non vuole saperne di rassegnarsi al fato avverso.

lunedì 25 dicembre 2017

Babbo Bastardo 2 (2016)


Il film di Natale per chi vive le feste ma non sopporta le tonnellate di melassa, consumismo  e ipocrisia dell'evento, non può che essere ancora una volta Babbo bastardo. Ovviamente il volume  due.
Billy Bob Thornton torna nei panni del disadattato, sbandato e alcolizzato Willie Soke, che quel poco che non ottiene rubando e fregando il prossimo, se lo guadagna vestendo i panni di Santa Claus nei periodi natalizi.
Lo avevamo lasciato in fin di vita, crivellato di colpi dai poliziotti, per una crudele ironia, proprio quando stava compiendo l'unica buona azione della sua vita: consegnare un pupazzo ad un bambino (Thurman, interpretato da Brett Kelly) un pò tonto, e lo ritroviamo che, all'apice della disperazione, tenta di impiccarsi nella sua pulciosa abitazione.
Ancora una volta arriva Thurman che, senza nemmeno accorgersi della gravità della situazione, lo salva. Non è l'unico personaggio del primo film a tornare, anche il nano Marcus (Tony Cox) si ripresenta per proporgli una truffa, e, nonostante la diffidenza sviluppatasi tra i due (niente di che, Marcus aveva tentato di ucciderlo), il piano si mette in moto. Le cose si complicano quando Willie scopre che la mente del piano è nientedimeno che la madre degenerata (Kathy Bates) che l'aveva partorito tredicenne in un contesto di miseria e povertà, segnando irrimediabilmente la sua vita.

Non fosse anche a sto giro per l'anima candida di Thurman, che riesce ad attraversare incontaminata le peggiori situazioni di perdizione, Babbo Bastardo 2 sarebbe un bombardamento al napalm non solo sul Natale, ma su tutto quello che rappresenta la società borghese americana e l'istituzione stessa della famiglia. Il canone della commedia e del paradosso non riesce fino in fondo a mettere in secondo piano la malinconia e la disperazione delle vite messe in scena attraverso iperbole narrative da Mark Waters (regia) e Shauna Cross (soggetto e sceneggiatura). Il film ha un linguaggio volgare veramente ai limiti (basta ascoltare come Sunny/Kathy Bates ricorda il concepimento di Willie) e scene di sesso, benchè parodistiche, diffuse e continue. Diversi gli highlights: intanto, finalmente qualcuno che dice a Christina Hendricks (Diane, moglie del pollo da rapinare) quello che tutti da sempre abbiamo in mente: "hai delle tette veramente enormi!" (Willie in un impeto di romanticismo) e poi i dialoghi tra Willie e la madre, lo stesso Willie che viene "rianimato" in ospedale dalla Hendricks con una terapia a base di hand job, gli odiati incontri coi bambini che chiedono regali.
Insomma, se volete far sloggiare da casa vostra parenti antipatici e magari pure un pò bacchettoni, mettete su Babbo bastardo 2. Il risultato è garantito.

E buon Natale a tutti da Bottle of Smoke.

giovedì 21 dicembre 2017

The Waterboys, Out of all this blue


Che bello non avere più niente da dimostrare a nessuno, e dopo aver riaccarezzato il suono che ti ha reso uno dei riferimenti del folk rock moderno (con Modern blues, di due anni fa), infischiarsene della critica e realizzare nientedimeno che un doppio CD  (disponibile anche in versione tripla) di ventitrè tracce, musicalmente orientato ad un pop colto, raffinato ed elegante.
Si dice che Mike Scott stia attraversando una fase estremamente felice della sua vita personale, che sia innamorato (e che l'amata sia di origini giapponesi, come si evince dal breve skit al termine di Didn't we walk on water e dal titolo della traccia numero diciannove: Rokudenashiko, oltre che da altri riferimenti a luoghi del Giappone), in armonia col mondo, prolifico come non mai, etc. etc. .
Viene da crederci, perchè i pezzi contenuti in questo Out of all this blue (titolo più programmatico che mai) , a partire dall'opener Do we choose who we love, sono la migliore cartina tornasole possibile, così fitti di cori, controcanti, tastiere vintage e dotati di una modalità espressiva di Mike al tempo stesso classica e innovativa.
Ovvio che dentro un'opera molto vasta, che contiene così tanta roba e le influenze più diverse, sia inevitabile assistere a cali di tensione, ma per quello che mi riguarda due terzi abbondanti delle composizioni presenti sono da celebrare con assoluto favore e reverenza. 
Oltre alla già segnalata traccia d'apertura, pezzi come If I was your boyfriend, la divertentissima If the answer is yeah, The Connemara fox, ma in generale tutta la prima parte dell'album, fanno sembrare semplice l'esercizio più difficile di tutti: la ricerca di una melodia catchy che non sia scontata e banale. Tolto qualche filler (Girl in kayak; Skyclad lad; Rokudenashiko), anche il secondo CD si mantiene su livelli più che buoni, con l'impennata di una Nashville, Tennesse, che rimette in pista il sound dei "vecchi" Waterboys e una Didn't we walk on water, che soffia via la polvere dal sound degli Style Council.

Out of all this blue ha ottenuto in rete più stroncature che elogi, probabilmente sono io ad essere sordo, perchè penso invece che con il quattordicesimo lavoro di Scott (tra band e uscite soliste), ci troviamo di fronte ad un'opera che delinea la sua meravigliosa dimensione proprio nell'essere fuori dalla canonica tazza di tè del suo autore. Un disco insomma imprevedibile, spiazzante e personalissimo: più dalle parti di Dan Auerbach che da quelle dei Chieftains.

lunedì 18 dicembre 2017

La notte del giudizio (2013)

Risultati immagini per la notte del giudizio locandina

In un distopico futuro prossimo (2022), negli Stati Uniti i tassi di criminalità, così come il numero di omicidi, sono ai minimi storici. Di pari passo, aumenta la percezione di sicurezza, con effetti positivi anche sull'occupazione. Come si è giunti a questo risultato? E' semplice, i Nuovi Padri Fondatori dello Stato permettono che un giorno all'anno, per la durata di dodici ore (dalle 19:00 alle 07:00), la popolazione sia sostanzialmente libera di mettere in pratica qualunque atto di violenza, omicidio compreso, contro chiunque (fatto salvo politici e forze dell'ordine), senza doverne rispondere alla legge. Durante questo orizzonte temporale non viene concessa assistenza medica, che viene ripristinata, assieme alle normali regole civili, solo al termine delle dodici ore. 
Il risultato è che le persone più abbienti sono (relativamente) al sicuro dentro strutture fortificate, mentre le classi meno abbienti, gli homeless, i disadattati sono alla mercè degli assassini. 
La famiglia Sandin, composta dal padre James (Ethan Hawke), dalla madre Mary (Lena Headey, la Cersei de Il trono di spade) e due figli, fa parte della upper class, e come tale alle 19:00 in punto si sigilla nella casa-fortezza, ma l'iniziativa del figlio più piccolo, che mosso a compassione permette ad un poveraccio braccato di entrare tra le mura domestiche, metterà a rischio non solo l'incolumità fisica della famiglia, ma anche la solidità dei suoi valori morali.

Che James DeMonaco, regista e sceneggiatore  di questo La notte del giudizio (in originale il molto più sintetico ed efficace The purge), abbia mandato a memoria il lavoro di John Carpenter risulta chiaro ed evidente anche ad un marziano. I temi dell'assedio e della differenza di classe nella società americana sono troppo evidenti e rumorosi per passare inosservati. Però l'idea alla base del film è di quelle che lasciano il segno. Una provocazione intelligente e non così lontana dalla realtà come sarebbe lecito pensare, basta ascoltare le convincenti motivazioni riportate ossessivamente dai media dentro al film e i ragionamenti degli stessi protagonisti, mixarli con la deriva reazionaria innestata da Trump (anche se il film esce nel 2013, in piena presidenza Obama) e lo scenario improvvisamente si avvicina.
Il film diverte e induce a pensare, questo penso sia il suo più grosso pregio, in quanto a tensione e scarejump invece si difende, ma senza eccellere in maniera particolare rispetto alla media del genere. 
La notte del giudizio ha già avuto due sequel, sempre girati da DeMonaco: Anarchia del 2014 e Election year del 2016. E' in lavorazione una quarta pellicola, stavolta un prequel (The island), che dovrebbe uscire nel 2018. 

giovedì 14 dicembre 2017

John Mellencamp, Sad clowns & hillbillies



Con la paziente metodicità che lo contraddistingue in questa parte della carriera, a tre anni dal precedente Plain spoken  (e a quarantuno dal debutto Chestnut street incident), John Mellencamp rilascia il suo ventitreesimo lavoro di studio.

E Sad clowns and hillbillies è un disco particolare, un grande fiume placido alimentato da tanti affluenti diversi, con canzoni che riemergono da cassetti dove erano state riposte da tempo (Sugar hill mountain, scritta per la colonna sonora del film Ithaca - diretto da Meg Ryan, ex del Coguaro - ; What kind of man I am e You are blind - rispettivamente di Kris Kristofferson e Ryan Bingham - già contenute nel soundtrack del musical Ghost brothers of darkland country; All night talk radio, outtakes di Mr Happy go luck del 1996), collaborazioni low profile, come quella con la country singer Carlene Carter (figlia di prime nozze di June Carter e quindi discendente della gloriosa Carter Family) della quale Mellencamp si deve essere artisticamente innamorato, visto che l'ha voluta ad aprire tutte le date del tour precedente e che duetta con lui su ben cinque tracce delle tredici previste; contributi inaspettati, come per Grandview, pezzo del repertorio del cugino di John, artista minore di una band dell'Indiana.

Detta così l'album potrebbe apparire come una scatola contenente tessere di diversi puzzle che non hanno possibilità di armonizzarsi. In realtà il risultato finale è un'opera 100% mellencampiana, che musicalmente riserva è vero, poche novità, ma che nasconde dietro il suo andamento pigro tipicamente del sud americano, una grande anima sociale e introspettiva, cifra autoriale consolidata dell’artista.
Come un vecchio ma affascinate pick-up diesel, il disco parte in maniera lenta, quasi svogliata, ma, raggiunto il numero giusto di giri, tiene la strada che è una meraviglia mettendo il passeggero nella condizione più agevole per intraprendere un viaggio suggestivo e affascinate che raggiunge luoghi malinconici (Mobile blue; Battle of angels), concede accelerate da vecchio Coguaro (All night talk radio e Grandview, featuring Martina Mc Bride), scorci per innamorati (Indigo sunset), soste dai sapori speziati nella migliore tradizione old time dixieland (Sugar Hills mountains e Sad clowns), e un finale che è un autentico colpo di coda, grazie al dittico composto da una poesia di Woodie Guthrie, messa in musica su espressa richiesta della figlia del più importante degli hillbillies, che diventa un magnifico spiritual (My soul’s got wings) e una Easy target, forse il mio pezzo preferito, in cui John incontra le atmosfere del Tom Waits periodo Blue Valentine.

Ad ascoltare quanta passione per la musica tradizionale americana Mellencamp riesca ancora a mettere nelle sue opere (questa è sicuramente da annoverare tra le migliori degli ultimi tre lustri), aumenta in maniera esponenziale l’amarezza per l’amore mai sbocciato tra il rocker dell’Indiana e l’Italia, certificato purtroppo dall'esito zoppicante dell'unico, attesissimo concerto in quel di Vigevano  (che comunque si è meritato una doppia recensione, qui e qui).  Se il messaggio è: fatevi abbastare i miei dischi, con lavori della qualità di Sad clowns & hillbillies ce la possiamo anche fare.

lunedì 11 dicembre 2017

Sette note in nero (1977)



Nella sua lunghissima carriera artistica, che, limitandosi al lavoro da regista, l’ha visto esordire nel 1959 con Totò e Fred Buscaglione (I ladri) per poi girare ogni tipo di genere cinematografico (dai musicarelli alle commedie ai film con Franco e Ciccio, ai western ai thriler alla fantascienza all’horror), Lucio Fulci è stato costantemente inviso alla critica italiana, anche quando quella internazionale (Francia e USA su tutti) al contrario lo osannava (soprattutto in tema di horror) per il suo stile, la sua messa in scena e le sue trovate innovative, che assumevano un valore ancora più elevato se si pensa che venivano realizzate con budget ridicoli.
Il tempo, una volta tanto è stato galantuomo, se oggi il regista è stato completamente rivalutato ed è diventato oggetto di culto di tanti appassionati cinefili italiani (che magari si sono convertiti anche grazie a registi come Raimi o Tarantino che non hanno mai nascosto la loro adorazione per il cineasta romano), ma quarantanni fa una delle poche eccezioni alla regola degli strali del giornalismo italiano fu Sette note in nero, uscito nel 1977, che riuscì nell'impresa di coniugare un buon successo di critica e di pubblico.
Rivedendolo, se ne colgono al volo le motivazioni trattandosi di un film teso, serrato, nel quale suspance, paure ancestrali e inconscio si prendono il proscenio lasciando al sangue un ruolo marginalissimo in quanto totalmente superfluo alla narrazione.

Virginia (una meravigliosa Jennifer O’Neil), che ha subito un trauma infantile avendo avuto una visione che anticipava il suicidio della madre, da adulta comincia ad avere nuove visioni, nelle quali assiste a flash che le mostrano una donna colpita a morte che viene murata ancora agonizzante. Virginia, che è assistita da un psicoterapeuta, attraverso improvvisi flash comincia a scoprire sempre più particolari della scena, individuando in un casale di campagna abbandonato, di proprietà del neo marito (Gianni Garko) la stanza dove avviene il delitto delle sue premonizioni e scoprendo anche che, nel punto preciso da lei “visto” è murato lo scheletro di quella che si scoprirà essere una giovane donna. Ma non è quello il delitto che la O’Neil vede chiaramente nelle sue visioni…

Fulci riesce a mettere in scena una storia che si sviluppa a spirale, trasmettendo angoscia e tensione, in bilico tra stilemi narrativi cari a Poe e dinamiche che richiamano Hitchcock, potendo contare nella colonna sonora di un main theme che segue gli stilemi del periodo (L’esorcista di Mike Olfield, Suspiria dei Goblin) in maniera spaventosamente efficace (per la cronaca le note del tema che prende il titolo dal film, composte da Frizzi, Bixio e Tempera, sono riprese da Tarantino in Kill Bill nella sequenza in cui la Thurman si sveglia dal coma e aggredisce l’infermiere stupratore). 
Insomma, Sette note in nero si merita l'appellativo di classico (magari minore) della filmografia thriller italiana, che mantiene, a quarant'anni di distanza dalla sua uscita, tutto il suo impatto sullo spettatore.

giovedì 7 dicembre 2017

Massimo Carlotto, Il fuggiasco


Massimo Carlotto, padovano, classe 1956, rappresenta forse il più clamoroso caso giudiziario della storia italiana. Figlio di una famiglia benestante, militante di Lotta Continua, nemmeno ventenne scopre il delitto di una ragazza sua vicina di casa per il quale verrà poi accusato.
Da qui comincia un incredibile vicenda che durerà diciassette anni, alimentati da paradossali e kafkiane contorsioni del sistema giudiziario italiano. Parte di questi anni saranno vissuti da Carlotto in clandestinità, prima in Francia e poi in Messico.
Il fuggiasco racconta quel periodo straziante della vita del suo autore, soffermandosi sulle preziose amicizie con gli altri esuli, sui subdoli approfittatori, sulle modalità che il protagonista si impone per diventare sfocato, fuori campo, nell'immagine complessiva della metropoli scelta per sfuggire al carcere.
Lasciano particolarmente il segno le strategie messe in atto per mimetizzarsi in maniera più efficace nella folla, i personaggi interpretati minuziosamente, nemmeno Massimo fosse un attore che si debba calare nella parte del sofisticato Bernard piuttosto che dell'intellettuale Gustave o del turistello Lucien, oppure i movimenti logistici accuratamente selezionati per evitare quanto più possibile i controlli delle forze dell'ordine.
Il periodo messicano è quello probabilmente più buio e disperato, non solo per il tradimento che Carlotto subisce a Città del Messico, ma anche per la descrizione di un non luogo in cui la persona comune può smettere di esistere da un momento all'altro (vittima della violenza di strada o delle autorità locali), nella disperazione della propria famiglia, ma nella totale rassegnazione e indifferenza generale.
Il racconto è lucido e accurato, c'è spazio per lo sfinimento psicofisico, ma anche per l'amore sconfinato e disinteressato di famiglia e amici, e anche per un pò di ironia.
Carlotto fotografa quegli anni senza soffermarsi sulla causa all'origine della latitanza (il delitto del 1976), la vicenda è riportata, per titoli, nell'appendice del romanzo. Per approfondirla in maniera più dettagliata è consigliabile una ricerca in rete.
Il fuggiasco rappresenta l'inizio di un'ottima carriera letteraria del suo autore, che si afferma negli anni come uno dei migliori scrittori noir italiani, offrendo al cinema più di un soggetto da trasportare sul grande schermo, proprio a partire da questo libro, che nel 2003 diventa un film dal titolo omonimo.

lunedì 4 dicembre 2017

Machete (2010)


Sarà stato anche un divertissement, ma intanto Machete ha la responsabilità di aver scritto il manifesto elettorale di Trump, almeno per quanto concerne il tema dell'immigrazione messicana. Il subdolo e disonesto politico McLaughlin (Robert De Niro) infatti, promette ai suoi elettori la costruzione di un muro (elettrificato) che divida i confini USA da quelli messicani, e che le spese per erigerlo saranno fatte far pagare al Messico. Si scoprirà poi che la cosa è orchestrata assieme a Torrez (Steven Seagal), il signore della droga d'oltreconfine, al quale il provvedimento serve per una questione di strategia commerciale dello spaccio. Chissà se tra i tanti guai che sta passando Trump, Robert Rodriguez (regista del film), avrà anticipato anche questo?

Machete (Danny Trejio) è il soprannome di Cortez, probabilmente l'unico federales onesto di tutto il Messico, al quale, per essersi messo contro Torrez, vengono uccisi moglie e figlia, in una sequenza iniziale che dà subito il tiro del film: Machete libera una ragazza rapita, trovandola completamente nuda. La ragazza in realtà è in combutta con Torrez e dopo aver ferito Machete (che era entrato nell'avamposto nemico con l'arma all'origine del suo soprannome, mozzando teste e arti come se non ci fosse un domani), estrae un telefonino dalla vagina e chiama gli sgherri del suo capo. 
Anni dopo, Machete, devastato dal dolore per la perdita della famiglia, vive alla giornata con lavori saltuari finchè non viene coinvolto suo malgrado in un complotto ordito dallo staff del senatore razzista McLaughin. Lo sviluppo della macchinazione gli concederà la possibilità di vendicarsi di Torrez, grazie all'aiuto dell'agente della migra Rivera (una poco credibile Jessica Alba) e di Luz (Michelle Rodriguez), una combattente messicana in incognito.
Il finale realizza il sogno che coltivo da una vita, ogni volta che sento parlare i politici delle varie Leghe, Fratellanze d'Italia e Forze Nuove assortite: tutti i lavoratori stranieri (in questo caso messicani) utilizzati in America: giardinieri, edili, lavapiatti, stradali, si coalizzano per abbattere il braccio armato anti-immigrazione guidato dal reazionario Von Jackson (Don Johnson) attraverso la sua milizia di redneck armata fino ai denti. La sequenza con il corteo composto dalle classiche macchine taroccate in stile messicano (Ellroy le chiamava "tacomobile"), con colori fiammeggianti e sospensioni assurde, che, come una parata militare, si avvicina al luogo dello scontro, è qualcosa di memorabile.

Rodriguez con Machete si gioca bene la carta dell'ironia e del'autoironia rispetto alla miriade di luoghi comuni non solo americani contro i messicani in America, ma anche all'interno stesso della comunità (cosa magari meno facile). Il cast è superlativo (oltre agli attori già citati sono presenti Jeff Fahey, Cheech Marin e Lindsay Lohan nel ruolo di un dissoluto troione per il quale immagino debba aver fatto fatica ad immedesimarsi), la regia da B movie impeccabile, la monoespressività di Danny Trejo epocale, i livelli di splatter coerenti con il mood del film. 
Insomma divertimento garantito.

giovedì 30 novembre 2017

Roberto Curti, Italia odia - Il cinema poliziesco italiano



Se si parla di cinema italiano di genere, il poliziottesco riveste senza dubbio un ruolo di primo piano. Da suo assiduo conoscitore, Roberto Curti nel 2006 gli dedica un intero volume di quasi quattrocento pagine nel quale accende un riflettore su tutti i film che hanno celebrato questo filone, dalla golden age (1972-1977) alla fase discendente (1978-1981), allargando l'analisi con un doveroso sguardo ai precursori del genere, le cui tracce partono già dagli anni trenta, fino ai suoi eredi imbastarditi passati  in televisione.
Curti compie un lavoro certosino ma mai agiografico, traspare l'amore per queste pellicole ma la giusta distanza critica non viene mai meno e si apprezza particolarmente la visione d'insieme rispetto ai cambiamenti della società italiana (eravamo nei meravigliosi/terribili settanta) ripresi dalle pellicole che spesso erano veri e propri instant movie.
Ogni aspetto caratteristico dei poliziotteschi è sviscerato, dai suoi protagonisti seriali (Merli, Adorf, Merenda, Lovelock, Silva, Saxon, Testi etc.), alle dinamiche narrative, al ricorso ad una violenza sadica e ignorante, alla povertà delle produzioni, spesso assemblate e girate in pochissimi giorni ricorrendo anche al saccheggio del "girato" di altri film, fino alle accuse di posizioni reazionarie di quelle pellicole.
Curti porta alla luce un mondo incredibile e variegato, composto da artisti dotati, rivalutati solo dopo svariati lustri, e onesti artigiani, cani maledetti, produttori appassionati e scaltri squattrinati i cui lavori finivano spesso in scalcinate sale di seconda, terza, quarta visione che alimentavano però un'industria, quella del cinema italiano, dove oggi quasi nessuno osa più investire fuori dalla comfort zone del binomio commedia/dramma. 

lunedì 27 novembre 2017

Quel maledetto treno blindato (1978)


C'è poco da fare, se ancora oggi ci si ricorda de Quel maledetto treno blindato di Enzo G. Castellari è solo ed esclusivamente per merito del solito Tarantino, che ne ha parlato in termini di ispirazione all'uscita del suo Bastardi senza gloria. In realtà, come avvenne per Django, il tributo si limita sostanzialmente al titolo delle pellicole, aiuta infatti ricordare come il film italiano, all'epoca, fu distribuito all'estero con il titolo di The inglorius bastards, come quello girato trent'anni dopo da Quentin.
Per il resto le due trame differiscono completamente, con quella del film di Castellari, ambientata nelle Ardenne nel 1944, che vede un gruppo di soldati americani, accusati di vari crimini (ammutinamento, furti, insubordinazione), essere condotti alla fucilazione. Durante la tradotta però i cinque riescono a fuggire. Inizialmente cercano di disperdersi, ma poi, per una serie di circostanze anche casuali, benchè identificati, vengono arruolati per una missione suicida: distruggere un treno nazista che contiene un prototipo di terribile arma che condizionerebbe l'andamento del conflitto a favore dei tedeschi.
Fatta la doverosa tara con le modalità di recitazione dell'epoca, quando andare sopra le righe per caratterizzare i personaggi era la norma, o con i budget risicati concessi alle produzioni nostrane (è quasi commovente la realizzazione delle esplosioni fatta con i modellini Lima dei treni), sarei ipocrita se sostenessi che il film non è divertente. A darmi sui nervi è piuttosto la gestione della questione razziale, con il personaggio bianco di Tony (Peter Hooten), che per tutto il film insulta per il colore della pelle il nero Fred (l'icona dei B movie americani Fred Williamson) e alla fine, invece di restarci secco, è l'unico a salvarsi e a realizzare una love story con la bella francesina di turno. 
Nel cast da segnalare la presenza dell'attore di origini svedesi, ma americano d'adozione, Bo Svenson, anche lui una lunga militanza nei film di genere, premiata da Tarantino con un paio di camei in Kill Bill 2 e, appunto, Bastardi senza gloria.

Si trova facilmente su youtube un bel documentario (I tarantiniani) sui protagonisti del cinema di genere italiano. Alcuni di loro, tra i quali proprio Castellari, spiegano il metodo infallibile che veniva utilizzato per testare l'efficacia di un titolo di una pellicola. Se una volta pronunciato il titolo il commento spontaneo era "mecojoni!" il titolo funzionava, se invece la reazione era un convinto "e sticazzi?" non sarebbe andato bene. E' lo stesso Castellari, con una buona dose di autoironia a fare l'esempio del suo film rispetto a quello americano di Tarantino: Quel maledetto treno blindato? E sticazzi?!? Bastardi senza gloria? Mecojoni!!!
Anche questo era il cinema di genere italiano.

giovedì 23 novembre 2017

L.A. Guns, The missing peace


L'undicesimo lavoro di studio degli L.A. Guns può essere considerato a pieno titolo come un vero e proprio reunion album, visto che vede tornare sotto lo stesso tetto Tracii Guns, unico membro fondatore superstite, e Phil Lewis, il singer presente sul trittico d'esordio del gruppo, rilasciato nell'orizzonte temporale dal 1988 al 1991 (L.A. Guns, Cocked & loaded; Hollywood vampires) e unanimemente considerato l'apice creativo della band.
Nel tempo la diaspora tra i due aveva raggiunto livelli tali di conflittualità da generare (caso abbastanza unico nel music business) due distinte L.A. Guns che giravano in tour spacciandosi ciascuna per la formazione autentica. Considerato il moderato bacino di consensi del combo, mi sovviene un paragone con i partiti della sinistra italiana che, pur ridotti ai minimi termini, continuano a litigare e scindersi. 

Comunque. Rinvigorite da un nuovo contratto con l'italiana Frontiers Music e corroborate dall'ottima accoglienza dell'ultimo tour (gli amici che li hanno visti al Frontiers Festival a Trezzo li hanno eletti mvp delle due serate),  le Pistole tornano a tuonare come non gli accadeva da tempo. Lo stile è quello ormai consolidato: un robustissimo sleaze-metal anello di congiunzione tra Motley Crue e Guns 'n' Roses. A fare la differenza questa volta è probabilmente un'ispirazione non banale e una convinzione ritrovata, ben evidenziate da un disco che parte con il piede a martello sull'acceleratore e non si ferma (tradotto, non piazza un lento) fino alla traccia numero cinque.
La dimostrazione che si possa fare musica derivativa (anche di sè stessi), e restare credibili, è data da una manciata di brani che si elevano sopra la comunque notevole media, in particolare Speed, tributo-rimando ai Deep Purple e alla loro Highway star, il cui testo viene brevemente ripreso, lanciata da un incipit assolutamente prevedibile, quasi calligrafico nel suo svolgimento, ma lo stesso capace di regalare un calcio nel culo che ti alza un metro da terra. 
L'andamento della tracklist è da manuale, con un lento come Christine piazzato strategicamente al posto giusto e un'ultima parte di titoli che tiene alta la tensione, grazie  alle vigorose Don't bring a knife to a gunfight e The devil made me do it prima delle growin' ballads conclusive The missing peace e Gave it all away.

Sembra incredibile, ma ancora oggi, a oltre sei lustri dai fasti e dalle illusioni dell'Hollywood Boulevard, esiste ancora qualcuno di quei (ormai attempati) protagonisti che riesce a regalare ai fan dello street/sleaze un disco imperdibile, certificando che, se si perseguono obiettivi rispondenti alla propria storia, l'unione paga. 
Assioma che purtroppo la sinistra italiana non comprenderà mai.

lunedì 20 novembre 2017

The neon demon (2016)



The neon demon, undicesimo lungometraggio del regista danese Nicolas Winding Refn, racconterebbe della solita ragazzetta americana di periferia vestita con l'abitino della domenica, che si trasferisce nella più grande metropoli americana (L.A.) con il sogno di sfondare. A differenza però di altre storie con il medesimo incipit, Jesse (Elle Fanning, sì, sorella di Dakota) non è destinata al marciapiede per mano di un pappone senza scrupoli, ma, grazie ad una bellezza che si capisce essere magnetica e irresistibile (ben oltre i pur apprezzabili tratti somatici), entra subito nel giro che conta. Jesse attira chiunque con la forza di una potentissima calamita. In particolare le ruotano attorno un fotografo dilettante (Karl Glusman), classico bravo ragazzo, una truccatrice (Jena Malone) e due navigate modelle (Bella Heathcote e Abbey Lee) e, purtroppo per lei, il manager dello scalcinatissimo motel dove soggiorna (un Keanu Reeves mai così marcio e rivoltante). Chiaramente l'impatto della ragazzina (neanche maggiorenne) sul luccicante e spaventoso mondo della moda ha un effetto dirompente. Da una parte fotografi affermati in odore di santità credono di aver trovato la loro musa, dall'altra modelle disposte a qualunque sacrificio per sfilare sono divorate da un'invidia feroce e incontenibile. Jesse, inizialmente innocente e candida, poi sempre più consapevole del suo potere, risalta in quel mondo e nei bassifondi di L.A., come un cristallo di neve candida all'inferno, condividendone chiaramente le medesime possibilità di sopravvivenza.

Refn ha dichiarato che The neon demon è un film sulla bellezza, sul ruolo ancora determinante che essa assume nei rapporti sociali e su come condiziona ogni aspetto della vita di chi la possiede, così come, all'opposto, di chi è costretto a farne a meno. Poi il film è anche altro, la parte più in superficie getta un fascio di luce sulle agghiaccianti modalità di sopravvivenza (disordini alimentari, interventi di chirurgia estetica oltre ogni immaginazione, sfruttamento di minorenni, accantonamento per "vecchiaia" di modelle ventenni) di un mondo dell'alta moda che non cambia mai, mentre un pò più in profondità scava a fondo nell'animo umano, fino a raggiungere quei luoghi oscuri dove non c'è più traccia di umanità ma solo desiderio. Un desiderio così intenso, edonistico e bruciante da consumare l'anima e rendere legittimo ogni atto finalizzato al suo raggiungimento.
L'andamento del film è molto lento, la sensazione di tragedia incombente traspare da ogni sequenza, sin dalla bellissima inquadratura iniziale (quella della locandina), la fotografia è al tempo stesso fredda, minacciosa, ma anche pulitissima, le inquadrature ineccepibili nel trasmettere pericolo, ansia, paura. Più d'un critico ha avuto da dire (alla presentazione a Cannes il film è stato accolto anche da fischi e risate di scherno) per le sequenze finali che sconfinano nel genere gore, ma quelle sezioni del film sono l'unica chiosa possibile della storia, con le due modelle antagoniste di Jesse che vogliono avere ciò che di soprannaturale lei possiede (SPOILER ALERT) letteralmente divorando la ragazzina. A una di loro andrà bene, mentre l'altra, evidentemente indegna di ricevere un dono così grande, pagherà il giusto prezzo per le sue azioni. 

The neon demon è un film che, ne sono certo, fino a poco tempo fa mi sarei rifiutato di vedere. La spirale al tempo stesso lucida e allucinata che accompagna Jesse prima nella sua autodeterminazione e poi nella discesa agli inferi è di quelle che trasmette angoscia e disagio, imprimendosi a forza nella memoria. Esattamente il genere di feedback disturbante che di norma fatico a sostenere. Il fatto di aver superato le mie idiosincrasie, e di averlo fatto per un film che per certi versi è un'opera d'arte, mi riempie di un orgoglio un pò infantile ma non per questo meno soddisfacente.

giovedì 16 novembre 2017

The Smiths, The queen is dead (1986)


Al mondo di certo non serve una nuova recensione di The queen is dead, degli Smiths, ma insomma, chi se ne fotte, questo disco è tornato prepotentemente ad appassionarmi e una traccia la voglio comunque lasciare. 
Quello che da molti è riconosciuto come l'apice creativo del gruppo, nasce in una fase di particolare tensione tra i membri della band, per una volta non causati dai dissidi del duo cardine (Morrissey/Marr), autore della pressochè totalità dei pezzi, ma dagli altri componenti (Rourke e Joyce), che rivendicano maggiore centralità (e, va da sè, ricavi economici) dal progetto.
Non è dato sapere quanto questi conflitti interni si siano poi riverberati nei lavori di registrazione, la certezza è invece il risultato finale: epocale. Dieci pezzi (ai quali andrebbero aggiunti le hit single Panic e Ask, non comprese nella tracklist per la nota filosofia sessantiana del frontman) che suonano come un instant greatest hits e che lasceranno una traccia indelebile sulla storia della musica pop inglese (e non).
Al netto del fascino dei pezzi più noti (Frankly mr. Shankly, Bigmouth strikes again, The boy with the thorn in his side), dell'inedita complessità e lunghezza dell'opener (The queen is dead), dell'eterea leggerezza della coda dell'album (There is a light that never goes out; some girls are bigger than others), che si manifesta attraverso uno spettro sonoro a cerchi concentrici perpetui, ad affascinarmi sono sempre stati i due pezzi più introspettivi, piazzati uno di seguito all'altro, modellati sui temi più classici dell'amore e dell'abbandono, che intrecciano modernità delle liriche e classicità del pathos. Mi riferisco ovviamente a I know it's over e Never had no one ever

The queen is dead cattura la quintessenza degli Smiths attraverso il raggiungimento del massimo zenith compositivo di Morrissey e Marr che, proprio un attimo prima di dire basta (il successivo Strangeways, here we come, sarà l'ultimo capitolo della storia della band), forgiano la loro immortalità.


lunedì 13 novembre 2017

Mine (2016)


In premessa una filosofia che mi impongo come linea guida sulle produzioni italiane: tutti i film che, con coraggio, esulano dai "franchising" imperanti del cinema nostrano, vale a dire il genere commedia o le diverse riproposizioni de Il grande freddo, cercando una via alternativa, più internazionale, a questa arte, per me partono a prescindere da un voto medio-alto. 
Ne consegue che anche questo Mine, in realtà co-produzione Italia-USA-Spagna, affidato alla regia del duo di trentenni Fabio Guaglione e Fabio Resinaro, qui all'esordio sul lungometraggio grazie alla buona affermazione di tre "corti", gode di qualche metro in vantaggio rispetto alla linea di partenza del mio giudizio.

Siamo in uno scenario di guerra non precisato, probabilmente nordafricano, Mike Stevens (Armie Hammer) e Tom Madison (Tom Cullen) sono l'avamposto dell'esercito americano, inviato in missione per eliminare un terrorista che dovrebbe essere ucciso da Mike, cecchino provetto. La missione fallisce, e i due si trovano a fuggire dai nemici nel pieno del deserto, diretti verso un villaggio di berberi dove dovranno essere recuperati dalle forze USA.
Nella fuga finiscono su un campo minato, Tom viene dilaniato da una mina antiuomo, mentre Mike si accorge di averne innescata una giusto in tempo per evitare di alzare il piede e scatenare l'esplosione. Comincerà da quel momento, con il soldato bloccato sopra la mina, una lotta contro il tempo, la stanchezza, lo sfiancamento fisico, le avversità climatiche del deserto e l'ostilità della sua fauna, in attesa del rescue team.

Ho voluto premettere la mia favorevole predisposizione ai progetti italiani coraggiosi prima di addentrarmi nel giudizio del film, in quanto Mine non è certo un film privo di imperfezioni: ho trovato infatti non pienamente convincenti recitazioni, dialoghi e alcuni sviluppi della trama. D'altra parte però mi ha convinto per la fotografia, alcune intuizioni poetiche (come quella dei soldatini di plastica, soprattutto in virtù della sequenza finale), gli aspetti onirici e la ricostruzione di parte dei flashback. 
Un film insomma che vale la pena vedere e sostenere, anche solo idealmente, per provare a spingere la lenta e tortuosa rinascita del cinema di qualità italiano.

giovedì 9 novembre 2017

MFT, settembre/ottobre 2017

ASCOLTI

Bob Wayne, Bad hombre
Flogging Molly, Life is good
Avatarium, Hurricanes and halos
Steve Earle, So you wannabe an outlaw
Jay Jay Johanson, Best of
Arch Enemy, Will to power
The Dream Syndicate, How did I find myself here
The Sister of Mercy, First and last and always
Ringo Starr, Give more love
Revolution Saints, Light in the dark
The Waterboys, Out of all this blue
Natalia Lafourcade, Musas
Prophets of Rage, ST
John Mellencamp, Sad clowns and hillbillies
The Smiths, The queen is dead
Ray Charles, Modern sounds in country and western music, vol 1 e 2
Joy Division, Permanent
Hellbound Glory, Pinball
Turnpike Troubadours, A long way from your heart
Marilyn Manson, Heaven upside down
LA Guns, The missing peace
King's X, Best of
Paradise Lost, Medusa
Cheap Wine, Dreams

LETTURE

Roberto Curti, Italia odia: Il cinema poliziesco italiano

VISIONI

Film:

Moonrise kingdom
American ultra
Il caso spotlight
Suspiria
The prestige
I cavalieri dalle lunghe ombre
The grey
Grindhouse
Cani arrabbiati
The neon demon
Quel maledetto treno blindato
La calda notte dell'ispettore Tibbs
La mala ordina
Bastardi senza gloria
Banditi a Milano
Un dollaro d'onore
Distretto 13
Le streghe di Salem
Hot fuzz
Kill your friends
Barry Seal
Frenzy

Serie televisive:

The Walking dead, 8
Prison break, 5
The deuce, La via del porno






lunedì 6 novembre 2017

Banditi a Milano (1968)


Se la critica è unanimamente concorde nel riconoscere a La polizia ringrazia (1972) di Stefano Vanzina (che per questo unico film ha rinunciato al solito pseudonimo di Steno) il valore di big bang del cinema poliziesco italiano, lo stesso si può dire per quello che è da tutti considerato l'antesignano del genere: Banditi a Milano (1968) di Carlo Lizzani.
Il film è un perfetto esempio di instant movie, laddove i fatti narrati, le rapine della banda Cavallero a Milano, si erano svolti solo qualche mese prima (il 25 settembre 1967) dell'uscita della pellicola, con il processo a carico dei quattro rapinatori in pieno svolgimento quando il film raggiunge le sale.
Lizzani, un curriculum che come prassi dell'epoca abbracciava generi diversi, ma con un costante focus verso la storia passata e presente (Achtung! Banditi!; L'oro di Roma; Il processo di Verona; Svegliati e uccidi; Mussolini ultimo atto) gira un film che inizia come un documentario, con i primi dieci-quindici minuti iniziali presentati alla stregua di servizi di telegiornali dove, attraverso un'intervista ad un commissario di Polizia (interpretato da uno sbarbatissimo Tomas Milian) vengono spiegate diverse dinamiche criminali legate al mondo della mala: droga, prostituzione, pizzo e violenza in generale. Solo successivamente a questa premessa si passa alla vera e propria narrazione della storia,  che ruota attorno a questi tre insospettabili incensurati torinesi (Pietro Canestraro/Pietro Cavallero interpretato da Gian Maria Volontè; Sandro Giannantonio/Sandro Notarnicola da Don Backy; Bartolini/Rovoletto da Enzo Sancrotti) che si rendono responsabili di rapine in serie in Piemonte, Liguria e Lombardia con la tecnica della doppietta o tripletta (due-tre banche rapinate in rapida sequenza approfittando dello spiazzamento delle forze dell'ordine). A guidare la batteria il Canestraro ex attivista del P.C.I., che ha abbandonato il partito per scarso decisionismo, vive la criminalità come un equilibratore sociale imponendo la sua personalità strabordante agli altri attraverso una prosopopea altisonante, irriverente, un florilegio verbale continuo, provocazioni a raffica e pressioni psicologiche. In questo ruolo, ca va sans dir, Gian Maria Volontè giganteggia, catturando l'occhio della macchina da presa dalla prima all'ultima posa.
La rapina fatale dei tre (più un ragazzino appena reclutato con il ruolo di "palo") è quella del Banco di Napoli in via Zandonai a Milano, dove, per una casualità, la Polizia arriva prima dei tempi previsti costringendo i rapinatori ad una fuga disperata, a folle velocità per le vie cittadine, con il fuoco aperto anche sui passanti per tenere a distanza le pantere dei poliziotti. Resteranno a terra tre morti e una dozzina di feriti e il Rovoletto, autista dell'auto dei rapinatori, in fuga a piedi, sarà miracolosamente sottratto dal linciaggio della folla. Alla fine i tre saranno tutti catturati e condannati all'ergastolo.

Come premesso, Banditi a Milano è sì un film "sociale" che riprende non solo un clamoroso fatto di cronaca, ma anche la fotografia della società italiana, in un momento (la fine dei sessanta), nel quale si cominciava ad intravedere quella deriva violenta che sarebbe poi deflagrata nel decennio successivo. Oltre a questo, alcune sequenze della pellicola (le rapine, gli inseguimenti in macchina), indicano la via all'incombente filone del cinema poliziesco italiano, croce e delizia delle nostre produzioni di genere.

giovedì 2 novembre 2017

Flogging Molly, Life is good


I Flogging Molly non sono mai stati una band prolificissima: hanno sempre privilegiato l'attività live a quella di studio, ma, insomma, anche per i loro canoni, sei anni di distanza tra un album e l'altro non sono la prassi.
Tant'è. Con Speed of light del 2011 ci avevano lasciato con la sensazione agrodolce di una formazione che, forse per paura dell'invecchiamento e della perdita di terreno, aveva virato su un punk rock troppo derivativo, confinando il proprio sound solo a limitati episodi che, fortunatamente, erano riusciti a rassicurare sulla capacità dei Molly's di graffiare ancora.
Sei anni e centinaia di date all over the world dopo, il gruppo del roscio Dave King finalmente rilascia il successore di quel disco contraddittorio, spegnendo quasi completamente effetti e distorsioni chitarristiche e cercando di recuperare l'epicità della tradizione irlandese, basata molto su strumenti a corda e flauto, intrecciata al brand della casa, cioè la capacità di fare casino.
Il risultato è sicuramente apprezzabile, sebbene le composizioni soffrano di un'ispirazione altalenante, con l'effetto di avere una tracklist per metà più che soddisfacente e per l'altra di livello non eccelso.
Curiosamente, i pezzi migliori sono piazzati all'inizio e alla fine del lavoro, con un bel brano malinconico ad aprire il disco (There's nothing left, pt.1), l'immancabile, furioso, combat folk (The hand of John L. Sullivan) e un esotico mid-tempo impreziosito da una sezione fiati (Welcome to Adamstown), poi si tracheggia un po' (con l'eccezione della vivace ballata Life is good) e il livello torna ad alzarsi approssimandosi alla conclusione con il convincente trittico Crushed (Hostile nations), HopeThe bride wore black prima dell'elegante e leggero irish-country di Until we meet again.
Dopo le folgorazioni di Drunken lullabies (2002) e Float (2008) ancora luci e ombre per i Flogging Molly. Questa volta perlomeno, nel dubbio, la band ha azzeccato la scelta di rifugiarsi nella comfort zone della terra di smeraldo che l'ha musicalmente ispirata.

lunedì 30 ottobre 2017

Un dollaro d'onore (1959)


Un dollaro d'onore (Rio Bravo in originale, superato per una volta in efficacia dal titolo italiano) nasce come progetto dichiaratamente mainstream: è sviluppato cioè per riempire i cinema dell'epoca.
Nonostante ciò, il film racchiude in sè tanti elementi che lo elevano verso l'autorialità: aspetti tecnici ma anche storie personali dei singoli artisti coinvolti, oltre ad un'enorme eredità tematica.
Partiamo dal regista, il mitologico Howard Hawks, director fondamentale nella storia del cinema americano (e non), partito a girare con il muto nel 1926 e autore di innumerevoli capolavori che spaziano nei generi più disparati (a mero titolo esemplificativo: Scarface, L'idolo delle donne, Viva Villa!, Il mio corpo ti scalderà, Il grande sonno, Il fiume rosso, Gli uomini preferiscono le bionde) , ma che veniva da un fiasco clamoroso (La regina delle piramidi, 1955) per il quale si era imposto un periodo di auto esilio a Londra durato ben quattro anni.
Quando decide di rimettersi dietro alla macchina da presa sceglie il canone del western, un genere che, sembra incredibile a dirsi oggi, nel 1959 sembrava finito. Hawks invece riparte proprio da lì e dalla leggenda che da sola lo rappresenta: un John Wayne cinquantenne e non più scattante nel fisico, ma sempre di grande carisma, attorno al quale gira tutto il film.
Il film è pensato per il grande pubblico, come scritto in premessa, ma inizia con modalità che più d'autore non potrebbero essere. I primi cinque minuti si svolgono infatti in assenza assoluta di dialoghi. Un ottimo Dean Martin (Dude) entra nel saloon livido, con gli abiti lisi e in preda agli spasmi causati dalla crisi di astinenza all'alcol, a mendicare un goccio di torcibudella. Gli avventori lo deridono, e uno di essi, per spregio, gli getta un dollaro nella sudicia sputacchiera sul pavimento. Dude si getta senza indugio a recuperarlo ma qualcuno glielo impedisce, calciando via il vaso. A questo punto, con Martin inginocchiato a terra, l'inquadratura dal basso riprende John Wayne (lo sceriffo John T. Chance) in tutta la sua magnificenza, quasi fosse un dio, a sovrastare disgustato la miseria umana di Dude e dei miserabili avventori. La tensione di questa scena ancora oggi meravigliosa è tutta costruita esclusivamente su sguardi, fisicità, movimenti di macchina e musiche.
Addentrandoci nella trama, scopriamo poi che Dude era il vice di Chance, che, a causa di una delusione amorosa, è scivolato nella spirale dell'alcolismo, lontano da Rio Bravo. E' tornato, ancora segnato dalla dipendenza, proprio nel momento in cui nelle galere cittadine è custodito per omicidio, in attesa di essere prelevato dall'esercito, il fratello di Nathan Burnette, un ricco possedente del luogo, a capo di una gang violenta e senza scrupoli. I due, insieme al vecchio malconcio Stumpy (Walter Brennan, caratterista noto per l'interpretazione di questi ruoli) e al giovanissimo Colorado (il crooner Ricky Nelson, allora diciottenne idolo delle teen agers) subiranno un assedio da parte di Burnette e i suoi uomini, all'inizio più psicologico che reale, che deflagrerà (letteralmente) nel finale. Da segnalare anche la parte di una acerba, bellissima e sensuale Angie Dickinson, nel ruolo non banale di donna sola, ma forte e indipendente, ai cui piedi cadrà il burbero John Wayne.

Ma Un dollaro d'onore, oltre al suo valore oggettivo, è unanimemente considerato anche l'indiscusso capostipite di una dinamica narrativa, quella dell'assedio (a un palazzo, una casa, una città, un territorio), che ha generato un enorme sotto-filone indiscutibilmente guidato dal grande John Carpenter (da Distretto 13 in avanti). 

Come prassi consolidata, mi piace concludere la recensione con un riferimento musicale. Hawks infatti, potendo contare nel cast su crooner del livello di Martin e Nelson, decide di sfruttare a pieno le loro capacità. Anche in questo caso però la sequenza in cui si evidenziano le doti canore dei due non è buttata via, serve a congelare la narrazione e a cementare il cameratismo dei quattro eroi. Con Dean Martin a cantare alternandosi a Ricky Nelson, che suona anche la chitarra, e Brennan all'armonica (John Wayne si limita ad ascoltare compiaciuto) vengono eseguite My rifle my pony and me, classica lenta cowboy song e Cindy, un pezzo più ritmato afferente al country blugrass (qui il link della sequenza). 

Cinema d'altri tempi, che, nonostante i quasi sessantanni di invecchiamento, ad ogni visione restituisce intatta la sua magia.


giovedì 26 ottobre 2017

Bob Wayne, Bad hombre


Fidatevi di uno stupido, mai sottovalutare Bob Wayne. Se dopo l'ammorbidimento dei suoni di Back to the camper (digerito solo dopo svariate somministrazioni) e il passo, più spiazzante che falso, rappresentato dall'album di cover Hit the hits (senza considerare il divertissement natalizio che l'ha visto comporre un christmas album clandestino e folle, con i testi delle canzoni delle festività su melodie di notissimi pezzi hard rock), qualcuno poteva pensare che il gigantesco buzzurro dell'Alabama si fosse ammorbidito, beh, Bad hombre è la risposta più fragorosa e sferragliante che Wayne potesse presentare per smentire la tesi.

Ed è sufficiente buttare un occhio ai titoli delle composizioni per capire che la vena di irriducibile fuorilegge è tornata a gonfiarsi, quale preludio ad uno sfogo musicale liberatorio e senza freni.
Niente di strano quindi se i primi versi che ci accompagnano all'ascolto siano quelli quanto mai programmatici di Hell Yeah"Sono andato via di testa, ho schiantato il camion, ho fumato un po' troppa roba, cazzo, sì!" , che ristabiliscono la giusta distanza tra le liriche reazionarie e lo stile di vita dell'irsuto countryman americano.

Sia ben chiaro che personalmente non condivido nulla della filosofia di questi moderni outlaw, ai quali piacciono armi da fuoco, sballo, violenza e disordine sociale e che se potessero, vorrebbero indietro la confederazione degli stati del sud. Semplicemente il loro country sudicio e fuori dagli schemi è, per i miei parametri, il migliore in giro, e ogni volta non so resistere al suo richiamo. E' come ascoltare i Cannibal Corpse o divertirsi davanti ad un film con le gesta Michael Myers, senza per questo uscire di casa e sterminare persone a destra e a manca (sebbene ultimamente la tentazione sia forte).

Chiusa la breve divagazione si torna a discernere di Bad Hombre, che parte a razzo e, dopo Bandana, un duetto coadiuvato da voce femminile sul tema, tanto per cambiare, dell'omicidio, rilascia una bella doppietta in puro stile Hank III: Still truckin, che sembra una Wild & free parte due e il trascinate blugrass 420 bound. Immancabile anche il pezzo alla Johnny Cash (con un richiamo anche allo Springsteen intimista di Nebraska o Tom Joad), che affiora grazie ad Hangin' tree,  una outlaw song su di un colpo facile andato a puttane.
La chiosa dell'album è lasciata ad una canzone che è nata da diversi colloqui che Wayne ha avuto con reduci americani tornati psicologicamente a pezzi dai presidi militari in Iraq (80 miles to Baghdad) e da Working class musician, l'immancabile pezzo autobiografico che serve per affermare l'orgogliosa diversità di uno che "non ha nemmeno fissa dimora" per il quale la strada è letteralmente casa, visto che vive su di un camper ed è perennemente in tour ovunque nel globo.

Con Wake me up di Aloe Blacc, una delle mie pop song preferite, cover probabilmente rimasta fuori da Hit the hits, siamo ai saluti di un album in cui Bob Wayne torna a fare il Bob Wayne che abbiamo imparato a conoscere, e lo fa mantenendo la barra dritta, avvalendosi di un songwriting ispirato e privo di manicheismi, per un risultato finale assolutamente credibile nel perseverare la traiettoria poetica schizoide e disturbata del suo autore.

lunedì 23 ottobre 2017

Hot Fuzz (2007)



Era da tempo che, sulla scorta delle buone recensioni lette in giro, attendevo di vedere questo Hot fuzz. Mi è venuta imprevedibilmente in soccorso la biblioteca civica della mia città (guai a definirlo paese, che si offendono), dove, curiosando in modalità random, il titolo m'è quasi cascato addosso.
Dunque, siamo nel tempo presente, a Londra, dove Nicholas Angel (Simon Pegg) è un agente di polizia fanatico del dovere e del rispetto delle regole. Proprio per questa sua condizione di crociato delle legge, e nonostante gli ottimi risultati ottenuti in termini di arresti, viene promosso a sergente, ma contestualmente trasferito nella piccola cittadina di Sandford, nel Glocestershire. Angel è ovviamente restio ad accettare, ma alla fine è costretto ad obbedire al comando. A Sandford si trova davanti ad una situazione irreale: un paese da cartolina, cittadini formalmente gentilissimi, una stazione di polizia sui generis e una tendenza a minimizzare qualunque evento che esca dal contesto di armonia del posto. Ovviamente dietro questa apparenza idilliaca si nascondono segreti inenarrabili e atti raccapriccianti che solo Angel, coadiuvato dal maldestro partner Danny Butterman (Nick Frost), figlio del comandante in carica Frank (Jim Broadbent), può portare alla luce. Cominciando dall'indagare sulla figura sospetta di Simon Skinner (Timothy Dalton), proprietario del locale supermercato.
Sapevo che con Hot fuzz mi sarei trovato al cospetto di una produzione leggera, ma non avevo ben chiaro se si trattasse di una commedia demenziale o altro. Vedendolo mi è apparso subito chiaramente il profilo della pellicola: un omaggio divertente e divertito non solo a tanti polizieschi, ma anche ai classici dei filoni horror e noir, in particolar modo statunitensi. Wright, che ha scritto soggetto e sceneggiatura insieme allo stesso Pegg, azzecca i tempi comici in maniera impeccabile, gira una spanna sopra gli altri prodotti di genere (il montaggio della sequenza in cui si alterna la serata libera dei due poliziotti con l'uccisione del ricco uomo d'affari è uno spettacolo), troppo spesso "tirati via" e ci regala una serie infinita di citazioni anche esplicite. 
Hot fuzz riesce insomma ad essere divertente ma anche a coinvolgere nelle scene d'azione, al tempo stesso comiche e coinvolgenti. Le sequenze da citare sarebbero davvero infinite (la tizia in bicicletta che pedala mentre con entrambe le mani impugna le pistole per fare fuoco; l'omaggio al western con il tempo che si ferma  quando Angel torna nel villaggio armato fino ai denti sopra un cavallo bianco; il sospetto che dietro al complotto di Sandford ci possa essere una complicata architettura alla Chinatown di Polanski, smentito da una spiegazione completamente folle; alcuni inaspettati frammenti splatter) e non vorrei correre il rischio di spoilerare troppo a quanti non l'avessero visto.

Ben nascosti infine alcuni cameo d'eccezione, come Cate Blanchett, nella sequenza irresistibile del dialogo iniziale tra la sezione scientifica e lo stesso Angel, e quello, ancora più inverosimile, del regista Peter Jackson. Pollice alzato dunque per Hot fuzz e per Edgar Wright.  Che la ricerca per gli altri titoli del regista cominci!

giovedì 19 ottobre 2017

Avatarium, Hurricanes and halos



Il rock degli ultimi anni è stato caratterizzato dall'esplosione incontrollata di band con voci femminili. Mai in passato c'era stato un numero così elevato di gruppi con queste caratteristiche, tanto che, nelle nostre analisi, più di un dubbio si affaccia in merito alla spontaneità del trend, rispetto al sospetto di un filone creato ed alimentato indistintamente da major e indie in considerazione dell'evidente buona predisposizione del pubblico moderno. Dopo di che ce ne sbattiamo delle analisi e basiamo il nostro giudizio sul valore delle opere, che in definitiva dovrebbe essere sempre il parametro più importante.

Gli Avatarium sono una band svedese che nasce tra il 2012 e il 2013 su impulso del bassista dei Candlemass Leif Edling, che raduna attorno a sé, tra gli altri, il batterista dei Tiamat Lars Skold e soprattutto la cantante Jennie-Ann Smith (anche lei svedese, a dispetto del nome) proveniente da tutt'altro circuito (quello jazz), per un progetto che, visti i membri fondatori, dovrebbe essere orientato al doom/gothic-metal. Il combo incide due EP e due album tra il 2013 e il 2015 (confesso di non averli ascoltati, ma recupererò) riscontrando, soprattutto con The girl with the raven mask un buon interesse da parte di audience e media.

A maggio di quest'anno esce Hurricanes and halos, il terzo full lenght e, diversamente dall'idea che mi ero fatto, non ci troviamo al cospetto dei sotto-generi ereditati dalle esperienze precedenti dei due membri fondatori, ma piuttosto ad un un rock di derivazione settantiana con rimandi ai grandi nomi tutelari del periodo, alternati ad  atmosfere rarefatte e lisergiche, che sfruttano a dovere le tonalità blues-oriented della singer.

Proprio dal punto di vista del mood complessivo del lavoro sembra che gli Avatarium non vogliano dare punti di riferimento certi all'ascoltatore, che viene investito dalla bocca di fuoco delle prime due tracce (Into the fire - Into the storm e The starless sleep) per poi restare invischiato nella vischiosa tela di due pezzi dilatati ed evocativi come The road to Jerusalem e gli oltre nove minuti di Medusa,che, dal punto di vista stilistico, scioglie la tensione elettrica iniziale nella nenia infantile del ritornello e in una lunga, acida, coda strumentale che traghetta il pezzo alla conclusione.
La sostanza è che le otto composizioni (di cui una, la conclusiva title track, strumentale) del disco trasmettono calore e una modalità di comunicazione antica, analogica. Nei testi si respira una ricerca non banale di cifra poetica (The sky at the bottom of the sea, la splendida When breath turns to air, tra gli Zep e Janis Joplin), per un risultato finale che convince appieno. 

lunedì 16 ottobre 2017

The leftovers, stagioni 1,2,3


Il 14 ottobre 2011 centoquaranta milioni di persone in tutto il mondo (circa il 2% dell'intera popolazione del globo) spariscono dalla faccia della terra. Un attimo prima erano seduti davanti a te sulla carrozza di un treno, al tuo fianco al cinema, in fila per entrare allo stadio e l'attimo dopo sono dissolti nel nulla. La sparizione è molto democratica e colpisce in egual misura uomini e donne, vecchi e bambini, ricchi e poveri, sconosciuti e VIP.
Detta così potrebbe essere la trama di una produzione di fantascienza, e lo sarebbe, se nello sviluppo si concentrasse sulle ragioni delle sparizioni e magari su un gruppo di scienziati-eroi che sfidano il fato cercando la verità.
Invece la grandiosità di The Leftovers, serie recentemente conclusasi con la terza stagione, sta nel focalizzarsi sulle vite dei superstiti e soprattutto sulle conseguenze sulla società che, incapace di razionalizzare l'incredibile evento, sostanzialmente impazzisce, generando anticorpi tanto folli quanto, ahimè, credibili.
Vediamo così il proliferare di sette, veri o presunti santoni, chiese improvvisate, individui senza scrupoli che estorcono denaro ai superstiti, città elette a santuari, atti di violenza insieme a gesti di misericordia.

Seguiamo soprattutto il gruppo di protagonisti, interpretati da un cast non meno di eccezionale, capitanato da Justin Theroux, che interpreta Kevin Garvey, tormentatissimo chief della polizia di Malpeton, NY, dove la storia prende spunto. Attorno a lui la moglie Laurie (Amy Brenneman), ex terapista entrata in una delle sette più importanti del post 14 ottobre, i loro due figli Tom e Jill (Chris Zylka e Margaret Qualley), il padre Kevin Garvey sr (Scott Glenn) e, soprattutto, il reverendo Matt Jamison e la sorella Nora Durst (a cui l'evento ha strappato l'intera famiglia composta da marito e due figli), caratterizzati in maniera indimenticabile dagli attori Christopher Eccleston e Carrie Coon.

Impossibile sintetizzare la trama, soprattutto in una recensione che tratta la serie completa e non una singola stagione. Preferisco allora lasciare emergere sensazioni ed emozioni di un'opera che muove molto per simbolismi, che indaga attraverso fughe oniriche, che si avventura nei limbi post mortem, che prende la deriva del grottesco e che non teme di premere a fondo il pedale del depistaggio ai danni dello spettatore. Su tutto, una serie che a più riprese coinvolge fino alle lacrime e che mette in scena un gruppo di protagonisti totalmente disfunzionali (il termine anglosassone fucked up chiarisce bene il loro stato mentale) sul quale svetta una coppia, quella formata da Garvey jr/Durst, mai vista prima per intensità e tratti anticonvenzionali. Basterebbe dire come sia il desiderio di morte l'elemento emotivo unificante i diversi tratti caratteriali dei protagonisti, che supera ogni altro sentimento più nobile (amore, passione, unità familiare), e che viene individuato come unica soluzione ai laceranti dolori della perdita.

Una serie totalmente anomala e coraggiosa nelle soluzioni narrative e scenografiche, che mostra un mondo impazzito a causa dell'incapacità di trovare il bandolo della matassa di un evento così incredibile e tragico, elude la trappola di concludersi senza dare una spiegazione allo spettatore (eventualità che personalmente davo per certa), e la fornisce in maniera disarmante ma, anche qui, efficace, seppur forse un po' consolatoria.
The Leftovers è stata capace di trasmettere emozioni sconquassanti anche grazie ad una colonna sonora sostenuta da un main theme strumentale struggente, oltre che da una selezione di brani che hanno saputo spaziare in maniera schizofrenica dal pop al rock all'opera alla classica alle silly-songs, contribuendo allo straniamento complessivo del telespettatore.

Chiudo con la breve sintesi dell'episodio 05X03, che racchiude in sè la folle quintessenza della serie: un marinaio francese a bordo di un sottomarino nucleare di stanza nel pacifico si denuda completamente (nudo maschile frontale), comincia a correre in direzione camera (nudo maschile frontale in movimento), si barrica nella stanza dei bottoni e, con una ardita posizione del corpo, preme entrambi gli interruttori, scatenando l'esplosione nucleare delle testate a bordo. I nostri protagonisti, tra i quali Nora e il fratello, il reverendo Jamison, sono in volo per l'Australia, dove già si trova Garvey jr. A causa dell'esplosione nucleare, tutto il traffico aereo viene bloccato e l'unico modo di arrivare velocemente nella terra dei canguri è prendere una nave dalla Tasmania. La sola nave disponibile in breve tempo è stata però affittata per una festa privata da una setta di depravati che vuole usare la crociera per sfogare ogni tipo di istinto sessuale senza convenzione alcuna. Quando il prete Jamison chiede di poter salire, dopo una breve trattativa, viene posta una condizione: se racconterà la barzelletta più sporca che conosce, ed essa sarà apprezzata, potrà salpare insieme ai suoi amici. Questa la barzelletta del reverendo: "Qual è la differenza tra un brufulo e un prete? Il brufulo almeno aspetta che il ragazzo sia adolescente prima di venirgli in faccia". 

(Anche) Questo è stato The leftovers, una serie senza regole e senza competitors.