lunedì 30 dicembre 2019

Bruce Springsteen, Western stars



E' mia ferma convinzione che lo Springsteen degli ultimi scarsi quindici anni abbia musicalmente vivacchiato, con l'ispirazione che si accendeva ad intermittenza come una vecchia lampadina della cantina che per pigrizia non ti decidi a sostituire. 
Credo altresì che dischi davvero brutti non ne abbia mai fatti (se volete, qui trovate le recensioni di Magic; Working on a dream; Wrecking ball; High hopes), ma, dopo il riuscitissimo esperimento irish-folk di We shall overcome (forse il migliore Bruce degli anni zero assieme a The rising), l'impressione forte è sempre stata quella di album raccogliticci, senza un preciso filo conduttore, con pezzi più che dignitosi (qui ho provato a mettere insieme il meglio del periodo 2007-2014abbinati a tracce che in passato avrebbero rappresentato oneste B-sides.

Paradossalmente, il succitato periodo è stato anche quello più ingolfato di uscite, quattro in sette anni, come non accadeva dagli esordi dei settanta, senza contare le  riedizioni espanso-celebrative di Born to run, Darkness on the edge of town e The river, i tour con annesse copiose pubblicazioni di dischi dal vivo, l'autobiografia e un anno di repliche a Broadway del suo spettacolo più intimo. Insomma, l'uomo non è rimasto mai troppo fermo, eccezion fatta per la pubblicazione di inediti, rispetto ai quali Springsteen ha fatto passare cinque anni per decidersi a sfornare il successore di High hopes (2014).

Successore che s'intitola Western stars ed esce a metà giugno e, sì,  io ne sto parlando negli ultimissimi giorni dell'anno, oltre sei mesi dopo.
La ragione va oltre l'attenzione speciale che ancora oggi metto nel recensire i lavori di Bruce, ed attiene invece alla lenta sedimentazione dell'opera, partita piano, in maniera quasi respingente e poi letteralmente esplosa a livelli e frequenze d'ascolto mai più raggiunte dai tempi del tributo a Pete Seeger.

Si, perchè con questo disco improvvisamente Springsteen ritrova sè stesso, un credibile storytelling e quel fil rouge che lega assieme le composizioni, rappresentando l'unicità dell'opera-album, a differenza delle raccolte di pezzi coagulati artificialmente, senza la necessaria alchimia. 
Tornano le storie dello Springsteen che abbiamo imparato ad amare, i suoi personaggi, i meravigliosi losers impigliati nella fitta ragnatela che permette di intravvedere da lontano il Sogno Americano, ma che, è certo, impedisce ai più di toccarlo, di raggiungerlo (Drive fast (The stuntman); Hitch hiker; The wayfarer ).

Del mood musicale ne sono state scritte davvero di tutti i colori, a me sembra molto semplice, e cioè che Western stars sia essenzialmente costruito in buona parte sul classico ed inconfondibile folk springstiniano, con il valore aggiunto di qualche riuscito innesto di orchestrazioni più sinfoniche e "cinematiche" nelle quali rieccheggia Roy Orbison (There goes my miracle), e forse Marty Stuart, ed altre dove emerge il tipico timbro dell'ormai fido produttore Ron Aiello (Tucson train).

Di certo a me sembra che mai (negli ultimi anni) come in questo caso si torni ai massimi livelli in quanto a liriche, con capolavori nascosti come Stones, grandi pezzi come Hello sunshine (difficile non ritrovarci il rapporto con la sua depressione); Drive fast, Somewhere out of Nashville, che svettano dentro una media complessiva comunque d'eccellenza.
A tutto ciò si aggiunga l'incredibile maturazione raggiunta dalla voce di quest'uomo, elemento che molti danno per scontato ma che scontato non è, per capire che siamo davvero in presenza di un disco speciale.

Tutt'altro discorso è la parte definiamola commerciale dell'operazione nuovodiscodispringsteen, a partire dalla decisione, tristemente ricorrente, di ristampare il cd a pochi mesi dall'uscita, con la scusa dell'integrazione con un disco dal vivo (in questo caso soundtrack del film documentario) nel tentativo di "imporre" ai fans completisti il doppio acquisto.  Non esente da critiche anche il look posticcio di un "Boss" fotografato nel deserto, agghindato da cowboy in pose molto, troppo, perentorie, per finire con l'ennesima scelta poco convincente e a tratti inspiegabile dell'immagine per la copertina del disco. Quanto sarebbe stata più efficace, psichedelica e misteriosa la foto del sole che deforma i contorni dei joushua tree presente sulla quarta di copertina del booklet del cd (la posto qui sotto)? D'altro canto per quanto concerne questi aspetti (immagine e copertine dei dischi) davvero il buon Bruce non ne azzecca una da tempo immemore. 
Ce ne faremo una ragione, soprattutto in questo caso, si tratta di elementi del tutto marginali.

Ciò che davvero, davvero, conta è che Western stars rappresenta, finalmente, il gran bel disco che aspettavi da tempo. L'album del ritorno di un artista che quest'anno ha compiuto settanta anni e, se vogliamo essere onesti, non ci sono molti altri (quasi) coetanei, dall'inarrivabile Dylan a Neil Young, che a quest'età abbiano rilasciato dischi così intensi, credibili ed ispirati (forse giusto l'ultimo Bowie).

Insomma, credeteci o no, Springsteen nel 2019 ci ha regalato un album da ricordare.



lunedì 23 dicembre 2019

Who, The Who

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Ogni giorno il ventre gravido di quel che resta dell'industria musicale partorisce band che continuano a clonare Beatles, Black Sabbath, Stones o Led Zeppelin. Per qualche ragione non c'è traccia di giovani virgulti che si vogliano caricare sulle spalle il mito degli Who. Probabilmente perchè questa band è la meno incasellabile nell'ambito di quelle che hanno fatto la storia della nostra musica. Certo, alcuni elementi del suo brand sono immediatamente riconoscibili: i power chords, i tappeti di keyboards, gli irresistibili refrain. Tuttavia gli Who sono anche molto altro, ed è forse questa difficoltà ad allontanare ipotetici emuli.
Di certo la band non è mai stata prolifica, se le uscite totali contano dodici lavori, di cui dieci tra il 1965 e il 1981 e due negli ultimi trentotto anni.

Basterebbe questo a segnare con un cerchietto rosso sul calendario ogni release date, ma in realtà l'evento non è caratterizzato solo dall'uscita del disco ma dalla sua (sorprendente?) qualità.
Della formazione che conoscevamo sono rimasti i due leader storici, Townshend e Daltrey, giacchè il mitologico batterista Keith Moon ci lasciò nel lontano 1978 e il bassista John Entwistle nel più recente 2012, ma l'impatto che i due sanno ricreare riporta comunque l'orologio indietro nel tempo, e i sodali lo sanno, se è vero che l'opener All this music must fade è one hundred per cent Who, con le inconfondibili schitarrate di Pete e le sue implacabili lyrics nelle quali, il settantaquattrenne del Middlesex riesce ancora ad irradiare strafottenza come solo lui può fare ("I don't care / I know you're gonna hate this song").

Dal canto suo Roger Daltrey, che probabilmente dal vivo qualche difficoltà ha cominciato a palesarla, in studio fa ancora la sua porca figura, voce formidabile, classe e autorevolezza a vagonate.

Tornando alla tracklist, sorprendente è il taglio radicalmente politico di Ball and chain, classico blues in Who style, che punta il dito sulle fragorose ingiustizie dei prigionieri detenuti dagli americani a Guantanamo ("Still guilty with no charge", recita il testo). 
Seguono una coppia di grandi inediti che nascono con le stimmate del classicone, I don't wanna get wise e Detour.
Il disco poi cala forse un pò, ma contrariamente saremmo stati davanti ad un capolavoro fuori tempo massimo, con una prevalenza di midtempos dai quali comunque si fanno valere Break the news e la conclusiva (per l'edizione standard dell'album) She rocked my world.

Gli Who sono ancora tra noi. Unici e inimitati.

lunedì 16 dicembre 2019

Iggy Pop, Free

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Quando mi trovo davanti all'opera di un icona come Iggy Pop (mi rifiuto con sdegno di richiamare il suo curriculum) che rilascia un disco oscuro, crepuscolare, suggestivo come non mai, dove un sax o una tromba fragili e sofferti si dividono equamente i riflettori con la la voce segnata da mille battaglie del sacro Iguana, non posso che arrendermi già dopo pochi secondi di ascolto.

A tre anni dal successo di critica e pubblico (e non accadeva da tempo) di Post pop depression, album creato in coabitazione con Josh Homme, il settantaduenne nato James Newell Osterberg jr si concede un disco da lui stesso definito come "una riflessione sull'estenuante vita post tour" nel quale imbarca atmosfere che richiamano Nick Cave, Leonard Cohen, Johnny Cash (periodo Unearthed), ma anche suggestioni dell'amico di sempre David Bowie, in versione ultimi anni, sfornando un lavoro che è limitativo definire notturno. In realtà Free è la materia stessa di cui è composta la notte.

Dopo una manciata di pezzi (Loves missing; Sonali; James Bond) posti nella prima parte, che utilizzano una struttura canzone canonica, la tracklist si avventura in territori jazzati davvero più "free", nei quali trovano spazio prima brani sperimentali come Glow in the dark o Page ai quali seguono una composizione che Lou Reed scrisse nel 1970 (We are the people) e che Iggy non canta, ma declama, così come fa per la traccia successiva, Do not go gentle into that good night, da un testo di Dylan Thomas e per la conclusiva The dawn, straniante e suggestiva, che della traccia precedente appare come la naturale prosecuzione.

Poco più di mezzora di musica magnetica e ammaliante, che andrebbe rigorosamente sentita attraverso le cuffie, per non perdere nemmeno una nota o un passaggio, oppure, va da sè, in auto, quando fuori è calato il buio e il più rispettoso dei silenzi. 
Brividi.

giovedì 12 dicembre 2019

L'immortale

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SPOILERO, MA TANTO SAPETE GIA'

Bastano i primi minuti de L'immortale per cancellare in un attimo tutta la credibilità di un prodotto televisivo, stiamo parlando ovviamente di Gomorra, di cui il film è uno spin-off, faticosamente costruita e rivendicata dagli autori nel corso degli anni ("Ciro non può resuscitare perchè noi mostriamo la realtà, e nella realtà della camorra si muore") e tramutarla in un Dallas qualunque (la serie tv americana protagonista di un grottesco come back).
E comunque, se non bastasse doversi bere un sopravvissuto prima ad un colpo di pistola al cuore sparato con l'arma appoggiata al petto e poi ad una discreta permanenza sott'acqua, ci si deve sorbire quasi due ore di film imbarazzanti, quasi una parodia della serie madre.
Plot prevedibile dalla prima all'ultima sequenza, recitazioni al minimo sindacale (nel caso dei russi e dei lettoni anche sotto), regia (dello stesso D'amore) che scimmiotta, senza prenderlo quasi mai, lo stile di Sollima. 
Si salva giusto la fotografia, anche se i quartieri poveri della Napoli anni ottanta e la desolazione di Riga facilitano il lavoro.

Per un attimo ho davvero sperato che al termine del film ci rivelassero che si trattava solo di un sogno fatto da Cirù in punto di morte. 
E invece è tutto vero: L'immortale è il peggiore episodio di Gomorra mai trasmesso. 

P.S. Se, cercando questo film vi doveste imbattere nell'omonimo gangster movie francese del 2010, il mio consiglio è di non andare oltre e guardarvi quello, di ben altra pasta. 

lunedì 9 dicembre 2019

Cena con delitto - Knives out

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Una vecchia e nobile magione in periferia. L'anziano capofamiglia, scrittore di enorme successo, trovato sgozzato nel suo studio con modalità che fanno pensare al suicidio. Una famiglia allargata di viziati e sanguisughe della fortuna creata dal padre che viene interrogata dalla polizia e da un famoso detective privato.
Cena con delitto (banalissima traduzione dell'originale, centrato titolo, Knives out) riprende e aggiorna la classicissima tradizione del whodunit (chi l'ha fatto?) letterario e cinematografico, e lo fa con un cast strepitoso che comprende Cristopher Plummer (il morto, cioè Harlan Thrombey); Jamie Lee Curtis e Michael Shannon (i figli); Chris Evans (il nipote); Don Johnson (un genero), ma soprattutto la protagonista Ana De Armas (la giovane infermiera privata del vecchio, immigrata) e il fantastico Daniel Craig, l'investigatore privato, ingaggiato da uno dei componenti della famiglia.

Knives out, nonostante nei trailer si dia molto spazio al lato comico della pellicola, non è una parodia, piuttosto un riuscitissimo tributo al genere classico, che viene richiamato in continuazione e in ogni sua applicazione: dalla televisione che trasmette La signora in giallo, alle citazioni del gioco da tavolo Cluedo, ai meccanismi narrativi classici di Agatha Christie, fino ad una citazione apparentemente fuori luogo de Il trono di spade (una sedia con alle spalle dei coltelli ornamentali disposti a cerchio, come nel trono del famoso serial).
Il film funziona nelle sue parti leggere, nel meccanismo giallo (a metà sembra tutto perfettamente spiegato e invece...) e, ovviamente, nelle parti attoriali con i protagonisti che fanno a gara di bravura, senza disdegnare addirittura di avventurarsi nella critica alla politica anti immigrati di Trump, attraverso un dialogo dannatamente verosimile di una famiglia borghese americana che si divide tra radical chic e repubblicani.

Insomma, una bella e inaspettata sorpresa sotto l'albero di celluloide.

mercoledì 4 dicembre 2019

I migliori della vita: Francesco Guccini, Quello che non...(1990)

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So già cosa potrebbe pensare il fan medio di Francesco Guccini: "ma con tutti i capolavori incisi nei settanta, come può essere "migliore della vita" un disco onestissimo, ma non seminale, che salutava i novanta?"
E' molto semplice, cari amici. Provate voi a crescere, sin dalla tenera età di quattro-cinque anni con componenti della famiglia che fanno girare senza soluzione di continuità canzoni terribili su fatali incidenti in autostrada (Canzone per un'amica); macchinisti ferrovieri che si schiantano (La locomotiva, ca va sans dire), che descrivono interventi di aborto (Piccola storia ignobile), morti per parto (Venezia), o irradiano malinconie struggenti di vecchi soli (Il pensionato, Amerigo) ed appassionarvi a questo cantautore.
E allora Quello che non... arriva per me al momento giusto, all'età giusta, dopo un girovagare musicale vario (e in qualche caso avariato), grazie ad un impatto stilistico importante, pieno, lontano da quello scarno, folk, degli esordi e ricco di sonorità anche country rock, blues o cadenzate.
Quello che non... vive per me in particolare su due momenti scolpiti nella roccia del tempo, uno è rappresentato dalla prima canzone in scaletta, che riprende il titolo mentre l'altro è Canzone delle domande consuete.
Un passo indietro. Guccini arriva ad incidere questo disco a tre anni dall'ottimo (ma è difficile individuare un disco oggettivamente brutto, nella sua discografia) Signora Bovary (Scirocco è qualcosa di incantevole) ad aprire una decade (imprevedibilmente?) ricchissima di soddisfazioni, che regalerà al suo fedele pubblico una manciata di nuovi classiconi (Don Chisciotte; Canzone per Silvia; Cirano; Quattro stracci; Vorrei). 
La squadra di musicisti è quella storica (Tavolazzi; Bandini; Tempera; Biondini) che qui viene lasciata ulteriormente libera di spaziare (anche col tango, nel pezzo Tango per due) a tutto vantaggio della cifra stilistica e della godibilità complessiva dell'opera.
A livello compositivo da segnalare il ritorno della collaborazione con Lolli su Ballando con una sconosciuta e con Lucio Dalla, con il quale aveva scritto Emilia, inizialmente pubblicata sull'album Dalla/Morandi dell'88 e qui recuperata da Guccini.
Il disco si mantiene sul solito invidiabile livello compositivo, con alcuni picchi che ancora oggi danno i brividi. Mi riferisco, tornandoci su, alla title-track, cadenzata da un ritmo che ci porta dalle parti del west americano: armonica che soffia come il vento del deserto, chitarra leggera e batteria che non si risparmia, adagiate su un testo esistenziale che viaggia al tempo stesso leggero e profondissimo. 
Ma mi riferisco anche a Canzone delle domande consuete, che è l'ennesimo trattato sui rapporti uomo-donna e sulla vita di coppia, decantato al tempo stesso con realismo, poesia e senza infingimenti o ipocrisie. 
Ci sarebbero poi Cencio, che va ad aggiungersi alla folta schiera di personaggi creati dalla penna del Maestro e Le ragazze della notte, malinconica fotografia di una giovinezza squallidamente offerta ad un potere che, forse, è anche malaffare.
Insomma, l'ennesimo disco imperdibile di Guccini, con un quid in più, rappresentato da un valore sentimentale e "storiografico" che appartiene solo a me.

Senza considerare infine che, grazie a questo passepartout musicale, ho potuto andare a ritroso, superando i "traumi infantili" e riappropriandomi dell'opera omnia gucciniana, che ancora oggi è mia fedele e costante compagna nel faticoso viaggio della vita.

lunedì 25 novembre 2019

La banda di Eddie (Eddie and the Cruisers), 1983

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Ecco un film che non sono riuscito a vedere all'epoca della sua uscita e che volevo recuperare da tempo.
New Jersey, primi anni sessanta,  Eddie (Michael Parè) e la sua band, i Cruisers, riescono a costruirsi una buon seguito di fans grazie al loro rock-soul energico e trascinante. Quando al gruppo si unisce anche Frank (Tom Berenger), il complesso ha una svolta, i testi si fanno più articolati e poetici, e la musica fa altrettanto. Ma proprio nel momento della verità, con un nuovo album registrato, Eddie apparentemente muore (il corpo non si trova) in un incidente automobilistico e i nastri del disco scompaiono. Vent'anni dopo la giornalista di una testata televisiva vuole riaprire il caso, tentare di recuperare i nastri e provare a dimostrare che Eddie è ancora vivo.

La banda di Eddie, pur vivendo di una messa in scena irrimediabilmente anni ottanta e pertanto un pò datata, e pur non essendo un capolavoro, ha più di una freccia al proprio arco e "rischia" suo malgrado, col tempo, di assurgere a piccolo culto.
La storia, tratta da un romanzo dello scrittore P.F. Kluge, poggia sulle spalle del duo Tom Parè, al semi esordio, davvero perfetto nella parte della rockstar tormentata, e Tom Berenger. 
Musicalmente il suono dei brani è forgiato sul mood che ha reso celebri Springsteen e Bob Seger. Da rimarcare come John Cafferty, un onesto clone dei due artisti testè citati, autore ed interprete originale della colonna sonora, non volesse all'inizio "cedere" i suoi brani all'Eddie del film, salvo poi ricredersi, visto che il soundtrack di Eddie and the Cruisers è rimasto il suo unico e più grande successo.
Interessante anche riflettere su come, in qualche modo, la pellicola abbia anticipato la grande moda dei revival tour, soprattutto quelli nei quali, delle band che portano in giro la passata gloria, è rimasto magari un unico componente originale (qualche esempio? Dai Creedence ai Dire Straits, senza mai dimenticare la vergogna di questi Queen).

Il film ha avuto anche un seguito, fortemente voluto dal solo Parè, e girato senza alcun attore del cast originale, eccetto "il bassista" Matthew Laurance, che curioso a dirsi, anche nella storia del film è l'unico che porta avanti la band negli anni ottanta, dopo la morte di Eddie.

Da non sottovalutare.

lunedì 18 novembre 2019

Royal Republic, Club Majestic

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Dal 2010 ad oggi gli svedesi Royal Republic non sono certo rimasti fossilizzati a guardarsi l'ombelico mentre continuavano a macinare il loro alternative hard rock di buona fattura, ma inevitabilmente derivativo (Hives, Hellacopters). 
Hanno invece indossato giacche con paillettes e lustrini e, con questo ultimo Club Majesty, sono scesi in pista da ballo a proporre un tamarrissimo concentrato di disco-rock.
E' così, pochi cazzi. 
Ce lo chiariscono subito con la doppietta iniziale Fireman & dancer (qui il video) e Can't fight the disco.
C'è da dire che l'ibrido è riuscitissimo, la liason tra i power chords delle chitarre rocchettone coi ritmi da dance floor e la voce da crooner alla Tom Jones del singer Adam Grahn (Blunt force trauma) fanno faville per un kitsch voluto, perseverato e ottenuto dalla prima all'ultima nota.

Meno di trentacinque minuti di divertimento sfrenato da consumare col volume più alto consentito.



lunedì 11 novembre 2019

Little Steven, Summer of sorcery

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Una carriera musicale del tutto particolare, quella di Little Steven. Ogni springsteeniano che si rispetti conosce bene il ruolo cardine che Mr. Lento ha avuto nella forgiatura del maestoso ed epico suono della E Street Band, nonchè della sua tecnica, mai fine a sè stessa, come chitarrista.
La sua produzione personale è invece meno nota e molto discontinua (l'avevo brevemente riassunta qui), ma oggi, con la E Street a riposo, dopo aver interrotto una iato di oltre tre lustri ed essere tornato nel 2017 con l'eccellente Soulfire, ecco che il chitarrista/cantante/attore, rilascia un nuovo album: Summer of sorcery.

E se con Soulfire aveva riaffermato con autorevolezza le proprie radici musicali (soul, blues, rock), andando anche al recupero di alcune delle sue tante gemme distribuite nel tempo, con Summer of sorcery si spinge oltre, aprendo senza più limiti il proprio spettro musicale.
Con i sei minuti della prima traccia, Communion, l'accelerazione si avverte in maniera inequivocabile, attraverso un paio di cambi di tempo e di mood davvero spiazzanti, all'interno della stessa canzone.

Insomma, è un Little Steven che non pone vincoli alla propria ispirazione, quello alla plancia di comando, probabilmente consapevole del fatto che non è dalle vendite del disco che sfamerà la sua famiglia, non scende a compromessi commerciali e tira dritto per la sua strada, come dimostrato chiaramente in un pezzo dalle sonorità latine, inequivocabilmente chiamato Party mambo! .
Superato lo smarrimento iniziale, non si vuole più scendere da questa giostra, che regala soul d'autore quali Love again (che rieccheggia I don't want to go home) o Soul power twist, che si inchina per l'ennesima volta alla incommensurabile grandezza di Sam Cooke.
Ottimo anche il recupero di Education, un pezzo presente nel sottovalutato album di funk elettronico Revolution, del 1989.

Nell'ascoltare il disco non può che scattare immediato il collegamento con il recente film documentario Asbury Park - Lotta, Redenzione, Rock and Roll, rispetto alla cui produzione Miami Steve ha dato un importante contributo, nel quale emerge in maniera cristallina lo sconfinato amore per la musica di Bruce, Steve e il resto di quella generazione di giovani, che passavano intere giornate e nottate ad avvicendarsi sui palchi dei clubs suonando di tutto, in jam sessions che sembravano non finire mai.
Oltre cinquant'anni dopo, lo spirito di quei giorni è tutto in questo disco, non ho dubbi al riguardo, nel caso ne avessi sarebbero spazzati via dalla chiusura blues tiratissima di I visit the blues, e, soprattutto, negli otto minuti del pezzo più E Street Band degli ultimi venticinque anni, quel Summer of sorcery che chiude coi botti l'album.

Summer of sorcery è insomma una commovente espressione di amore sconfinato, trasversale ed inesauribile per la musica. E in pochi, oggi, hanno l'autorevolezza di farsene carico a pieno titolo come Little Steven.

giovedì 7 novembre 2019

MFT, settembre - ottobre 2019

ASCOLTI

Royal Republic, Royal majesty
Dinosaur Pile-Up, Celebrity mansions
Satan Takes A Holiday, A new sensation
DSA Commando, Le brigate della morte
Crazy Lixx, Forever wild
Elizabeth Colour Wheel, Pink Palm
Bruce Springsteen, Western stars
Volbeat, Rewind, replay, rebound
Randy Rogers Band, Hellbent
Waterboys, Where the action is
Eagles of Death Metal, Presents boots electric performing the best songs we never wrote
Little Steven and the Disceples of soul, Summer of sorcery
L.A. Guns, The devil you know
Airbourne, Boneshaker
Alter Bridge, Walk the sky
Angel Olsen, All mirrors
Wilco, Ode to joy
Cody Jinks, After the fire
Crashdiet, Rust
Darkthrone, Old star
Dirty Honey, st (EP)
Iggy Pop, Free
Imsomnium, Heart like a grave
Mark Lanegan Band, Somebody's knocking
Matt Woods, Natural disaster
Mayhem, Daemon
Michael Kwanuka, st
Michael Monroe, One man gang
Nick Cave and the Bad Seeds, Ghosteen
Nile, Vile nilotic rites
North Mississippi Allstars, Up and rolling
AA.VV., Once upon a time in Hollywood (Soundtrack)
Phil Campbell, Old lions still roar
Sentenced, Down
Slash 'n' Snakepit, It's five 'o clock somewhere
Steel Panther, Heavy metal rules
Sturgill Simpson, Sound and fury
Tom Keifer, Rise
Van Morrison, Three chords and the truth


VISIONI

Quando alice ruppe lo specchio (3/5)
Un gatto nel cervello (2/5)
11.6 The french job (3/5)
Halloween - The beginning (3,5/5)
Indagine ad alto rischio (1,5/5)
Piccolo Cesare (4/5)
Il cecchino (3/5)
Venere in pelliccia (Polanski) (4/5)
Incontrerai l'uomo dei tuoi sogni (3/5)
C'era una volta a Hollywood (4/5)
Green book (4/5)
Game night (2/5)
Sonatine (4/5)
The raid (4/5)
Dark City (3/5)
La befana vien di notte (2/5)
Il trucido e lo sbirro (3/5)
Rambo, Last blood (3/5)
Modalità aereo (0,5/5)
The disaster artist (3,5/5)
La terza madre (2/5)
Sotto shock (3/5)
Moglie e marito (2/5)
Joker (4/5)
La paranza dei bambini (3,5/5)
Vendetta dal futuro (2,5/5)
Dogman (4/5)
Trafficanti (3/5)
Lords of chaos (3,5/5)
The Predator (3/5)
Notti magiche (3/5)
L'odore della notte (4/5)

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Visioni Seriali

Sneaky Pete
City on the hill
Fleabag 1,2
1994
Rocco Schiavone 3
Goliath 1

LETTURE

Roberto Costantini, Tu sei il male
Graham Greene, L'americano tranquillo

lunedì 4 novembre 2019

Volbeat con Baroness e Danko Jones, Milano, 14 ottobre 2019

Ultimamente ogni concerto a cui assisto (sempre pochissimi, per la verità) in posizione eretta finisce per lasciarmi con la schiena a pezzi e la medesima considerazione: "sono troppo vecchio per queste cose".
Salvo poi, il giorno seguente, riprendere a sbavare come un adolescente davanti alla pagina dei tour aperta sul pc. 

Questa volta, assieme agli amici coetanei (chi più chi meno...) Filippo e Alessandro, si converge al Fabrique di Milano per la seconda visione degli amati Volbeat, sei anni dopo l'esaltante prima al Live Club di Trezzo (qui e qui).

Ormai ho recepito che l'orario di inizio delle gig spacca il secondo e quindi arrivo qualche minuto prima delle sette, giusto in tempo per Danko Jones, che attacca preciso preciso.
Il senso della sua esibizione è racchiuso già nei primi secondi di I gotta rock, estratta dal nuovo Rock supreme: sudore, anthem rock e coinvolgimento del pubblico.
Nonostante un'inquietante somiglianza col comico Cacioppo, il nostro Danko è la perfetta quintessenza del frontman rock, teatrale e ammiccante come da copione, con in più dalla sua una buona dose di simpatia che non non fa mai male.
Purtroppo ha a disposizione solo mezzora, nella quale la band comprime sette pezzi, con le stagionate First date, Had enough e la più recente Little rock and roll sugli scudi.



Pausa per il cambio di palco e per rintracciare i sodali, giusto due chiacchere di rispettivo aggiornamento e si parte con la seconda esibizione, ancora una volta in perfetto orario.

I Baroness, stilisticamente parlando, in una serata da rock ipercalorico un tanto al chilo, rappresentano un pò gli intrusi della serata.
Infatti la band di Savannah, Georgia, si discosta totalmente sia dalla proposta degli opener che da quella degli headliner, con una proposta di alternative metal costruita su lunghe parti strumentali, poche concessioni al singalong e una tecnica individuale decisamente superiore.
Anche dal punto di vista dell'outfit, i Baroness manifestano tutta la loro differenza dalle regole del tipico intrattenitore metal, con il solo leader John Baizley (costantemente impegnato in un rapporto onanistico con la pedaliera), agghindato in stile punk/metal (concordo con l'amico Filo che ha individuato una forte somiglianza con Nick Olivieri), mentre il resto dei presenti sul palco, compresa la bella e brava chitarrista Gina Gleason, avrebbero potuto benissimo essere scambiati per studenti del college impegnati in un saggio di musica.



Non tragga in inganno questa mia descrizione, l'ora di concerto concessa ai quattro musicisti è stata coinvolgente e suggestiva, solo, per quanto mi concerne, con una modalità di partecipazione più  estatica che sguaiata.
Una quindicina di pezzi per loro, dalla quale estraggo le mie favorite Throw me an anchor, Shock me, Take my bones away, tutte concentrate nella parte finale del set.

Tra tanti dubbi, qualche luce e più d'una ombra in ambito di nuova release è il momento dei Volbeat, che, dopo la canonica intro dei Motorhead (Born to raise hell) e la nuova intro di Nick Cave (Red right hand) raggiungono le proprie posizioni sullo stage.
Si inizia male, con un pezzo debole e di certo non in possesso del tiro necessario per aprire un concerto dei Volbeat, vale a dire The everlasting, tratto, ovviamente, dall'ultima fatica Rewind, Replay, Rebound.
Poi ci si risolleva un pò (Pelvis on fire, Doc Holliday, Lola Montez, Sad man's tongue) , pur tuttavia senza che il modo di stare sul palco di Poulsen riesca ad accendermi, troppo troppo "da compitino": freddo, distaccato e privo di entusiasmo. Lo stesso Caggiano, quasi completamente immobile, è difficile da ricondurre alle origini, che erano quelle dei palchi incendiati dal thrash-metal con i mitologici Anthrax, sebbene del periodo anni zero.

Con Danko Jones su Black rose

Ovviamente è un problema solo mio, che ricordo ben altro rapporto col pubblico nel concerto di sei anni fa, perchè invece i convenuti non si fanno menate e sembrano divertirsi.
Il meglio, ca va sans dire, arriva in coda, con alcuni pezzi finalmente incendiari che, nonostante il mal di schiena, mi spingo anche ad accompagnare con qualche timido e sgraziato saltello (Seal the deal, The devil's bleeding crown; Pool of booze, Die to live, Still counting).

Con uno spaesato figlio di Caggiano

I Volbeat mi lasciano insomma una sgradevole sensazione di esibizione formale, priva di autentici picchi di entusiasmo o di quel coinvolgimento emotivo (anche il sing-along di Ring of fire ad introdurre Sad man's tongue mi è apparso quasi dovuto, controvoglia) attraverso il quale i bravi performer riescono a fare credere al pubblico di ogni location di aver costruito con loro un rapporto unico, irripetibile e privilegiato.

Saluti e baci

Resta il piacere sempre autentico di aver rivisto gli amici Filo e, più fugacemente, Ale, coi quali ci si incontrerà sicuramente al prossimo concerto (ma non dei Volbeat), perchè, passato il mal di schiena, è un attimo ricominciare a credersi sedicenne.

lunedì 28 ottobre 2019

Lords of Chaos (2018)


Immagine

Oslo, seconda metà degli ottanta, un gruppo di ragazzi cerca il proprio posto nel mondo attraverso l'ascolto massivo di musica metal estrema e, soprattutto, attraverso un atteggiamento oppositivo caratterizzato da una professione di satanismo intrecciata a filosofie naturaliste e dottrine pagane.
Capitanati dal più intraprendente di loro, tale Øystein Aarsethaka Euronymous, i ragazzi cominciano ad improvvisare la loro musica attraverso una band chiamata Mayhem, e quando trovano il cantante giusto nello svedese Per Yngve Ohlin, detto Dead, sembra che tutto cominci a girare nel verso giusto. Peccato che Dead, vittima di abusi da bambino, soffra di una gravissima forma di depressione che lo conduce inevitabilmente al suicidio.
Ma i Mayhem, che hanno costruito un'immagine di satanisti e di cultori della morte, non possono certo fermarsi di fronte a questa tragedia, anzi in qualche modo ne traggono vantaggio, mettendo sulla copertina di un loro album le foto di Dead con il cranio aperto dopo la fucilata che l'ha ucciso e alimentando voci di cannibalismo post mortem.
All'allegra combriccola, che nel frattempo ha aperto l'Helvet, un negozio di dischi "a tema", che funziona da ritrovo per tutti i blacksters locali, si unisce Kristian Vikernes, un ragazzino goffo e introverso che da tempo ronzava attorno alla band, ma che dalla quale era stato in precedenza allontanato a causa dei suoi gusti musicali, pur sempre metal, ma troppo morbidi.
L'insediamento di Kristian porterà ad un "livello superiore" i comportamenti anti-sociali/satanici/criminali del gruppo, forzando azioni concrete in luogo di quella che era solo un'immagine pubblica del gruppo, fino alle conseguenze più tragiche e drammatiche.

Questo film meriterebbe due recensioni distinte. Una per il valore in sè della pellicola. Un'altra per la sua verosomiglianza coi fatti trattati, i famigerati crimini commessi dal cosiddetto black circle norvegese, nei primi anni novanta. Da questo punto di vista la pellicola è stata stroncata pressochè unanimemente dai die hard fan del black metal, d'altro canto anche il libro da cui è tratto, scritto da Moynihan e Didrik Søderlind, non fu esente da critiche. 

Ma dicevamo del film.

La scelta di storytelling del regista Akerlund premia il personaggio di Aarseth/Euronymous (interpretato in maniera convincente da Rory Culkin, fratello del noto Macaulay di Mamma, ho perso l'aereo, e per uno strano cortocircuito, somigliante in modo impressionante a Fenriz dei Darkthrone), dipingendolo come un bravo guaglione che usa in maniera innocua e al solo fine di un sano spirito di ribellione giovanile, coniugato con la volontà di provocare ed ottenere visibilità per i Mayhem e per la sua carriera di discografico, gli elementi esoterici, l'anti clericalismo o il satanismo, ma che non torce un capello a nessuno, nemmeno agli animali che invece il sodale Dead uccide appena ne ha occasione.
La macchina da presa sta quindi molto addosso a questo character, non lesinando primi piani che Culkin gestisce con molta espressività.

Il doppelganger cinematografico di Euronymous è Kristian (Emory Cohen), aka Varg, aka Burzum, aka Count Grishnack, che, a differenza di Aarseth, si intuisce essere caratterialmente complicato, represso ed insicuro, ma al tempo stesso senza remore morali ne scrupolo alcuno.
Varg appare come un perfetto personaggio di un film dei fratelli Coen, caratterizzato cioè da quel mix di stupidità, goffaggine e crudeltà, tipico dei characters che abbiamo imparato ad amare con Fargo (film e serie), Blood simple o Ladykillers.
Ad ogni modo il rapporto tra i due è esplorato in maniera abbastanza chiara. Euronymous è refrattario alla catena di crimini commessi e fomentati da Varg, ma non può sottrarsi al contesto macabro che lui stesso ha creato, pena la perdita di "reputazione" e l'estromissione dal circolo.

Attorno a loro ruotano altri personaggi, il più importante dei quali è senza dubbio Dead,interpretato da Jack Kilmer (figlio di Val), che si lega profondamente con Euronymous, il cui ricordo continua a tormentare Aarseth attraverso incubi e visioni.
Diverso lo spazio dato a Faust (batterista degli Emperor), il quale emerge dal gruppo solo quando uccide un uomo che tenta di adescarlo, mentre del tutto estranei ai crimini sono Necrobutcher e Hellhammer, rispettivamente bassista e batterista di quella formazione dei Mayhem.

Il film, inteso come opera di finzione, funziona bene, con una buona la messa in scena ed un ritmo coinvolgente, di certo aiuta il background del regista che aveva fatto parte per un breve periodo della formazione dei Bathory, altro gruppo seminale di metal estremo che, a detta di molti, è il vero progenitore del black.
La prima parte di Lord of Chaos cerca di spiegare, sebbene in maniera sintetica, lo spirito di questo sottogenere musicale, e, anche nel proseguo, ad un occhio esperto i riferimenti "storici" sono davvero molti, dal mitologico mercato clandestino dei tape traders, all'odio per qualunque altro genere metal (persino i fondamentali Morbid Angel, in quanto death, sono definiti posers), passando per l'ammirazione per i Venom, e via discorrendo.

Il crescendo degli avvenimenti, dal rancore covato dai due protagonisti, alla volontà di rivaleggiare con i crimini commessi dagli altri membri del circolo, alla paura di essere espulsi da quella famiglia disfunzionale, all'ansia di primeggiare ed essere riconosciuti dalla comunità, dai media e dall'opinione pubblica, sono resi in maniera efficace, considerato che si parla di ragazzi in qualche caso nemmeno ventenni.
Ad un livello di sottotesto emerge anche un'assenza del tutto nordica delle famiglie, i genitori di questi giovani sono, non a caso, sempre fuori campo o sfocati, si sentono le loro voci salutare i figli che escono o per chiamarli a tavola, sono loro, i padri e le madri, che si fanno carico dell'affitto del negozio di dischi di Aarsteh o del debutto discografico di Burzum, senza accorgersi minimamente di come i loro figli stiano infrangendo le barriere tra il pensiero e l'azione.  

Ma il film mostra anche un agghiacciante realismo nei suoi momenti più efferati, cioè nei due omicidi: le vittime dei carnefici Faust e Varg muoiono dopo un vero e proprio martirio, colpite più volte, in un spazio di tempo angosciante ed interminabile.
E, purtroppo, sulle ricostruzioni dei delitti non può esserci spazio per polemiche o interpretazioni di sorta, esse rispecchiano infatti fedelmente lo svolgimento dei fatti, come ricostruito dalle indagini e, nel caso della morte di Euronymous, come raccontato, senza il minimo accenno di pentimento, anzi con auto compiacimento, da parte dello stesso Varg, nel film documentario Until the light take us (il che aprirebbe un enorme dibattito sull'efficacia erga omnes del modello penale nordico, che prevede, a scopo riabilitativo, un massimo di pena detentiva di circa vent'anni, indicativamente la stessa condanna inflitta al terrorista nero Breivik che, in Norvegia, sterminò settantasette persone).

Ma Lords of chaos possiede anche una chiave di lettura in qualche modo leggera, ironica, a partire dalla voce narrante di Euronymous, usata nella modalità genialmente introdotta a suo tempo da Viale del tramonto, e che, nelle ultimissime sequenze prima dei titoli di coda, si contrappone, in maniera davvero inaspettata al mood del racconto.

Tornando per un momento alla realtà dei fatti, è interessante notare come tutta la scena black norvegese si sia schierata contro il film, proseguendo una tradizione che la vede opporsi a qualunque "revival" di quegli anni, a prescindere che sia veicolato da libri, interviste o documentari, nonostante, tutto sommato, un'importante esposizione potrebbe contribuire, in termini pubblicitari, al rilancio di band che sono ancora in giro. 
E invece, non so se per un integralismo radicale o per una pervicace ricerca del basso profilo, un film che parla di black metal, a causa dell'ostracismo della scena, non ha potuto utilizzare le musiche originali delle formazioni più importanti del genere, infatti, l'attuale formazione dei Mayhem, protagonista della storia, ha negato i diritti alla produzione, seguita a ruota dai Darkthrone e da Burzum. Poi certo, Varg si è fatto ancora una volta riconoscere, criticando anche la scelta "etnica" dell'attore individuato per interpretarlo (di origini ebree), ma nel suo caso non c'è nemmeno da prestargli più di tanta attenzione, nazistello del cazzo.
Ovviamente è stata criticatissima anche la scelta di affidare ai Sigur Ros, che col metal non centrano nulla (anche se ci sarebbe da fare un lungo discorso sull'ambient black), la scelta del soundtrack, che è caduta su Dio, Accept, Sarcofago, Tormentor, Bathory, Grotesque, Cathedral, oltre agli stessi Sigur Ros.

Personalmente ho trovato Lord of chaos un film che evita con bravura le trappole potenzialmente disseminate dentro un'operazione come questa. 
Compie delle scelte, romanza la vita del protagonista scelto (Euronymous) in maniera forse discutibile, ma descrive gli eventi, tra fatti oggettivi e leggende tramandate, così come sono andati, o perlomeno come li abbiamo imparati a conoscere. 
D'altro canto il regista ammette subito i limiti della verosomiglianza, quando, all'inizio del film, compare sullo schermo l'avviso: based on truth...lies... and what really happened. Come dire: non c'è nessuno al mondo, nemmeno i superstiti a quegli eventi che potrebbe mettere scientificamente in fila tutto ciò che è accaduto, senza che qualcun altro alzi il dito e dica che si tratta di un mucchio di stronzate.
In questo scenario la pellicola passa da una ricostruzione maniacale fin nel più piccolo dettaglio di alcuni aspetti della storia (la casa nei boschi dove si suicida Dead, l'Helvet) a qualche scivolone sentimentale, forse inevitabile visto il profilo mainstream della produzione.

Per quanto mi riguarda il giudizio è positivo, rafforzato anche da un termometro emotivo. Infatti quando un film mi trasmette qualcosa, nei giorni successivi alla visione continuo a tornarci con la mente.  
E, con tutte le sue imperfezioni e i suoi difetti, con Lords of chaos mi è successo proprio questo, al punto da non escludere una seconda visione a breve.

lunedì 14 ottobre 2019

Dinosaur Pile-Up, Celebrity mansions

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Altra rilevante scoperta di un anno estremamente proficuo, questi Dinosaur Pile-Up, band di Leeds, UK, che, in barba ai miei tempi di carotaggio, è attiva da una decina di anni con quattro album all'attivo, di cui Celebrity mansions è l'ultimo.
La cover del disco rimanda l'immagine di un gruppo di allegri cazzoni e la percezione non è del tutto errata, anche se questa definizione andrebbe estesa e completata:  si tratta infatti di un gruppo di allegri cazzoni con una capacità fuori dal comune di mettere insieme riff e parole, dotati di un radar musicale affollato da una pletora di influenze.

Ci vuole davvero poco per innamorarsi dei DP-U. Basta che parta il primo pezzo del disco, che, a dire la verità, conquista già da titolo, Thrash metal cassette, ma che poi stende definitivamente per tiro e incipit del testo:  "Thrash metal on the stereo / Sixteen hours a day / Yeah, drivin' on a shitheap splitter / We got to get to LA".
A questo punto l'ottovolante è partito e non c'è più modo di scendere, cioè di premere stop sul lettore. 
Back foot è infatti un'altra mazzata che impone anche ai corpi più agè, sgraziati e fuori forma di raggiungere un pit immaginario e pogare come non ci fosse un domani.

Non mi sono soffermato sul genere musicale proposto dai Dinosaur Pile-Up (a proposito, la formazione è un classico power trio capitanato dal chitarrista/cantante/leader/frontman Matt Bigland, unico componente originale, più basso e batteria ) e non vorrei si pensasse ad un disco "banalmente" (e lo dico con tutto il mio noto affetto per il genere) metal. 
Quelli bravi li definiscono alternative-rock, ma in realtà le influenze del gruppo sono davvero svariate e trasversali. 
Ascoltando e riascoltando Celebrity mansions quella che emerge è piuttosto una spiccatissima sensibilità nineties, quando, soprattutto nelle prima metà di quegli anni, la parola d'ordine era contaminare stili e generi.
Non solo grunge quindi (tuttavia, quanto avrebbe spaccato nel 1993 un pezzo come Round the bend?), ma Foo Fighters (Pouring gasoline, altro anthem, o Black Limousine), e anche, nell'attitudine, Red Hot Chilli Peppers, poi Faith No More (la title track), Smashing Pumkins, il punk (Stupid heavy-metal broken hearted loser punk) e il power pop dei Weezer (K West).

Un disco enorme, fonte di inesauribile divertimento. 
Da questo punto di vista, senza esitazione alcuna, il migliore dell'anno.
Consigliato a palla di cannone. 

giovedì 10 ottobre 2019

Rambo - Last Blood

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La mia idea di cinema di genere è che debba sempre avere una quota parte di assenza di pudore. E' un anticorpo naturale di quel cinema popolare, necessario a compensare la carenza di affetto da parte della critica colta.
E' solo così che esso può trovare il coraggio, nel 2019, di far uscire nelle sale il quinto episodio di una saga, quella di John Rambo, legata così saldamente agli anni ottanta, che nemmeno Reagan, la Milano da bere, le spalline sotto la giacca o i capelli cotonati.

Dunque, John Rambo, al termine degli eventi narrati nell'ultimo film del 2008, si è ritirato in un ranch in Arizona, dove oggi alleva cavalli assieme ad una vecchia donna ed una ragazzina (Yvette Monreal) che si intuisce essere una sorta di figlia adottiva.
Bene, questa ragazzina, ovviamente non ascoltando i consigli della donna (sua zia?) e di cotanto patrigno, decide di recarsi nei peggiori bassifondi messicani a cercare il padre che l'ha abbandonata. 
Ovviamente finirà in cattivissime mani e la sua sorte scatenerà la vendetta e la rabbia (soprattutto la rabbia) del vecchio soldato.

Chiariamolo subito, molto nel film: situazioni, dialoghi, personaggi di contorno, sembrano scritti negli anni ottanta e, quindi, fastidiosamente fuori tempo massimo, a partire dall'inutile ed irritante prologo/filler, con Stallone/Rambo eroe a cavallo dentro una tempesta.
Però, a un certo punto tutto cambia.

Succede quando John Rambo si accanisce all'arma bianca contro la sua prima vittima, uno del cartello che aveva adescato la figlia adottiva per consegnarla al cartello, colpendolo prima al torace ed infilando poi le dita nella ferita per farsi dare le informazioni richieste.
Si passa poi ad un brutale assalto a colpi di martello che fracassa teste e ossa dei malcapitati gangster con generosissimi fiotti di sangue ad imbrattare le pareti. Il tutto in previsione dell'attesa mattanza finale.

Il film resta quindi nel cinema di genere, ma vira dall'action puro ad un semi slasher violento e liberatorio (per Rambo), e così farà fino alla fine, con lo showdown tra il nostro e l'esercito del cartello messicano, che si consuma (remore forse delle tattiche vietcong contro gli americani) nei tunnel costruiti da John sotto la sua fattoria, per una lunga sequenza davvero avvincente, ipercinetica e violentissima, rigogliosamente accompagnata da Five to one dei Doors ( la canzone dal famoso verso "No one here gets out alive"), sparata da Rambo a tutto volume per confondere il nemico, in ossequio ad un'altra nota tattica di battaglia.

Insomma, Rambo Last blood chiede allo spettatore un enorme sforzo di sospensione dell'incredulità (come quando assistiamo ad un pestaggio ai danni di un settantenne che prende in cinque minuti più legnate di chiunque altro in tutta la sua esistenza e qualche giorno dopo è in piena forma), ma in cambio intrattiene e diverte, riconciliando con il franchise e senza bruciarsi nessun ponte, visto il finale subdolamente aperto.

lunedì 7 ottobre 2019

Randy Rogers Band, Hellbent

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Una quindicina d'anni di attività per il texano Randy Rogers e la sua band, al debutto sulle pagine virtuali di Bottle of smoke con il disco numero otto: Hellbent.

Con la RRB siamo nell'ambito di un country-rock sopraffino e di una formazione che, essendo insieme da sempre, fa respirare all'ascoltatore tutta la propria  grande sintonia, grazie alla quale il leader Randy può esprimersi su livelli d'eccellenza, disegnando liriche su temi che calzano il genere come un guanto (amore/abbandoni/alcol-unico-rimedio-universale), imbullonate su melodie dalla grande presa ed efficacia.
Lo si capisce subito, dalla partenza di Drinkin' money, che sulle prime mi ha riportato alla memoria lo Springsteen di brani come Better days o Lucky town, e, più in generale il country rock di quel periodo (primi novanta) fatto apposta per deflagrare dal vivo.
Provare per credere tre pezzi anthemici come I'll never get over you, Comal line e Fire in the hole, talmente trascinanti da spostare le montagne. 
D'altro canto non c'è da meravigliarsi che le composizioni di Hellbent nascano come se fossero già road tested, da sempre quella concertistica è la vocazione primaria della Randy Rogers Band, sin dal suo esordio discografico del 2010, proprio con un album dal vivo (Live at Cheatham Street Warehouse).
Ma, per fugare ogni dubbio, garantisco che la band sa anche essere estremamente emozionale, attraverso l'utilizzo quel tipo di poesia applicata alla semplicità della vita quotidiana e all'esistenza della gente comune, tipica del lato malinconico del country. 
In questo ambito Anchors away, You me and the bottle e, soprattutto, quel mezzo capolavoro che risponde al titolo di Wine in a coffee cup, potrebbero fare scuola.
Insomma, dentro Hellbent  non c'è spazio per canzoni fuori posto o filler.

Potete anche continuare ad ignorare musicisti come la Randy Rogers Band, non saprete mai quello che vi state perdendo.

lunedì 30 settembre 2019

George V. Higgins, Gli amici di Eddie Coyle

Copertina del libro Gli amici di Eddie Coyle di George V. Higgins

Nell'episodio conclusivo della sesta ed ultima stagione di Justified, il protagonista Rayland Givens (Timothy Oliphant), nel'atto di liberare la scrivania dell'ufficio, estrae dal cassetto la copia consunta di un libro in edizione tascabile, soffermandosi a commentare di come l'abbia letto innumerevoli volte e in che misura quel romanzo gli abbia dato un'infinità di dritte sul proprio lavoro di US marshall.
L'inquadratura si sofferma sulla copertina. 
Incuriosito, blocco il fotogramma per leggere il titolo: George V. Higgins, The friends of Eddie Coyle.
Decido di cercarlo. Non è reperibilissimo, ma fortunatamente mi viene in soccorso la biblioteca civica, il dio della letteratura l'abbia sempre in gloria.

Dalla quarta di copertina capisco il link con Justified, infatti viene citato Elmore Leonard (creatore dei romanzi su Rayland Givens e consulente della serie) che, alla domanda su quali libri metterebbe in un'ipotetica classifica dei suoi dieci noir preferiti, risponde che in ciascuna delle dieci posizioni collocherebbe The friends of Eddie Coyle
Sempre in quarta emerge anche il fanatismo di Quentin Tarantino per il libro, una passione che lo ha indiscutibilmente ispirato per la costruzione dei dialoghi dei suoi film, inducendolo altresì a dare al titolo di un suo film e alla sua protagonista (lo strepitoso Jackie Brown), il nome di un personaggio della storia di Higgins (ma noi sappiamo che titolo e nome del personaggio di Pam Grier sono anche un tributo al culto della blaxpotation Foxy Brown).

Diamine! Cosa ci sarà mai dentro questo tascabile di nemmeno centosettanta pagine, suddivise in quindici capitoli brevi?
Semplice. Dei dialoghi che, considerando la data di prima uscita del libro, il 1972, hanno rivoluzionato il modo di raccontare il genere crime.
La trama parte da Eddie Coyle, delinquente di scarso valore che attende una condanna certa ad un periodo di reclusione per il furto di un camion. Per evitare che questo avvenga tenta il doppio gioco: da una parte continua a muoversi nel sottobosco criminale, tra boss mafiosi e contrabbandieri d'armi, e dall'altra cerca di fornire informazioni all'FBI in cambio di una "buona parola" al giudice dell'incombente processo.
Ma il personaggio Coyle è solo una traccia, uno spunto dal quale si irradiano altri caratteri e situazioni che relegano il protagonista del titolo in secondo, se non addirittura terzo piano.

L'opera di Higgins (che ha avuto nel 1973 un'immediata trasposizione cinematografica con Robert Mitchum e la regia di Peter Yates), all'epoca procuratore distrettuale del Massachusetts, ha portato il crime novel verso un'innovazione dalla portata così radicale da sentirne ancora oggi l'eco. 
Ne deriva che la lettura de Gli amici di Eddie Coyle risulta, oltre che avvincente e divertente, attualissima.

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giovedì 26 settembre 2019

C'era una volta a... Hollywood

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A giudicare dalle recensioni di questa ultima fatica di Tarantino, ho l'impressione che più di un critico, a cui evidentemente il regista non è mai andato a genio, non aspettasse altro che poter far deflagrare tutto il proprio disprezzo. 
Difficile spiegare altrimenti alcuni giudizi feroci, cattivi e francamente esagerati come quello di qualcuno che ha definito la pellicola "il giocattolo costoso di un bambino viziato".


Capisco invece lo spiazzamento dello spettatore medio, perché per certi versi, C'era una volta a... Hollywood è il meno tarantiniano dei film di Tarantino. Mancano del tutto ad esempio i classici dialoghi "fuori contesto" che, a partire da Le iene, rappresentano il marchio di fabbrica di Quentin, così come un certo tipo di trama che qui, ad un occhio pigro, pare non porti a nulla. 

Allo stesso tempo però C'era una volta a... Hollywood è un film totalmente tarantiniano. 
A partire dalla volontà del regista di portare sul grande schermo il suo incontenibile amore per un certo cinema minore e per certa fiction della sua giovinezza, che sfocia nella rappresentazione di un mondo dove finte produzioni si intrecciano con quelle reali, attraverso un montaggio alternato (di Fred Raskin, qui alla terza collaborazione con QT) che nessuno si è degnato di definire magistrale. Per non parlare della scelta dei pezzi della colonna sonora, con la solita prevalenza di composizioni poco note, e della sontuosa modalità con la quale essi accompagnano le immagini.

Concettualmente sembra che con C'era una volta a... Hollywood Tarantino abbia preso alcuni degli elementi dei suoi ultimi film e li abbia espansi fino al limite, al tempo stesso comprimendone altri al minimo sindacale, così tutta la parte di "contorno" che precede l'attesa esplosione finale si prende oltre due ore di proiezione, mentre l'inevitabile sfoggio di ultra-violenza si scatena in pochi (non per questo meno strepitosi) minuti.
Personalmente ho trovato C'era una volta a... Hollywood un gran bel film, con una coppia di attori (Di Caprio e Pitt) affiatati e in forma, la solita pletora di star al servizio del Maestro (Al Pacino, Kurt Russell, Timothy Oliphant, Bruce Dern, Daniel Lewis,  Michael Madsen, Luke Perry - qui alla sua ultima interpretazione - ), una messa in scena che avercene e un grandioso McGuffin sulle gesta di Charles Manson che ha depistato con successo sopratutto i media.

Se devo spendere una critica, è davvero inspiegabile il sotto utilizzo di una delle migliori attrici oggi in circolazione, quella Margot Robbie costretta "dentro" una Sharon Tate impalpabile e superficiale.

Che dire invece dell'omaggio a due tra i registi italiani meno "recuperati" dalla storia (almeno rispetto a Bava, Fulci, Di Leo o Lenzi), come Corbucci e Margheriti? Pura emozione. E nella parabola artistica di un Jack Dalton (Di Caprio) dimenticato dagli studios che si ricicla nel cinema di genere italiano c'è la storia di tanti attori americani del passato e di un cinema, quello italiano, che è stato immenso e che ora non si raccapezza più, tra la mancanza di produttori competenti, piattaforme in streaming e lo svuotamento delle sale.

Il finale poi, malinconico, delicato e toccante, ti inchioda sulla poltrona con un sorriso triste dipinto in volto. 


Dite quello che vi pare, ma per me questo è IL Cinema.