giovedì 29 novembre 2018

La bestia uccide a sangue freddo (1971)

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Ormai affermatosi come sceneggiatore (decine di script, tra i quali Per un pugno di dollari e Per qualche dollaro in più, di Sergio Leone) e reduce dai buoni riscontri ottenuti da I ragazzi del massacro, a Fernando Di Leo viene commissionato un thriller-horror che, seguendo una modalità tipica del cinema di genere, replicasse il fenomeno del momento, nello specifico il successo fatto registrare dai primi film di Dario Argento.
Si narra che Di Leo non avesse nessun trasporto artistico per un'operazione di questo tipo ma che, vuoi per pagarsi l'affitto, vuoi perchè ai tempi si girava di tutto senza stare troppo a sottilizzare, accettò.

Il risultato è un film che, già dalle prime sequenze, dove ci viene mostrato il classico killer mascherato di nero vestito che si muove goffo ed ansimante, sembra una parodia. La sensazione non cambia nello sviluppo della storia, con la clinica psichiatrica di lusso nella quale si svolge la narrazione che più inverosimile di così non si potrebbe. Fra le mura di questo antico castello, destinate ad internare personalità disturbate anche violente, si trova infatti un vero e proprio arsenale appeso come ornamento ai muri: spade, mazze, bastoni, asce, antichi oggetti di tortura (una vergine di ferro) oltre che, distribuite nei corridoi, diverse armature.
Ma l'aspetto più incredibile de La bestia uccide a sangue freddo è che, nel 1971, Di Leo realizza in pratica un film porno, tra clichè di ninfomani, scene lesbo spinte e intense masturbazioni femminili realizzate talmente nei più piccoli dettagli anatomici da fare effetto anche oggi, quasi quarant'anni dopo. Non oso immaginare la reazione del pubblico nelle sale dell'epoca.
Dopo tanti dialoghi inutili e sequenze (inconsapevolmente?) surreali e noiosamente prolungate (su tutte, quella delle fighissime infermiere che giocano a croquet con le fighissime pazienti), da salvare la mattanza finale ad opera della "bestia", che, e qui forse la vera zampata d'autore, non viene fermata prima di aver ritinteggiato di rosso sangue le pareti della clinica.

Opera da vedere per curiosità e completismo. 
Ci resterà sempre il dubbio se il Maestro abbia voluto vendicarsi dei committenti, perculandoli con un film assurdo, oppure se facesse sul serio. 
Io opto per la prima ipotesi, considerando che da lì a pochi mesi avrebbe realizzato il capolavoro Milano Calibro 9.

lunedì 26 novembre 2018

Dee Snider, For the love of metal

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Gli appassionati di metal di lunga data, che, oltre ad ascoltare questo genere, non hanno mai smesso di leggerne le gesta su riviste, libri e, ovviamente, la rete, hanno fatto il callo all'incoerenza dei propri beniamini. 
Non si indignano più se cambiano idea più spesso di quanto si lavino i capelli (per quelli che ancora ne hanno). Niente di scandaloso quindi se il mitologico Dee Snider, dopo aver seppellito i Twisted Sister, e dopo aver dichiarato di volersi affrancare dal metal, abbia rilasciato un disco dal titolo... For the love of metal.
Le perplessità semmai possono emergere dall'ascolto dei brani dell'album, scritto e prodotto da Jamey Jasta degli Hatebreed (in pratica in buon Dee si è limitato a raggiungere gli studi di registrazione per interpretare le dodici tracce), visto il sound pompato e modaiolo delle composizioni, che rimanda, oltre agli stessi Hatebreed, ai Five Finger Death Punch e alla roba che tanto piace alle moderne piattaforme musicali, siano esse televisive o social.
Un lavoro questo nel quale è praticamente impossibile rintracciare l'identità artistica di Snider, annullata in favore di un mood totalmente spersonalizzante. 
Le canzoni possono anche essere piacevoli ad un ascolto distratto, ma, ad eccezione dell'intensa Dead Hearts (love the enemy), il cui testo verte sul bullismo, cantata assieme ad Alissa White-Gluz degli Arch Enemy, si ha sempre l'impressione di trovarsi davanti ad un prodotto usa-e-getta, mentre noi dall'icona Dee Snider ci aspetteremmo sempre qualcosa di più.

giovedì 22 novembre 2018

L'uomo sul treno (2018)

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Cosa saresti disposto a fare se venissi licenziato a sessant'anni da un lavoro ben retribuito, con lo spettro di non poter fare fronte a due mutui e alle spese universitarie di tuo figlio? 
Probabilmente qualunque cosa. Ecco perchè quando al brav'uomo Michael MacCouley (Liam Neeson), seduto al suo posto sul treno che prende tutti i giorni da dieci anni per l'itinere casa-lavoro, si presenta la distinta e affascinate Joanna (Vera Farmiga) con una proposta bizzarra: cercare tra i pendolari abituali un passeggero che non lo è e mettere un gps nella sua borsa, in cambio di centomila dollari, di cui 25k in anticipo, sale forte la tentazione di accettare. 
Nemmeno il tempo di uno scrupolo di coscienza e la faccenda diventa più grave di quanto paventato, con i propri cari tenuti sotto minaccia e cadaveri disseminati tra i vagoni.

Il giudizio su questa pellicola va a mio avviso separato in due. Molto buona la prima ora di film, con una costruzione anche tecnica affascinate (l'incipit nel quale in pochi istanti il regista Jaume Collet Serra riesce a condensare il trascorrere del tempo dentro la routine di tanti pendolari), oltre che per un plot avvincente che richiama, anche per i momenti di tensione, atmosfere hitchcokiane, accompagnato però da una parte conclusiva inverosimile nella quale Neeson torna a fare il super eroe modello Taken con sequenze d'azione a mio avviso fuori luogo nel contesto.

Se facciamo media in ogni caso L'uomo del treno si guadagna un'ampia sufficienza.

lunedì 19 novembre 2018

FM, Atomic generation

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Anche gli inglesi FM hanno superato i trent'anni di attività (al netto di una iato di una decina d'anni, a cavallo tra la metà dei novanta e degli zero), alla faccia di chi considerava l'elegantissimo hard rock marchio di fabbrica della band londinese come superato dai tempi.
Atomic generation è l'undicesimo album della loro discografia, ed è davvero un gioiellino che riporta le lancette indietro agli anni in cui l'AOR statunitense, con gruppi come Toto, Foreigner o Reo Speedwagon, asfaltava le programmazioni radio e svettava nelle charts di genere e generaliste.
La band del singer Steve Overland si muove in questo ambito musicale con grazia e un gusto per le armonie che un mucchio di gruppi giovani revivalisti darebbero un braccio per avere.
Le irresistibili melodie e i refrain di queste undici canzoni riescono a coniugare presa immediata e buona longevità, la tracklist, una volta entrata in circolo, è destinata a dominare il repertorio che cantiamo sotto la doccia quando pensiamo che nessuno ci ascolti.
Black magic, Killed by love, Do you love me enough o l'imprevedibile, arioso pop soul di Playing tricks on me, solo per citarne alcune, sono quanto di meglio l'AOR possa offrire oggigiorno.
Unico rischio, l'eccesso di melassa e good vibrations, ma con gli FM vale la pena correrlo.

giovedì 15 novembre 2018

Cliff Westfall, Baby you win

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Tipo interessante, questo Cliff Westfall. Born and raised in Kentucky, patria del blugrass, quando inizia a suonare si orienta al cowpunk, prima di lasciare la terra del whiskey e trasferirsi a New York, dove finalmente riesce a pubblicare il suo debutto Baby you win.
Cosa aspettarsi da un musicista del sud con precedenti in formazioni punk,  che si sposta nella grande mela e si avvale di un produttore (Bryce Goggin), abituato a lavorare con l'indie dei Pavement e il punk dei Ramones (ma anche con Anthony and the Johnsons)?
La risposta, imprevedibile, è un classicissimo album di honky tonk country, dalle melodie tradizionali e i testi rispettosi della grammatica richiesta, capace di rinverdire un genere tanto popolare quanto sputtanato.
Funziona tutto dentro questo album, dall'approccio vocale di Westfall, alle atmosfere fifties che rimandano a Wayne Hancock, al lavoro chitarristico, pulito e preciso, di Scott Metzger (Shooter Jennings, Phil Lesh), fino alla qualità sopraffina del songwriting, costante nei dodici pezzi della tracklist.
Se la copertina old fashioned ci introduce adeguatamente al mood del disco, i suoni languidi di It hurt her to hurt me ci confermano la cifra stilistica del lavoro, consolidata traccia dopo traccia (Till the right one comes along, una More and more che è lì in attesa di essere ripresa da Raul Malo), con passaggi che sconfinano nell'errebì alla Bo Didley (l'incipit di Off the wagon) e nel country 'n' roll (The end of the line).
Insomma, un debutto che deve far rizzare le antenne a tutti gli amanti del country.

lunedì 12 novembre 2018

Raven, All systems go!

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Il ruolo di opener per il recente concerto dei Saxon mi ha dato modo di conoscere meglio una band che non poteva che essermi nota, essendo pioniera della NWOBHM, ma che, per una ragione o l'altra, non avevo mai approfondito. I Raven si formano nell'operaia Newcastle nel 1974 su impulso dei fratelli John (basso e voce) e Mark Gallegher (chitarra) , ma esordiscono discograficamente solo sette anni dopo, nel 1981 con Rock until you drop
Il loro è un power trio dotato di uno stile rozzo ed essenziale, riff colesterolici che girano intorno al boogie, ritornelli adatti ai pub o ai dopolavoro (che sono i posti dove i Raven si sono fatti le ossa), insomma un tanto al chilo e via andare. Li nota l'etichetta locale Neat Records che li mette sotto contratto. Sono quelli gli anni più importanti nella carriera della band, che dal 1981 al 1983 sforna un disco all'anno (oltre al già citato debutto, Wiped out e All for one), poi il passaggio ad una major che, come spesso accade, coincide con il declino.
Questa raccolta del 2002 riassume in venti tracce quel frenetico ed irripetibile triennio, quando i Raven, tuttora in attività discografica, misero insieme il 90% del repertorio che ancora oggi farcisce le loro setlist.
Parlo di pezzi come Don't need your money, Hell patrol, Rock until you drop, Live at the inferno, Tyrant of the airways, Faster than the speed of light e via discorrendo.
Risentito oggi, lo stile del singer John Gallegher non può che strappare qualche sorriso, con quegli acuti assurdi da palle strizzate (sentitevi il lancinante urlo prolungato in Hell patrol!), che diventa però rispetto verso una coerenza stilistica da working class, figlia dei lavori di fatica che spezzavano le schiene in quel di Newcastle, e di composizioni schematiche ma ancora oggi solide, sostenute da refrain indelebili e un indemoniato lavoro di chitarra del fratello Mark.

Provare per credere.

giovedì 8 novembre 2018

Behemoth, I loved you at your darkest

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Non c'è recensione, soprattutto recente, dei Behemoth, che si astenga da una lunga descrizione sulla complessa personalità del carismatico leader Nergal (al secolo Adam Michal Darski, nato nel 1977 a Gdyna, città portuale polacca che si affaccia sul mar baltico). Effettivamente non si può fare a meno di concentrarsi su questo personaggio, che, nonostante sia nato così geograficamente lontano dai riflettori del music business, in quasi un quarto di secolo di attività è riuscito a portare la sua creatura sul podio più alto del metal estremo e la propria immagine ad una visibilità ancora più ampia, praticando una tale diversificazione commerciale da far storcere il naso a tanti puristi del metal. Ha fatto di tutto, Nergal, da un deep endorsement con bibite energetiche (Demon energy), ai biscotti per cani (collegati al brano God = Dog), al giudice del talent The voice polacco, al conseguimento di lauree in storia e latino che lo qualificano come curatore di musei. E' "riuscito" anche, Adam, ad ammalarsi gravemente di leucemia e a guarire solo grazie alla compatibilità con un donatore (evento abbastanza raro).

In tutto questo la sua vena artistica non si è mai affievolita. Undici album dal 1995 ad oggi sono lì a dimostrarlo in un crescendo di consensi inarrestabile che l'hanno visto affrancarsi dal blackened black metal delle origini fino a giungere ad un'ampia contaminazione che è andata di pari passo con l'allargamento della sua fanbase. Se The satanist del 2014 aveva messo abbastanza d'accordo critica (per molti un capolavoro) e pubblico, questo I loved you at your darkest, a partire dal titolo, permeato di poesia, oscurità e in sintonia con le opere di Poe, rischia di far definitivamente deflagrare la popolarità della band. Dico rischia perchè, inevitabilmente, quando i suoni, pur restando ostici, trovano la chiave per allargare la platea di ascoltatori, ecco subito alzarsi il ditino degli integralisti pronti a scagliarsi contro il venduto di turno.

Da parte mia, che ascolto roba marcia a piccole dosi alternandola rigorosamente a mood più solari, questo è un gran bel disco. Nergal non rinuncia al suo spiccato anti clericalismo (vi bastano titoli come il già citato God=Dog - impreziosito da un video "pittorico" -  o Ecclesia diabolica catholica o ancora If crucifixion was not enough?) e nemmeno a violentissimi blast beat in pieno stile black (Angels VIII; Wolves of Siberia), ma il tradizionale monolite distruttivo previsto dal genere è intervallato da break acustici, canti gregoriani, cupi rallentamenti, potenti refrain, cori fanciulleschi. Il tutto all'insegna del gotico e del malsano, ma, e qui sta a mio modo di vedere la grandezza della band, servito dentro una portata accessibile anche a fruitori "normali" (certo, pur sempre avvezzi a sonorità aspre).

Facendo le debite proporzioni, I loved you at your darkest mi ricorda, come operazione, il black album dei Metallica, disco che impose un certo tipo di metal di nicchia (il thrash, per quanto edulcorato) a tutto il mondo. 
E questo per me è un complimento, se fosse facile l'avrebbero già fatto tanti altri.

A gennaio saranno a Milano. Un pensierino è doveroso.

lunedì 5 novembre 2018

Nemico pubblico (1931)

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Pietra miliare del gangster movie americano, Nemico pubblico, per l'epoca in cui fu proiettato (1931), si fece subito la fama di film brutale e violento, anzi, per dirla tutta, fu il caparbio regista William A. Wellman a concepirne una messa in scena di questa natura, per uscire dai clichè di quello che era un genere molto amato (per capirci negli stessi mesi uscivano Piccolo Cesare e Scarface).
Inutile sottolineare che molto del successo è dovuto alla presenza di James Cagney, villain hollywoodiano per antonomasia, che in questo film doveva interpretare un ruolo di spalla al protagonista e che invece, per intuizione proprio di Wellman, fu assegnato alla parte principale di Tom Powers. E questa intuizione fu decisiva per Cagney, che qui si guadagnò un'incredibile spinta propulsiva per la sua carriera.
Sono diverse le sequenze memorabili di Nemico Pubblico. A partire dai titoli di testa, dove emerge il retaggio con il cinema muto, per passare al rapporto tra Cagney/Powers e le donne, trattate con cinismo e cattiveria, fino al culmine della scena del pompelmo schiacciato con disprezzo sul viso della malcapitata Mae Clark e per finire con la scena conclusiva del film, ancora oggi impressionante (non oso immaginare l'effetto sugli spettatori dell'epoca). 
L'assoluta modernità del film emerge anche da un sottotesto pacifista, viene infatti mostrato il fratello di Tom che torna dalla guerra (gli eventi del film si svolgono a cavallo della prima guerra mondiale) psicologicamente a pezzi, in una specie di shock post traumatico in anticipo sui tempi.
Un paio di curiosità: prima dei titoli di coda scorre sullo schermo un testo nel quale si vuole imporre una morale superiore alla storia, affermando in sostanza che i delinquenti sono tutti destinati alla fine di Tom Powers, e la particolarità della data di uscita in Italia: a causa della censura fascista infatti, il film vide le nostre sale solo trent'anni dopo la sua release, nel 1963.

giovedì 1 novembre 2018

MFT settembre ottobre

ASCOLTI

N.W.A., Straight outta Compton
Lindi Ortega, Liberty
Old Crow Medicine Show, Volunteer
The Dead Daisies, Burn it down
Hardcore Superstar, You can't kill my rock 'n roll
Monster Truck, True rockers
Cliff Westfall, Baby you win
Nashville Pussy, Pleased to eat you
Eminem, Kamikaze
Deicide, Overture of blasphemy
Eric Church, Desperate man
Behemoth, I loved you at your darkest
Raven, All systems go!
Anna Calvi, Hunter
Manilla road, Crystal logic
Neneh Cherry, Broken politics
Austin Lucas, Immortal americans
Cody Jinks, Lifers
Wade Bowen, Solid ground
Little Steven, Soulfire live!
The Chieftains, Water from the well
John Carpenter, Anthology: Movie themes 1974/1988
Greta Van Fleet, Anthem of the peaceful army
Tom Morello, The Atlas underground

VISIONI

Scappa! Get out
I trasgressori
Slither
Elle
L'uomo di bronzo (1937)
La fratellanza
La decima vittima
Convoy
Autoreverse
Tower Heist - Colpo ad alto livello
Insospettabili sospetti
Moonwalkers
Get on up!
The code
Il seme della follia
Venom
La furia umana (1949)
Sabotage
Unstoppable - Fuori controllo
Moon
Kingsman, Il cerchio d'oro
The Bourne identity
The Bourne supremacy
The Bourne ultimatum
Effetti collaterali  (S. Soderbergh)
Mad Max - Fury road
Nemico pubblico (1931)
Millennium - Quello che non uccide


Oz, stagioni 3,4
Justified, 4 e 5

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LETTURE

Keith Richards, Life
Roberto Saviano, Zero zero zero
Roberto Saviano, La paranza dei bambini