lunedì 30 settembre 2019

George V. Higgins, Gli amici di Eddie Coyle

Copertina del libro Gli amici di Eddie Coyle di George V. Higgins

Nell'episodio conclusivo della sesta ed ultima stagione di Justified, il protagonista Rayland Givens (Timothy Oliphant), nel'atto di liberare la scrivania dell'ufficio, estrae dal cassetto la copia consunta di un libro in edizione tascabile, soffermandosi a commentare di come l'abbia letto innumerevoli volte e in che misura quel romanzo gli abbia dato un'infinità di dritte sul proprio lavoro di US marshall.
L'inquadratura si sofferma sulla copertina. 
Incuriosito, blocco il fotogramma per leggere il titolo: George V. Higgins, The friends of Eddie Coyle.
Decido di cercarlo. Non è reperibilissimo, ma fortunatamente mi viene in soccorso la biblioteca civica, il dio della letteratura l'abbia sempre in gloria.

Dalla quarta di copertina capisco il link con Justified, infatti viene citato Elmore Leonard (creatore dei romanzi su Rayland Givens e consulente della serie) che, alla domanda su quali libri metterebbe in un'ipotetica classifica dei suoi dieci noir preferiti, risponde che in ciascuna delle dieci posizioni collocherebbe The friends of Eddie Coyle
Sempre in quarta emerge anche il fanatismo di Quentin Tarantino per il libro, una passione che lo ha indiscutibilmente ispirato per la costruzione dei dialoghi dei suoi film, inducendolo altresì a dare al titolo di un suo film e alla sua protagonista (lo strepitoso Jackie Brown), il nome di un personaggio della storia di Higgins (ma noi sappiamo che titolo e nome del personaggio di Pam Grier sono anche un tributo al culto della blaxpotation Foxy Brown).

Diamine! Cosa ci sarà mai dentro questo tascabile di nemmeno centosettanta pagine, suddivise in quindici capitoli brevi?
Semplice. Dei dialoghi che, considerando la data di prima uscita del libro, il 1972, hanno rivoluzionato il modo di raccontare il genere crime.
La trama parte da Eddie Coyle, delinquente di scarso valore che attende una condanna certa ad un periodo di reclusione per il furto di un camion. Per evitare che questo avvenga tenta il doppio gioco: da una parte continua a muoversi nel sottobosco criminale, tra boss mafiosi e contrabbandieri d'armi, e dall'altra cerca di fornire informazioni all'FBI in cambio di una "buona parola" al giudice dell'incombente processo.
Ma il personaggio Coyle è solo una traccia, uno spunto dal quale si irradiano altri caratteri e situazioni che relegano il protagonista del titolo in secondo, se non addirittura terzo piano.

L'opera di Higgins (che ha avuto nel 1973 un'immediata trasposizione cinematografica con Robert Mitchum e la regia di Peter Yates), all'epoca procuratore distrettuale del Massachusetts, ha portato il crime novel verso un'innovazione dalla portata così radicale da sentirne ancora oggi l'eco. 
Ne deriva che la lettura de Gli amici di Eddie Coyle risulta, oltre che avvincente e divertente, attualissima.

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giovedì 26 settembre 2019

C'era una volta a... Hollywood

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A giudicare dalle recensioni di questa ultima fatica di Tarantino, ho l'impressione che più di un critico, a cui evidentemente il regista non è mai andato a genio, non aspettasse altro che poter far deflagrare tutto il proprio disprezzo. 
Difficile spiegare altrimenti alcuni giudizi feroci, cattivi e francamente esagerati come quello di qualcuno che ha definito la pellicola "il giocattolo costoso di un bambino viziato".


Capisco invece lo spiazzamento dello spettatore medio, perché per certi versi, C'era una volta a... Hollywood è il meno tarantiniano dei film di Tarantino. Mancano del tutto ad esempio i classici dialoghi "fuori contesto" che, a partire da Le iene, rappresentano il marchio di fabbrica di Quentin, così come un certo tipo di trama che qui, ad un occhio pigro, pare non porti a nulla. 

Allo stesso tempo però C'era una volta a... Hollywood è un film totalmente tarantiniano. 
A partire dalla volontà del regista di portare sul grande schermo il suo incontenibile amore per un certo cinema minore e per certa fiction della sua giovinezza, che sfocia nella rappresentazione di un mondo dove finte produzioni si intrecciano con quelle reali, attraverso un montaggio alternato (di Fred Raskin, qui alla terza collaborazione con QT) che nessuno si è degnato di definire magistrale. Per non parlare della scelta dei pezzi della colonna sonora, con la solita prevalenza di composizioni poco note, e della sontuosa modalità con la quale essi accompagnano le immagini.

Concettualmente sembra che con C'era una volta a... Hollywood Tarantino abbia preso alcuni degli elementi dei suoi ultimi film e li abbia espansi fino al limite, al tempo stesso comprimendone altri al minimo sindacale, così tutta la parte di "contorno" che precede l'attesa esplosione finale si prende oltre due ore di proiezione, mentre l'inevitabile sfoggio di ultra-violenza si scatena in pochi (non per questo meno strepitosi) minuti.
Personalmente ho trovato C'era una volta a... Hollywood un gran bel film, con una coppia di attori (Di Caprio e Pitt) affiatati e in forma, la solita pletora di star al servizio del Maestro (Al Pacino, Kurt Russell, Timothy Oliphant, Bruce Dern, Daniel Lewis,  Michael Madsen, Luke Perry - qui alla sua ultima interpretazione - ), una messa in scena che avercene e un grandioso McGuffin sulle gesta di Charles Manson che ha depistato con successo sopratutto i media.

Se devo spendere una critica, è davvero inspiegabile il sotto utilizzo di una delle migliori attrici oggi in circolazione, quella Margot Robbie costretta "dentro" una Sharon Tate impalpabile e superficiale.

Che dire invece dell'omaggio a due tra i registi italiani meno "recuperati" dalla storia (almeno rispetto a Bava, Fulci, Di Leo o Lenzi), come Corbucci e Margheriti? Pura emozione. E nella parabola artistica di un Jack Dalton (Di Caprio) dimenticato dagli studios che si ricicla nel cinema di genere italiano c'è la storia di tanti attori americani del passato e di un cinema, quello italiano, che è stato immenso e che ora non si raccapezza più, tra la mancanza di produttori competenti, piattaforme in streaming e lo svuotamento delle sale.

Il finale poi, malinconico, delicato e toccante, ti inchioda sulla poltrona con un sorriso triste dipinto in volto. 


Dite quello che vi pare, ma per me questo è IL Cinema.


lunedì 23 settembre 2019

Volbeat, Rewind, Replay, Rebound

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Volendo mantenere la "giusta distanza" critica, i dischi degli ultimi Volbeat andrebbero recensiti dopo pochi ascolti, quando le orecchie sono vergini  e hai bene chiaro in testa cosa funziona e cosa no. Se invece commetti l'errore di dargli più tempo di sedimentazione, finisci inevitabilmente invischiato nelle spire delle melodie assassine create da Micahel Poulsen (ad oggi senza dubbio uno dei migliori, in questo campo) vedendo fuggire ogni spirito critico.
Metto subito le mani avanti per giustificare il fatto che questa sarà una recensione molto dibattuta, tra il "tradimento" della filosofia musicale dei vecchi Volbeat, per i quali fu colpo di fulmine, e questi nuovi, più mainstream, ma subdolamente seducenti.

Giusto per stabilire un perimetro di ragionamento sulla vita del gruppo, la mia impressione è che il loro apice creativo, il lavoro con il quale sono stati più in grado di bilanciare le due anime che contraddistinguono la band, melodia e furore, è stato Outlaw gentlemen & shady ladies, album del 2013, quinto in meno di dieci anni di storia, nei quali i Volbeat hanno imbullonato il proprio stile personale.
Dal successivo Seal the deal & let's boogie le cose cominciano a cambiare, le asperità si smussano, l'equilibrio si sbilancia decisamente verso la ricerca ossessiva del refrain e del catching, non senza qualche passo falso.
Ecco, la prima parte della mia recensione a quel lavoro, nella quale lamentavo questa sorta di imborghesimento, potrebbe essere ripresa paro paro per questo ultimo Rewind, Replay,  Rebound, solo inspessendo ancora di più il concetto.

I Volbeat del 2019 sono diventati uno dei prodotti più redditizi del music business del rock, ed in virtù di questo aspetto hanno guadagnato spazi e luoghi di esposizione inimmaginabili solo qualche anno fa. Certo, dello status di grande band hanno purtroppo ereditato anche le cattive abitudini, come quella di escludere da interviste e promozioni i media che hanno avuto l'ardire di scrivere recensioni negative, scatenando, come conseguenza legittima di una nazione attenta a questi aspetti, il boicottaggio dell'intera stampa danese (potete leggere il dettaglio qui).
Ciò nonostante per Rewind, Replay, Rebound è stato creato l'hype dei grandi eventi, con molti dei brani anticipati attraverso dei video, interviste a pioggia e via discorrendo.

Poi finalmente arriva la data della release e la copertina irradia immediatamente un'ulteriore rottura con il passato, attraverso la rinuncia alle immagini iconografiche e ai meravigliosi disegni fin qui realizzati per tutta la discografia della band, abbandonati in vece di un'idea loffia e già ampiamente sfruttata da altri (gli ultimi a memoria mia sono stati i Thunder di Wonder days), cioè rappresentare se stessi come ragazzini (spunto ripreso anche dal video di Cheapside sloggers).

A questo punto ci attendeva l'ultima verifica, la più importante, relativa alla qualità delle composizioni: quattordici nell'edizione standard del disco, per una durata complessiva che accarezza l'ora.
Last day under the sun ci accoglie dentro la nuova creazione Volbeat con uno stile onomatopeico del titolo, chitarre ariose e ritornello solare ripetuto come un mantra che dà subito l'imprinting del disco.
La successiva Pelvis on fire è invece lo schema sul quale sono costruite altre composizioni dell'album (Rewind the exit, The everlasting), con un bell'attacco finalmente metal che resiste però solo una manciata di secondi, per aprirsi ad un pattern molto più fruibile, nel quale, nello specifico della traccia, si riprende una rivisitazione di vintage rock and roll già battuta nel vecchio repertorio, ai tempi di Sad man's tongue o 16 dollars.
Inoltrandoci nell'ascolto viene sostanzialmente confermata l'impressione iniziale, il disco suona davvero bene, sia dal punto di vista tecnico che dell'alternanza dei brani, si vede che ci sono produzione e arrangiamenti importanti, qualche brano emerge prepotentemente (Die to live con Neil Fallon dei Clutch; Sorry sack of bones; Cheapside sloggers con Nick Holt, ascia di Exodus/Slayer; i 37 secondi di Parasite; Maybe I believe), ma in tutta questa pulizia la componente cazzimma pare definitivamente evaporata, e con essa ogni fascinazione country.
Anche la tracklist appare forse eccessivamente lunga e volendo si sarebbero potuti tagliare almeno un paio di brani (mi sovvengono la scolastica When we were kids e la conclusiva 7:24, che richiama l'ora nella quale è nata la prima figlia di Michael - si sa, la paternità causa sui rocker più danni della grandine - ).

La logica conclusione di questa recensione dovrebbe essere una stroncatura, tuttavia non riesco a parlare in termini esclusivamente negativi di Rewind, Replay, Rebound, un pò perchè provo per la formazione capitanata da Poulsen / Caggiano un'innata simpatia, e poi perchè, e qui torno al dilemma iniziale, questo disco l'ho ascoltato e lo sto ascoltando davvero tanto e alcune sue composizioni continuano a rimbalzarmi in testa in qualunque momento della giornata, ad alimentare un cortocircuito tra cuore e cervello che stavolta vi restituisco, irrisolto.

lunedì 16 settembre 2019

Crazy Lixx, Forever wild

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Svedesi di Malmoe, i Crazy Lixx sono tra i nomi di punta dell'attuale panorama glam metal. Attivi da una dozzina di anni, sono stabilmente inseriti nella squadra dell'orgoglio italiano New Frontiers, label notoriamente specializzata nel rock/metal melodico.
Forever wild è il loro sesto lavoro che li colloca decisamente nell'ambito di un pulitissimo hair metal ottantiano, più che, volendo spaccare il capello di un macro genere, dello sleaze.
I pezzi richiamano pertanto Warrant, i Poison di Open up... , i Bon Jovi di 7800° Farhrenheit o i Motley Crue di Theatre of pain, giusto per approssimare delle coordinate del passato, ma senza trascurare i rimandi agli attuali (e compatrioti) H.E.A.T. .
Si facciano avanti senza timore quindi i nostalgici di quel sound (presente!) perchè nelle undici composizioni che compongono la tracklist troveranno pane per i loro denti.
L'album infatti tira quando c'è da tirare (Wicked, Break out, Silent thunder, (She's wearing) Yesterday face, Terminal velocity), si raccorda con il più classico AOR americano (Eagle) e, ovviamente, non trascura il lentaccio spaccacuore (Love don't live here anymore). 

Un disco senza filler e senza momenti deboli. Bene così, perchè un conto è ispirarsi chiaramente a pattern ormai inconfondibili, ma tutt'altro paio di maniche è poi essere in grado di realizzare dischi con Canzoni credibili, in buon equilibrio tra l'essere derivative e sufficientemente personali. 
Ecco, da questo punto di vista i Crazy Lixx (il cantante/chitarrista Danny Rexon e il batterista Joel Cirera unici componenti rimasti della formazione originale) il lavoro lo portano a casa in maniera convincente e senza sbavature.

giovedì 12 settembre 2019

MFT, luglio e agosto 2019

ASCOLTI


Lizzo, Cuz I love you
Slipknot, We are not your kind
Volbeat, Rewind, replay, rebound
Matt Woods, Natural disaster
Shane Smiths and the Saints, Hail Mary
Bullet, Live
Little Steven and the Disceples of SoulSummer of sorcery
PossessedRevelations of oblivion
AllegaeonApoptosis
Josh RitterFevere breaks
Hank Von Hell, Egomania
Bruce Springsteen, Western stars
Fulci, Tropical sun
Warrior Soul, Rock 'n' roll disease
Bokassa, Crimson riders
The Raconteurs, Help us stranger
Massimo Volume, Il nuotatore
Darkthrone, Old star
Hollywood Vampires, Rise
Hayes Carll, What it is
The Waterboys, Where the action is
2pac, All eyez on me
Aaron Watson, Red Bandana
Bryan Adams, Ultimate
Crazy Lixx, Forever wild
Gorilla, Treecreeper
Herbie Hancock, Head hunter
Johnny Paycheck, The soul and the edge
Pino Daniele, Passa 'o tiempo e che fà
Royal Republic, Royal majesty
Satan takes a holiday, A new sensation
Randy Rogers Band, Hellbent


VISIONI



Da questo MFT, in considerazione del fatto che riesco a recensire solo una piccolissima parte dei film che vedo, ho deciso di aggiungere un voto ai titoli elencati. Il voto, oltre ad esprimere, ca va sans dire, un giudizio esclusivamente personale, non vuole essere preso troppo sul serio, piuttosto, come del resto l'intero blog, si tratta solo di un divertissement.

Figli di Annibale (3,5/5)
L'alba dei morti dementi (4/5)
Blakkklansman (3,5/5)
Gotti, il primo padrino (0/5)
Sette sconosciuti a El Royale (4/5)
Zombi 2 (4,5/5)
Train to Busan (4/5)
Notorious - L'amante perduta (5/5)
Vice - L'uomo nell'ombra (3/5)
Repo Men (2/5)
Jupiter - Il destino dell'universo (3/5)
Il mistero del falco (1941) (4/5)
Murder mystery (2,5/5)
Lo spietato (1/5)
Predestination (4/5)
Serenity - L'isola dell'inganno (1/5)
Io sono Tempesta (0,5/5)
Pusher - L'inizio (3,5/5)
Parto col folle (1,5/5)
Leatherface (3,5/5)
Non aprite quella porta (1974) (5/5)
Un nemico che ti vuole bene (1/5)
Halloween (2018) (3/5)
Metti la nonna in freezer (0,5/5)
La cosa (2011) (2,5/5)
Mia moglie per finta (2/5)
Above ground - Segreti sepolti (0/5)
Manhattan nocturne (3/5)
L'uomo nell'ombra (Ghost writer) (3,5/5)
L'erba del vicino (4/5)
Cattive compagnie (2,5/5)
L'ultima missione (MR73) (3/5)
Revenge (4/5)
Blackhat (3,5/5)
Giallo (1,5/5)
Anatomia di un delitto (4/5)
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Visioni seriali

Justified, 6
Suburra, 2
Too old to die young

LETTURE

Dario Argento, Paura

George V. Higgins, Gli amici di Eddie Coyle

lunedì 9 settembre 2019

Hayes Carll, What it is

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A tre anni dall'intimismo di Lovers and leavers, Hayes Carll torna a raccordarsi allo stile dei suoi dischi precedenti, e quindi al compendio di quella sconfinata prateria di generi che nascono dalle montagne dell'old time music discendendo a valle, nell'americana.

Un pò di gossip. A differenza del commento a corredo della recensione di Lovers and leavers, dove lamentavo la cronica assenza di notizie sulla vita privata di Hayes, stavolta qualcosa è emerso. Sono infatti volati gli stracci, o se preferite, parecchia merda è finita nel ventilatore, tra il buon Carll e nientepopodimeno che Steve Earle (mio e, anche se non lo ammetterà mai, suo idolo) a causa di una donna, anche lei cantautrice, Alison Moorer, che ha divorziato da Steve per accasarsi con Hayes.
Cosa centra questa notizia con la recensione di What it is? Tranquilli, non siamo diventati una filiale di Novella 2000, piuttosto la rivelazione dell'affaire è funzionale a spiegare il perchè la Moorer figuri nei crediti del disco in qualità di co-produttrice e co-autrice di tutti i brani.

Hayes torna dunque al suo stile consolidato. Lo fa dopo un opener (None'ya), che invece si raccorda con il mood delicato di Lovers and leavers, ma con un testo tutt'altro che introspettivo. Poi si parte per davvero, prendendo il ritmo con Times like these e da lì in avanti lo scenario cambia.
Che il ragazzo abbia "metabolizzato" la paternità e che sia in un periodo felice della sua vita lo si capisce dal ritorno pieno ai suoi affreschi di personaggi, storie sospese tra finzione e realtà, brandelli di vita vissuta, relazioni umane, oltre che da una naturale propensione all'ironia.
Nascono e si sviluppano così pezzi quali Jesus and Elvis, If I may be so bold o la dylaniana Things you don't wanna know
Stilisticamente parlando il sound si muove agilmente tra folk e country, senza però disdegnare accenni bluegrass (la title track), southern (Beautiful thing) o tributi al blues dei Rolling Stones (Wild pointy finger).
Insomma, un altro centro per un artista che, fino ad oggi, non ha sbagliato un disco.
E scusate se è poco.

lunedì 2 settembre 2019

Warrior Soul, Rock 'n' roll disease

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Lo strano caso dei Warrior Soul. Una band che per il tempo di un lustro e cinque album (1990-1994) ha detto veramente tantitssimo ma è stata poco ascoltata (in termini di esito commerciale). Forse perchè, nel periodo in cui il metal ammainava la sua bandiera a favore del grunge, i WS proponevano un offerta difficilmente incasellabile in questo o quello schieramento. 
Il combo del leader e frontman Kory Clarke infatti, si muoveva sulle coordinate di un suono duro, potente, con le elettriche in primissimo piano, ma al tempo stesso dentro un mood onirico, acido, ipnotico. La grandezza della band stava anche nella capacità di coniugare pezzi dirompenti (l'inno assoluto Punk and belligerant) a divagazioni che giocavano con lisergici echi seventies e testi di matrice hardcore, impregnati di denuncia.
Rassegnati al destino avverso, i Warrior Soul si sciolgono nella seconda parte dei novanta, per poi tornare una decina di anni dopo e riprendere faticosamente produzione discografica e attività concertistica. Oggi non sono più la band che erano, a tutti gli effetti il gruppo è l'espressione artistica del solo Clarke, e anche musicalmente l'asse si è decisamente spostato.

In questo scenario viene rilasciato Rock 'n' roll disease, stilisticamente una sorta di Back on the lash (disco del 2017) volume 2, dal quale riprende il tiro che definirei classic hard rock e la durata ridotta (una mezz'ora di musica).
Questa reincarnazione dei Warrior Soul, sebbene li veda proporre un sound in gran parte debitore di AC/DC e Motorhead, non fa perdere alla band un grammo della stima e del riconoscimento per tutto quanto fatto in passato. Inoltre le tracce sono davvero trascinanti come ormai gli AC/DC non riescono più ad essere (Up the dose, Rock 'n' roll disease, Going mental), la voce di Kory è meravigliosamente incatramata e, infine, in un paio di episodi (Melt down e War ride children) la formazione si ricorda e ci ricorda cosa era in grado di fare un quarto di secolo fa.

Il dito medio della copertina è per tutti quelli che non se li sono mai cagati.