giovedì 30 maggio 2013

And i been working like a dog

Settimana di lavori. E stavolta non sono quelli virtuali di restyling del blog. Sto infatti imbiancando casa e al pc riesco ad avvicinarmi fugacemente solo la mattina, ragion per cui i post di questi giorni si sono decisamente diradati. 
Sarà anche vero che quando nella vita svolgi da un pezzo un lavoro intellettuale ti dimentichi la fatica che si fa a far andare le mani, ma arrivo a sera esausto, senza nemmeno la forza di cogitare un pensiero o sollevare le dita per battere sulla tastiera del pc. 
Ah, ma una cosa è certa: non mi fregano più con il "dài, possiamo farlo da soli, che ci vuole?".

lunedì 27 maggio 2013

Big Time Rush!



Commercialmente parlando, musica ed immagini sono sempre state un connubio vincente. Vale per gli spot (alcuni di essi veri capolavori), vale per la promozione delle band attraverso i video e vale per i colossi dell'industria televisiva/musicale quando devono accaparrarsi quella fetta di pubblico giovanile che va dalla preadolescenza all'adolescenza.
Stefano ha ancora qualcosina davanti prima di entrare in quella categoria d'età, ma, per dire, apprezza abbastanza la musica "adulta" e comincia a prediligere l'intrattenimento televisivo o i film "in carne e ossa" (come dice lui) piuttosto che a disegni animati; gli piacciono I Simpsons e anche Modern Family (entrambe le serie,mi rendo conto, un pò al limite per un ragazzino di nemmeno nove anni). 
Ma torniamo alla premessa. Qualche anno fa la divisione televisiva della Disney impose un modello di show nel quale convivevano comicità e sentimentalismo in salsa teen-ager, nei quali protagonisti erano cantanti, spesso poi lanciati anche nella carriera musicale vera e propria. Mi riferisco ovviamente a Hannah Montana; High School Musical, Camp rock o ai Jonas Brothers. Chiaramente le altre tv per ragazzi si sono dovute adeguare e Nickleodeon, una delle più note, ha lanciato la serie tv Big Time Rush.
Il telefilm (tarato sui venti minuti a puntata) verte sulla carriera musicale di quattro ragazzotti del Minnesota, trasferitisi a Los Angeles per tentare di emergere nel music biz. La formula (per fortuna) non è quella classica della sit-com con le risate in sottofondo.

Qualche mese fa Stefano ha cominciato a seguire questo serial e la musica che ne fa da cornice. Io sono riuscito a recuperargli i due dischi fin qui usciti sotto la ragione sociale Big Time Rush (B.T.R., 2010; Elevate, 2011) e da allora non c'è uscita in auto nella quale mio figlio non mi chieda di mettere su uno di questi due dischi. Anche i pochi minuti che occorrono a raggiungere la scuola sono buoni per ascoltare almeno un pezzo. 
Mi sembra insomma che dopo qualche fuoco fatuo che ho puntualmente segnalato su queste pagine, questi siano i primi,veri, amori musicali di Stefano, anche perchè siamo passati dall'apprezzare occasionalmente una singola canzone alla dinamica da album: quella cioè che col tempo ti fa gradire a rotazione tutte le tracce di un disco. 

Se penso che io alla sua età andavo ancora dietro alle canzoni per bambini o alle sigle dei cartoni dei robot giapponesi non so se esserne soddisfatto o preoccupato. Propendo per la prima ipotesi, visto che, per quanto i Big Time Rush siano un gruppo farlocco e costruito a tavolino (anche se di recente hanno pubblicato un singolo più cattivo che campiona Song 2 dei Blur) per le teen-ager e il genere suonato dal gruppo sia il classico ambito da boy band (poppettino catchy annacquato di nu soul;hip hop o modern errebì), in ogni caso ha più solidità di diversi prodotti per bambini che andavano nel settantasette, cioè quando io avevo otto-nove anni. E poi, dato che il gruppo canta in inglese, l'ascolto diventa uno spunto per confrontarci sui significati del testo e sulla corretta pronuncia della lingua, oltre che per lanciarci in temerari singalong.

Insomma, in questi ultimi mesi, per tutto il tempo che mi è servito per assimilare e recensire Mavericks, Saxon, Dropkick Murphys, Saxon, Hatebreed e Bachi da Pietra, ho sempre continuato ad ascoltare questa boy band, fino al punto da esserne "rieducato" e trovarmi a canticchiarne le canzoni anche quando sono sotto la doccia. 
Pericolosi effetti collaterali.



venerdì 24 maggio 2013

The Walking Dead, season 3



Mi sono reso conto di aver dimenticato di recensire la terza stagione di The Walking Dead. Anche questo la dice lunga su quello che è rimasto del mio iniziale entusiasmo rispetto a questa serie. Nonostante i cambi di showrunner infatti, The Walking Dead continua a perpetrare i suoi errori strutturali, che sono quelli di vanificare le buone intuizioni, non sviluppandole a dovere o tirandole così per le lunghe da ammosciare qualunque climax. In questo senso nella prima stagione non è stato più ripreso il filo narrativo dell'origine del virus dopo che il gruppo ha lasciato il laboratorio al termine di stagione; nella seconda la buona idea dell'esistenza di gruppi di umani superstiti più spietati e pericolosi degli zombie viene lasciata lì (qui le rece delle prime due stagioni) e nel terzo l'introduzione di un villain azzeccato come Il Governatore viene del tutto banalizzata, trasformando il character in un cattivo monodimensionale a tratti imbarazzante. Anche in questo caso l'attesa per lo scontro finale tra i nostri e il gruppo del Gov. viene tirata così alle lunghe che alla fine lascia solo perplessi.
Curioso il fatto che, parallelamente all'impoverimento di idee della serie, i personaggi del programma siano diventati icone pop. Qualche mese fa Milano era tappezzata da cartelloni pubblicitari enormi (tipo quelli elettorali di Berlusconi, per intenderci) della rete Fox (nel pacchetto di Sky) e come testimonial, insieme agli inossidabili Simpsons e al canterino Glee, c'era proprio lo sceriffo Rick Grimes, che si stagliava con il suo pistolone sopra lo slogan I love zombies. Allo stesso modo gli ascolti USA pare abbiano premiato la terza stagione della serie. 
Spero che questi dati non incoraggino la produzione a proseguire su queste coordinate, in quel caso sarebbe dura continuare a seguire la serie.


martedì 21 maggio 2013

Ray

Ho nel cassetto un articolo della serie "i migliori della vita" che non sono mai riuscito a completare,principalmente a causa di un approccio eccessivamente dispersivo e aneddotistico che proprio non riesco ad arginare. Soggetto del post, l'album di debutto dei Doors. Motivo di tanta dispersività l'onda d'urto di ricordi che mi travolge quando parlo di questa band.  Il gruppo californiano infatti, andando anche ben oltre i propri meriti effettivi, è quello, tra le bands e gli artisti storici dei settanta, che più ha segnato, almeno nella mia realtà di paese, un certo modo di ascoltare musica fuori dagli schemi. Oggi sembra incredibile, ma quando avevo dieci, undici anni (nonostante fosse passato già del tempo dalla morte di Morrison) ascoltare questa band rappresentava per molti una forma di ribellione, di appartenenza ad un  mondo chiuso a genitori ed adulti, una realtà alternativa a quella reale.
Personalmente, ancora sospeso tra l'infanzia e l'adolescenza,  percepivo i Doors come un gruppo indecifrabile e pericoloso. Era il gruppo che ascoltavano i più grandi, quelli che a scuola facevano i bulli, quelli con le toppe sui giubbetti di jeans, quelli che al parchetto invece di giocare a calcio si facevano le canne e magari anche qualcosa d'altro. I Doors mi attraevano (la curiosità del proibito, suppongo) e mi respingevano (non avevo assolutamente nulla a che spartire con quelli che li ascoltavano) allo stesso tempo, per questo il mio ingresso nel loro sciamanico universo non fu immediato.
 
Sono un po' queste le prime cose alle quali ho pensato stamattina, quando il radiogiornale ha riportato la notizia della morte (a 73 anni) a Ray Manzarek, il tastierista dei Doors, nerd del gruppo, anima dell'aspetto prettamente musicale della band ed autore del caratteristico sound nel quale Morrison dispiegava le liriche delle sue allucinate ispirazioni.
 
Mi fermo qui con ricordi e celebrazioni dell'artista, perché dalla morte del Re Lucertola in avanti per Ray (fatta salva la partecipazione al primo disco degli epici X) sono stati solo passi che andavano dal falso (i dischi con la vecchia ragione sociale, senza Jim) all'imbarazzante (la "reunion" con alla voce prima Ian Astbury dei Cult e poi un cantante proveniente da una cover band americana dei Doors)
 
Non sono bravo coi coccodrilli, ma insomma, ho un forte legame con il suono che Manzarek ha saputo creare (soprattutto nei primi due dischi dei Doors) e che ha caratterizzato una parte importante degli inizi della mia perlustrazione dell'universo musicale.
Per questo motivo, anche se Ray aveva smesso da decenni di essere artisticamente rilevante , la sua morte non mi lascia indifferente.

lunedì 20 maggio 2013

Steve Earle, The low highway


Steve Earle è senza dubbio una delle mie icone musicali.E' un'artista che ha raggiunto il grande successo nella prima fase della sua carriera (1986/90) proponendosi come astro nascente del country-rock, ha rischiato di gettare via il suo talento tra droga e guai con la giustizia ma è riuscito ad avere una seconda chance che ha sfruttato al meglio (1995/2004), per poi trasferirsi strumenti e bagagli dal Tennesse a New York dove, nel 2007 ha dato un'ulteriore svolta alla sua storia personale (matrimonio con la bella e brava cantautrice Allison Moorer) e musicale, raccordandosi con le proprie radici musicali.
Non è un mistero che la mia preferenza vada allo Steve Earle del periodo di mezzo, quando i suoi album erano un imprevedibile saliscendi musicale che riusciva a coniugare folk, punk, rock and roll, country ed indie.
I quattro album più recenti, da Washington square serenade (2007) in avanti, invece, ci consegnano un'artista probabilmente più maturo, ma un pò meno audace, che alle denunce politiche dirette preferisce le metafore letterar, e che continua ad occuparsi delle ingiustizie e degli ultimi della società mettendo i suoi versi al servizio  di un accompagnamento scarno, spesso acustico e di "basso profilo".

L'ultimo lavoro prosegue in questa direzione e dunque da questo punto di vista niente di nuovo, ma l'affermazione non suoni come una bocciatura, perchè quello che fin qui ho omesso di dire è che Steve è e resta uno dei più raffinati songwriter viventi, uno che, tra alti e bassi della propria discografia, non ha mai smesso di scrivere straordinarie canzoni.
E The low highway ne contiene di davvero memorabili, come la title track posta in apertura: una scarna ballata folk sulla quale Earle stende come un elegante tappeto rosso la sua voce che, nonostante la migrazione a nord, non ha perso un grammo del suo splendido e caratteristico southern accent. Il pezzo descrive in maniera semplice ma efficace la crisi e le nuove povertà, della gente che non ha nulla con cui vivere (Saw empty houses on a dead end street / People linin up for something to eat / And the ghost of America watching me / Through the broken windows of the factories).  Mi ricorda, nella disillusione, un altro grande incipit, quel Christmas in Washington che apriva il capolavoro El corazon nel novantasette.

Poi il disco spiega le sue ali costruite dalla parte più viscerale del genere americana. Ad eccezione del rock and roll rurale Calico County e del classico rock earliano di 21st Century blues infatti, le atmosfere che si respirano sono quelle del folk, del cajun (That's all you got), del blugrass (Warren Hellman's banjo), del country blues (Down the road part II) e del dixieland (Love's gonna blow my way).

Ma al di là dei generi, dentro questo album ci sono Le Canzoni: una manciata di ottime composizioni con qualche picco di meraviglia assoluta, come nel caso di Invisible, uno di quei brani che basterebbe da solo a giustificare l'ascolto di un disco. Anche in questo caso il testo si occupa di derive esistenziali (Everywhere I go / People pass me by / They never know cause I'm invisible / A shadow hangin' low / A footstep just behind / They carry on but I'm invisible ) e lo fa con la cruda poesia e la sensibilità alle quali il Nostro ci ha abituati.

Impossibile infine, ascoltando After Mardi Gras, non andare con la mente all'urgano Katrina e allo straordinario serial Treme (al quale Steve ha partecipato interpretando un busker), o non emozionarsi un pò con il suggestivo epilogo di Remember me.

Steve Earle è un tipo scontroso ma genuino: più giovane di sei anni rispetto a Springsteen, sembra più vecchio del boss perchè non si è fatto il trapianto ai capelli, non se li è tinti, non fa le lampade abbronzanti. "Prendetemi come sono", è il messaggio. E questo vale per lui e per la sua musica. Sarà per questo che, tra alti e bassi, ha sempre il potere salvifico di farmi sentire a casa.

7,5
 

sabato 18 maggio 2013

Chronicles 16

Sottotitolo: catarro. 
Sì perchè non sono ancora guarito (abbiamo svoltato la terza settimana di influenza) e la mia attività principale continua  ad essere quella di starnutire e tossire. 
Ma se devo trovare un lato positivo nel sentirmi quotidianamente svuotato di ogni energia (ma pieno di catarro, appunto) è che ho smesso di essere musicalmente bulimico. In effetti avevo dimenticato che i dischi li recensivo per passione e non per lavoro. Mi ero dato l'impegno di recensire almeno una nuova uscita a settimana, ma così facendo,dopo aver parlato di un lavoro ne perdevo interesse concentrandomi sul successivo, perdendomi il gusto di approfondire gli album, di entrarne bene in sintonia e, se scattava la scintilla, di innamorarmene. 
Nell'ultimo mese invece, come già scritto, il nuovo Big Country mi ha monopolizzato (non fosse altro perchè non avevo la forza di premere il tasto eject del lettore cd) e ora lo stesso mi sta accadendo con The Low Highway di Steve Earle. 
Se ti ci metti, anche in questi periodi di vendite inesistenti e releases a pioggia, escono ancora dischi emozionanti. Basta dargli il tempo di manifestarsi.

venerdì 17 maggio 2013

The bookmark blues, Giuseppe Genna



"Questa democrazia così perfetta fabbrica da sè il suo inconcepibile nemico: il terrorismo. Vuole, essa, infatti, essere giudicata in base ai suoi nemici piuttosto che in base ai suoi risultati. La storia del terrorismo è scritta dallo Stato, cioè dagli Stati; quindi è educativa. Naturalmente le popolazioni spettatrici non possono sapere tutto sul terrorismo, ma possono saperne abbastanza da essere convinte che, rispetto al terrorismo, tutto il resto dovrà sembrare loro abbastanza accettabile, e comunque più razionale e più democratico."

da Le teste (2009)


Colonna sonora: Per le atmosfere cupe, ossessive e delsolanti del romanzo, mi sovviene un Tricky: Makes me wanna die (da Pre Millennium Tension - 1996 - )



mercoledì 15 maggio 2013

Iron Man 3

 



Si scrive "Iron Man 3" ma si legge "Il ritorno di Tony Stark "
A sto giro infatti l'uomo dietro alla maschera di ferro ruba la scena al suo spettacolare alter-ego, cimentandosi nell'obiettivo (se dico raggiunto non rovino la sorpresa a nessuno, vero?) di dimostrare che sono sempre l'intelligenza, il coraggio e la bontà di spirito i valori a prevalere, anche in questo mondo  iper-tecnologico e violento.
E chissà perché ho la netta sensazione che a guidare la scelta di dare più spazio a Stark/Downey Jr sia stata più una pretesa contrattuale dello staff dell'attore rispetto alle esigenze di sceneggiatura.
 
Se devo dare un giudizio complessivo sul film, boh, a questo punto non mi sbilancio più di tanto, visto che per i due episodi precedenti ( uno e due )sono stato piuttosto freddo per poi, quasi senza rendermene conto, e a seguito di visioni plurime imposte da mio figlio, rivedere il mio giudizio.
Tanto che ci siamo, tra le note negative aggiungo anche lo spreco di un bravo attore come Guy Pearce (nei panni del villain Aldrich Killian), mentre devo ammettere il colpo di genio assoluto degli autori  nella costruzione del personaggio del Mandarino (interpretato da un grande Ben Kinsley): nei comics dei settanta la peggiore nemesi del vendicatore (per capirci tipo Joker con Batman e Spiderman con Goblin) e qui...beh, in questo caso non voglio rovinare la sorpresa, mi limito a dire che la trovata è allo stesso tempo divertente e corrosiva nei confronti dell'utilizzo che in tempi di guerra buoni e cattivi fanno dei media.
 
Diciamo allora che di primo acchito la pellicola mi è piaciuta notevolmente meno rispetto alle recenti trasposizioni Marvel e anche Stefano è rimasto deluso nel vedere Iron Man molto meno di quanto era lecito aspettarsi (al netto della conclusiva orgia di armature svolazzanti).
Anche il finale è un vorrei (abbandonare il ruolo dell'Uomo di Ferro da parte di Downey Jr) ma non posso (visto la macchina da soldi che rappresenta). Posso azzardare un quarto capitolo con cambio del cast (chi ha detto reboot?) ?
 
Ma soprattutto: Jon Favreau sarà stato estromesso dalla regia perché s'è magnato l'intero stato del Nebraska? Ammazza com'è inquartato!

lunedì 13 maggio 2013

Big Country, The journey


Avendolo già ampiamente fatto in passato (qui tutti i post), vorrei evitare di introdurre il nuovo album dei Big Country soffermandomi a lungo su Stuart Adamson, storico leader della band, e alla sua tragica e prematura fine. La ragione è presto detta e non ha a che vedere con il cinismo: la band che oggi, A.D. 2013, rilascia un nuovo lavoro dal titolo The Journey , a dodici anni di distanza dall'ultima fatica in studio, è, a tutti gli effetti (nei componenti e nella direzione musicale), un altra cosa rispetto a quella che trent'anni orsono pubblicava l'acclamato The crossing

Innanzitutto i Big Country odierni sono curiosamente (ma forse neanche tanto) diventati una sorta di all-star band di vecchie glorie del rock delle province dell'impero (britannico) anni ottanta. Sì perchè dietro al microfono si è sistemato lo scapigliatissimo leader degli Alarm Mike Peters, alla chitarra e alla batteria stanno Bruce Watson e Mark Brzezicki, unici superstiti degli originali BC mentre al basso troviamo Derek Forbes, con i Simple Minds degli esordi. Fin troppo semplice, davanti a  credenziali di questo tipo, ipotizzare in anticipo il tipo di sound che la band ha prodotto, registrando il disco nell'isolamento (da telefono e web) di un bunker militare risalente ai tempi della guerra fredda, situato dalle parti di Wrexam, in Galles. Mi riferisco ovviamente al ritorno del cosiddetto scottish - rock (anche se per la verità gli Alarm di Peters erano gallesi),  genere che aveva nelle sue corde elementi quali drammaticità, retorica, orgoglio, tensione, simbiosi con il territorio, enfasi ed anthems. Genere il cui acme durò alla fine poco più di un lustro, per poi dissolversi causa evidente incapacità dei suoi protagonisti di evolversi e/o cambiare marcia.

Ecco, The journey la considero come la rivincita di tutti quegli eroi per un giorno, delle rughe che oggi gli attraversano il viso, delle smorfie di disappunto che gli sfuggono ogni qual volta al pub di fiducia passano le canzoni degli U2, partiti su di un piano simile al loro e oggi mega stars milionarie. 
Ma The Journey, nonostante le premesse, e nonostante arrivi fuori tempo massimo,  riesce comunque a non essere un disco patetico, loffio o disperato. E il merito di questo va attribuito senza dubbio a Mike Peters, autore della maggior parte dei testi della track list, che infonde nel songwriting e nell'interpretazione dei brani l'ispirazione dei tempi migliori, arrivando a canzoni che non avrebbero sfigurato affatto in Declaration, Strenght o Eye of the hurricane, cioè i dischi del periodo migliore degli Alarm.
Essì perchè  questo album, nel complesso, risulta più Alarm oriented rispetto al brand della ragione sociale che sta in copertina. Nonostante l'enfatica opener In a broken promise land provi (anche bene) a raccordarsi con il sound di Adamson infatti, già dalla successiva title-track risulta evidente l'imprinting del nuovo frontman.

"Don't be afraid / to make this journey" canta Peters nella canzone che dà il titolo all'album e non si capisce se si tratti di un incoraggiamento rivolto agli ascoltatori o a questa sua seconda vita artistica. Al netto delle pippe mentali il pezzo risulta comunque molto coinvolgente e centrato a livello di liriche. 
Le tracce che pagano maggiormente tributo allo stile che fu dei Big Country sono invece sostanzialmente due: After the flood e Return, molto suggestive e collocabili se non dentro il periodo d'oro di The crossing o Steeltown, sicuramente in quello di argento/bronzo di The seer e Peace in our timeIn altri momenti (nell'intensa Angel and promises e in Another country) emerge nell'impostazione di Mike Peters anche una certa affinità con il cantato di Bono Vox, senza che però l'analogia risulti troppo stucchevole o derivativa.

Ho ascoltato molto The journey in questo periodo, anzi si può dire che io abbia ascoltato solo The journey durante queste ultime due settimane, sentendolo crescere giorno dopo giorno mentre cercavo tra i suoi testi un qualche riferimento alla figura di Adamson. La mia ricerca non è stata nè lunga nè infruttuosa, visto che Peters, nell'epilogo di Angel and promises, sceglie di riprendere Chance (brano presente nel capolavoro The crossing), attraverso i suoi versi più desolanti( "Oh Lord Where did the feeling go? / Oh Lord, i never felt so low"), riuscendo nell'obiettivo di conferire il giusto tributo al vecchio leader della band e toccare il mio vecchio cuore di burro.

In definitiva ritengo The journey un buon (a tratti ottimo) disco: nervoso, tirato, elettrico, molto chitarristico ma capace anche di ariose ballate (la migliore delle quali è certamente Hurt), che mi riconcilia con un sotto-genere non essenziale, ma verso il quale, anche per ragioni anagrafiche, porto il giusto rispetto.  Per questo troverei ingiusto fare paragoni con i già citati masterpiece dei Big Country (The crossing, 1983 e Steeltown, 1984), visto che la band, con Adamson ancora al timone, aveva già da tempo abbandonato certe sonorità allontanandosi, inevitabilmente, dai suoi momenti ispirativi migliori (penso ad esempio agli ultimi lavori tipo Why the long face o Driving to Damascus, rispetto ai quali The journey se la gioca a testa alta).
Quindi sì, per me pollice in alto. 



Don't be afraid to make this journey.

7,5



venerdì 10 maggio 2013

80 minuti di The National

Approfitto dell'imminente,attesissima, uscita del nuovo Trouble will find me, per riepilogare l'opera dei The National, band dal seguito sempre più crescente tra gli appassionati di rock indie e decadente. Attivo da una dozzina di anni, il combo capitanato dal cantante Matt Berninger ha fin qui rilasciato cinque album e due EP. La selezione che segue è molto focalizzata sugli ultimi lavori, a detta di molti quelli che meglio manifestano la crescita della band.

1. Fake empire
2. Anyone's ghost
3. Mistaken for strangers
4. Slow show
5. Bloodbuzz Ohio
6. Son
7. Terrible love
8. Afraid of everyone
9. Squalor Victoria
10. Baby, we'll be fine
11. Abel
12. Sorrow
13. Mr.November
14. Start a war
15. Murder me Rachael
16. England
17. Apartment story
18. The mansion on the hill (Springsteen)





mercoledì 8 maggio 2013

Breaking Bad, season 4


Ripensando agli inizi di Breaking Bad, mi rendo conto di come la serie abbia progressivamente svoltato verso il genere crime story, allontanandosi, anche se non completamente, da quelle atmosfere che richiamavano i primi lavori dei Cohen per come sapevano coniugare tragedia e commedia, dramma e humor nerissimo. La cosa non ha tolto qualità a quello che rimane comunque un ottimo prodotto, diretto magistralmente, recitato altrettanto bene e sempre capace di colpi di scena, ma ecco, probabilmente ha finito per sotttrargli un pò di originalità.

La stagione quattro (13 episodi) è focalizzata sul contraddittorio rapporto tra Walt e Jesse. Il primo, pur essendo il protagonista della serie, non viene dipinto come una persona particolarmente amabile o virtuosa. Al contrario, ha dei tratti caratteriali poco socievoli, è burbero, a volte arrogante e collerico. Ma non lascerebbe mai il suo socio Pinkman nei guai. Proprio a causa di questo e degli accadimenti narrati nella stagione precedente, i rapporti con il boss della droga Gus Fring si sono deteriorati al punto che Walt viene estromesso dalla produzione di metanfetamine e comincia a temere per la propria vita e per quella dei suoi cari. 
Contestualmente Gus comincia a coinvolgere sempre più Jesse nelle sue azioni, allo scopo di farlo sentire parte della "famiglia" ed allontanarlo dall'influenza di White. 
Ma, come dicevamo, Walter White è diventato con tempo una persona diversa da quella che nella prima stagione ha impiegato giorni per decidere di eliminare un delinquente segregato in cantina (rivelatosi poi infiltrato della polizia)  che avrebbe potuto denunciarlo. Oggi è privo di scrupoli, lo già ha dimostrato quando ha assistito senza intervenire alla morte per soffocamento da vomito della tossica ragazza di Jesse e lo dimostra in maniera ancora più spietata adesso, con il finale di stagione che evita il cliffhanger ma che è nero come la pece.

Lasciatemi infine celebrare la grande prova attoriale di Giancarlo Esposito che ha basato la sua interpretazione del boss della droga Gustavo Fring tutta sul linguaggio del corpo (postura e espressioni facciali) passando con naturalezza dal ruolo di imprenditore cordiale e amico della comunità a quello di spietato capo del cartello. La sua ultima inquadratura è da standing ovation.

Mi aspetta la prima parte della quinta, in attesa di vivere in diretta la conclusione della saga prevista per questa estate.




lunedì 6 maggio 2013

Chronicles 15

Negli ultimi tempi avevo cercato di non far passare più di un giorno senza postare qualcosa sul blog. D'altro canto non aggiornare il mio diario in rete non è stata l'unica cosa che mi sono astenuto dal fare, visto che l'attività che mi ha tenuto costantemente impegnato in questi giorni è stata quella di soffiarmi il naso la media di centinaia di volte all'ora, con il dubbio che ad ogni soffiata ad un certo punto mi uscisse anche un pò di materia cerebrale, vista la costante sensazione di rintontimento alla testa. Sono stato dunque portato a mantenere le funzioni vitali alla modalità di sopravvivenza minima. Niente letture, niente internet, niente televisione ne musica. Sono stato eroico ed ho accompagnato Stefano in piscina e a vedere Iron Man 3, rompendo probabilmente le balle a tutti i presenti con i miei colpi di tosse e la trombetta del mio naso. 
Per il resto ho sudato tanto pur rimanendo quasi sempre fermo e spesso in posizione supina sul divano. 
Mi sono lavato poco, ho azzerato i contatti umani, sono stato più insofferente del solito. 
Che quando io sto male sono uno strazio insopportabile e la faccio pesare a tutti. 
Ma poi perchè ne parlo al passato, mica sono guarito ancora, neh.

giovedì 2 maggio 2013

Un poliziotto da happy hour


Scusate l'ovvietà, ma non posso aprire questo post senza lanciarmi, tipo pitbull, alla giugulare delle maestose menti che si occupano della traduzione dei titoli dei film in italiano. Il sobrio The guard nelle loro mani si è infatti tramutato nel parodistico Un poliziotto da happy hour, ma che c'azzecca? Perchè dare un messaggio fuorviante sul contenuto del film? Che forse gli spettatori certi di vedere una roba tipo Scary Movie escono più felici dal cinema se li hai perculati?
Certo, The guard non è un drammone, gioca con la commedia e il poliziesco alla Arma Letale o Bad Boys, con la differenza che in questo caso il tutto è frullato con l'humor, la rassegnazione e la flemma degli irlandesi. Anzi degli irlandesi dell'ovest, che mica è la stessa cosa degli altri.
Il film è infatti ambientato nel Connemara,dove, tra panorami mozzafiato e poliziotti corrotti si aggira il tenente Gerry Boyle: sui cinquant'anni, scapolo, sovrappeso e un distacco tipo il commissario Winchester dei Simpson. Che tipo sia Boyle lo capiamo dalle prime inquadrature, quando giunge sul luogo di un incidente d'auto causato dalla guida in stato di alterazione da sostanze stupefacenti, e la prima cosa che fa, invece di chiamare il 118 è frugare nelle tasche dei cadaveri dei giovinastri alla ricerca di pillole, per calarsene un paio con indifferenza mentre ammira l'alba. Altro suo hobby è quello di frequentare prostitute attraverso un'agenzia di Dublino. Tanto cosa può succedere di così grave a Galway, giusto? Sbagliato perchè è proprio lì che converge l'agente FBI Wendell Everett (un Don Cheadle in licenza dal socio di Iron Man, War Machine) sulle tracce di un trittico di pericolosissimi e, aggiungo io, letterari trafficanti di droga.

Il film non sarebbe niente di che, se la produzione irlandese non riuscisse a cogliere bene, grazie anche allo splendido contesto naturale, lo stato di distacco dal resto del mondo che si vive da quelle parti, l'orgogliosa diversità dalle province britanniche e la splendida, ottusa diffidenza nei confronti degli stranieri, ai quali magari si parla in gaelico se non li si vuole tra i piedi.
Brendan Gleeson, caratterista molto noto, spesso a suo agio in ruoli in costume (era anche nella saga di Harry Potter) è perfetto per la bucolica parte del poliziotto Doyle. Altro viso noto è quello di Fionnula Flanagan, qui nel ruolo della madre di Gerry, con la quale il protagonista ha un rapporto estremamente franco e ... paritario. 
In sintesi pellicola divertente, tra suggestioni, freddure e quel pò di azione che non guasta mai.E poi l'ho già detto che è irlandese?