giovedì 28 dicembre 2017

Warrior Soul, Back on the lash


Nella storia della musica rock ci sono state e sempre ci saranno band che, pur avendo tutti i numeri per raggiungere la piena affermazione di critica e pubblico: sound, testi, personalità, immagine, restano ai margini della grande popolarità. Per come la vedo io, i Warrior Soul sono una delle grandi icone di questa ingiustizia. Certo, non aiuta il livello di competizione con il quale si è trovato a misurarsi il gruppo, se pensiamo che tra il 1991 e il 1992, anni di uscita dei due capolavori dei WS (Drugs, God and the new republic e Salutations from the ghetto nation) il rock sfornava alcune tra le più importanti pietre miliari degli ultimi trent'anni: l'esordio di Pearl Jam e Rage Against The Machine, Nevermind dei Nirvana, Blood Sugar Sex Magic  dei RHCP e Vulgar display of power dei Pantera, giusto per citare i primi che mi sovvengono. E i Warrior Soul, che non erano inquadrabili nè nel pompatissimo filone grunge, nè nell'agonizzante (ma si sarebbe ripreso) bacino metal, dovevano masticare pane duro.
Una discriminazione dalla quale non si sarebbero più ripresi: se all'apice della loro ispirazione, con le canzoni anarcoidi, punk, indipendenti, orgogliose e bellissime contenute nei due album sopra citati (e aggiungo in Chill Pill e in The space age playboys del 1993 e 1994) non si sono smossi i riscontri auspicabili, era difficile ipotizzare successivi exploit.
Per questa ragione ogni volta che Kory Clarke, singer, frontman e leader indiscusso della band, riesce nell'impresa di incidere un nuovo lavoro, il voto di partenza è, a prescindere, un 7.
Lo premetto perchè in questo Back on the lash sarebbe più facile avanzare critiche che lodi: il suono è diventato più semplice e diretto e di conseguenza spersonalizzato, si sono perse quelle atmosfere dilatate tendenti al psichedelico che facevano da congruo contraltare alle mazzate in faccia dei pezzi più tirati, in alcuni passaggi si odono addirittura echi di AC/DC (la title track e Black out), ma, davvero, chi se ne sbatte, certe volte per come la vedo io bisogna azzerare la parte critico-razionale e limitarsi a muovere il culo a tempo di rock 'n' roll. E questo disco il fondoschiena lo fa muovere in maniera spontanea, con l'aggiunta di testi che menano fendenti all'atrofizzata società americana, nel nome di un'anarchia comportamentale che, vista l'età di Kory, sarà anche affievolita, ma che va sempre bene. La breve ma incisiva opener (American idol) , la trascinantissima I get fucked up e via via fino alla conclusiva That's how we roll ci consegnano un'opera breve (poco più di mezzora di musica) ma tostissima e una band che non vuole saperne di rassegnarsi al fato avverso.

lunedì 25 dicembre 2017

Babbo Bastardo 2 (2016)


Il film di Natale per chi vive le feste ma non sopporta le tonnellate di melassa, consumismo  e ipocrisia dell'evento, non può che essere ancora una volta Babbo bastardo. Ovviamente il volume  due.
Billy Bob Thornton torna nei panni del disadattato, sbandato e alcolizzato Willie Soke, che quel poco che non ottiene rubando e fregando il prossimo, se lo guadagna vestendo i panni di Santa Claus nei periodi natalizi.
Lo avevamo lasciato in fin di vita, crivellato di colpi dai poliziotti, per una crudele ironia, proprio quando stava compiendo l'unica buona azione della sua vita: consegnare un pupazzo ad un bambino (Thurman, interpretato da Brett Kelly) un pò tonto, e lo ritroviamo che, all'apice della disperazione, tenta di impiccarsi nella sua pulciosa abitazione.
Ancora una volta arriva Thurman che, senza nemmeno accorgersi della gravità della situazione, lo salva. Non è l'unico personaggio del primo film a tornare, anche il nano Marcus (Tony Cox) si ripresenta per proporgli una truffa, e, nonostante la diffidenza sviluppatasi tra i due (niente di che, Marcus aveva tentato di ucciderlo), il piano si mette in moto. Le cose si complicano quando Willie scopre che la mente del piano è nientedimeno che la madre degenerata (Kathy Bates) che l'aveva partorito tredicenne in un contesto di miseria e povertà, segnando irrimediabilmente la sua vita.

Non fosse anche a sto giro per l'anima candida di Thurman, che riesce ad attraversare incontaminata le peggiori situazioni di perdizione, Babbo Bastardo 2 sarebbe un bombardamento al napalm non solo sul Natale, ma su tutto quello che rappresenta la società borghese americana e l'istituzione stessa della famiglia. Il canone della commedia e del paradosso non riesce fino in fondo a mettere in secondo piano la malinconia e la disperazione delle vite messe in scena attraverso iperbole narrative da Mark Waters (regia) e Shauna Cross (soggetto e sceneggiatura). Il film ha un linguaggio volgare veramente ai limiti (basta ascoltare come Sunny/Kathy Bates ricorda il concepimento di Willie) e scene di sesso, benchè parodistiche, diffuse e continue. Diversi gli highlights: intanto, finalmente qualcuno che dice a Christina Hendricks (Diane, moglie del pollo da rapinare) quello che tutti da sempre abbiamo in mente: "hai delle tette veramente enormi!" (Willie in un impeto di romanticismo) e poi i dialoghi tra Willie e la madre, lo stesso Willie che viene "rianimato" in ospedale dalla Hendricks con una terapia a base di hand job, gli odiati incontri coi bambini che chiedono regali.
Insomma, se volete far sloggiare da casa vostra parenti antipatici e magari pure un pò bacchettoni, mettete su Babbo bastardo 2. Il risultato è garantito.

E buon Natale a tutti da Bottle of Smoke.

giovedì 21 dicembre 2017

The Waterboys, Out of all this blue


Che bello non avere più niente da dimostrare a nessuno, e dopo aver riaccarezzato il suono che ti ha reso uno dei riferimenti del folk rock moderno (con Modern blues, di due anni fa), infischiarsene della critica e realizzare nientedimeno che un doppio CD  (disponibile anche in versione tripla) di ventitrè tracce, musicalmente orientato ad un pop colto, raffinato ed elegante.
Si dice che Mike Scott stia attraversando una fase estremamente felice della sua vita personale, che sia innamorato (e che l'amata sia di origini giapponesi, come si evince dal breve skit al termine di Didn't we walk on water e dal titolo della traccia numero diciannove: Rokudenashiko, oltre che da altri riferimenti a luoghi del Giappone), in armonia col mondo, prolifico come non mai, etc. etc. .
Viene da crederci, perchè i pezzi contenuti in questo Out of all this blue (titolo più programmatico che mai) , a partire dall'opener Do we choose who we love, sono la migliore cartina tornasole possibile, così fitti di cori, controcanti, tastiere vintage e dotati di una modalità espressiva di Mike al tempo stesso classica e innovativa.
Ovvio che dentro un'opera molto vasta, che contiene così tanta roba e le influenze più diverse, sia inevitabile assistere a cali di tensione, ma per quello che mi riguarda due terzi abbondanti delle composizioni presenti sono da celebrare con assoluto favore e reverenza. 
Oltre alla già segnalata traccia d'apertura, pezzi come If I was your boyfriend, la divertentissima If the answer is yeah, The Connemara fox, ma in generale tutta la prima parte dell'album, fanno sembrare semplice l'esercizio più difficile di tutti: la ricerca di una melodia catchy che non sia scontata e banale. Tolto qualche filler (Girl in kayak; Skyclad lad; Rokudenashiko), anche il secondo CD si mantiene su livelli più che buoni, con l'impennata di una Nashville, Tennesse, che rimette in pista il sound dei "vecchi" Waterboys e una Didn't we walk on water, che soffia via la polvere dal sound degli Style Council.

Out of all this blue ha ottenuto in rete più stroncature che elogi, probabilmente sono io ad essere sordo, perchè penso invece che con il quattordicesimo lavoro di Scott (tra band e uscite soliste), ci troviamo di fronte ad un'opera che delinea la sua meravigliosa dimensione proprio nell'essere fuori dalla canonica tazza di tè del suo autore. Un disco insomma imprevedibile, spiazzante e personalissimo: più dalle parti di Dan Auerbach che da quelle dei Chieftains.

lunedì 18 dicembre 2017

La notte del giudizio (2013)

Risultati immagini per la notte del giudizio locandina

In un distopico futuro prossimo (2022), negli Stati Uniti i tassi di criminalità, così come il numero di omicidi, sono ai minimi storici. Di pari passo, aumenta la percezione di sicurezza, con effetti positivi anche sull'occupazione. Come si è giunti a questo risultato? E' semplice, i Nuovi Padri Fondatori dello Stato permettono che un giorno all'anno, per la durata di dodici ore (dalle 19:00 alle 07:00), la popolazione sia sostanzialmente libera di mettere in pratica qualunque atto di violenza, omicidio compreso, contro chiunque (fatto salvo politici e forze dell'ordine), senza doverne rispondere alla legge. Durante questo orizzonte temporale non viene concessa assistenza medica, che viene ripristinata, assieme alle normali regole civili, solo al termine delle dodici ore. 
Il risultato è che le persone più abbienti sono (relativamente) al sicuro dentro strutture fortificate, mentre le classi meno abbienti, gli homeless, i disadattati sono alla mercè degli assassini. 
La famiglia Sandin, composta dal padre James (Ethan Hawke), dalla madre Mary (Lena Headey, la Cersei de Il trono di spade) e due figli, fa parte della upper class, e come tale alle 19:00 in punto si sigilla nella casa-fortezza, ma l'iniziativa del figlio più piccolo, che mosso a compassione permette ad un poveraccio braccato di entrare tra le mura domestiche, metterà a rischio non solo l'incolumità fisica della famiglia, ma anche la solidità dei suoi valori morali.

Che James DeMonaco, regista e sceneggiatore  di questo La notte del giudizio (in originale il molto più sintetico ed efficace The purge), abbia mandato a memoria il lavoro di John Carpenter risulta chiaro ed evidente anche ad un marziano. I temi dell'assedio e della differenza di classe nella società americana sono troppo evidenti e rumorosi per passare inosservati. Però l'idea alla base del film è di quelle che lasciano il segno. Una provocazione intelligente e non così lontana dalla realtà come sarebbe lecito pensare, basta ascoltare le convincenti motivazioni riportate ossessivamente dai media dentro al film e i ragionamenti degli stessi protagonisti, mixarli con la deriva reazionaria innestata da Trump (anche se il film esce nel 2013, in piena presidenza Obama) e lo scenario improvvisamente si avvicina.
Il film diverte e induce a pensare, questo penso sia il suo più grosso pregio, in quanto a tensione e scarejump invece si difende, ma senza eccellere in maniera particolare rispetto alla media del genere. 
La notte del giudizio ha già avuto due sequel, sempre girati da DeMonaco: Anarchia del 2014 e Election year del 2016. E' in lavorazione una quarta pellicola, stavolta un prequel (The island), che dovrebbe uscire nel 2018. 

giovedì 14 dicembre 2017

John Mellencamp, Sad clowns & hillbillies



Con la paziente metodicità che lo contraddistingue in questa parte della carriera, a tre anni dal precedente Plain spoken  (e a quarantuno dal debutto Chestnut street incident), John Mellencamp rilascia il suo ventitreesimo lavoro di studio.

E Sad clowns and hillbillies è un disco particolare, un grande fiume placido alimentato da tanti affluenti diversi, con canzoni che riemergono da cassetti dove erano state riposte da tempo (Sugar hill mountain, scritta per la colonna sonora del film Ithaca - diretto da Meg Ryan, ex del Coguaro - ; What kind of man I am e You are blind - rispettivamente di Kris Kristofferson e Ryan Bingham - già contenute nel soundtrack del musical Ghost brothers of darkland country; All night talk radio, outtakes di Mr Happy go luck del 1996), collaborazioni low profile, come quella con la country singer Carlene Carter (figlia di prime nozze di June Carter e quindi discendente della gloriosa Carter Family) della quale Mellencamp si deve essere artisticamente innamorato, visto che l'ha voluta ad aprire tutte le date del tour precedente e che duetta con lui su ben cinque tracce delle tredici previste; contributi inaspettati, come per Grandview, pezzo del repertorio del cugino di John, artista minore di una band dell'Indiana.

Detta così l'album potrebbe apparire come una scatola contenente tessere di diversi puzzle che non hanno possibilità di armonizzarsi. In realtà il risultato finale è un'opera 100% mellencampiana, che musicalmente riserva è vero, poche novità, ma che nasconde dietro il suo andamento pigro tipicamente del sud americano, una grande anima sociale e introspettiva, cifra autoriale consolidata dell’artista.
Come un vecchio ma affascinate pick-up diesel, il disco parte in maniera lenta, quasi svogliata, ma, raggiunto il numero giusto di giri, tiene la strada che è una meraviglia mettendo il passeggero nella condizione più agevole per intraprendere un viaggio suggestivo e affascinate che raggiunge luoghi malinconici (Mobile blue; Battle of angels), concede accelerate da vecchio Coguaro (All night talk radio e Grandview, featuring Martina Mc Bride), scorci per innamorati (Indigo sunset), soste dai sapori speziati nella migliore tradizione old time dixieland (Sugar Hills mountains e Sad clowns), e un finale che è un autentico colpo di coda, grazie al dittico composto da una poesia di Woodie Guthrie, messa in musica su espressa richiesta della figlia del più importante degli hillbillies, che diventa un magnifico spiritual (My soul’s got wings) e una Easy target, forse il mio pezzo preferito, in cui John incontra le atmosfere del Tom Waits periodo Blue Valentine.

Ad ascoltare quanta passione per la musica tradizionale americana Mellencamp riesca ancora a mettere nelle sue opere (questa è sicuramente da annoverare tra le migliori degli ultimi tre lustri), aumenta in maniera esponenziale l’amarezza per l’amore mai sbocciato tra il rocker dell’Indiana e l’Italia, certificato purtroppo dall'esito zoppicante dell'unico, attesissimo concerto in quel di Vigevano  (che comunque si è meritato una doppia recensione, qui e qui).  Se il messaggio è: fatevi abbastare i miei dischi, con lavori della qualità di Sad clowns & hillbillies ce la possiamo anche fare.

lunedì 11 dicembre 2017

Sette note in nero (1977)



Nella sua lunghissima carriera artistica, che, limitandosi al lavoro da regista, l’ha visto esordire nel 1959 con Totò e Fred Buscaglione (I ladri) per poi girare ogni tipo di genere cinematografico (dai musicarelli alle commedie ai film con Franco e Ciccio, ai western ai thriler alla fantascienza all’horror), Lucio Fulci è stato costantemente inviso alla critica italiana, anche quando quella internazionale (Francia e USA su tutti) al contrario lo osannava (soprattutto in tema di horror) per il suo stile, la sua messa in scena e le sue trovate innovative, che assumevano un valore ancora più elevato se si pensa che venivano realizzate con budget ridicoli.
Il tempo, una volta tanto è stato galantuomo, se oggi il regista è stato completamente rivalutato ed è diventato oggetto di culto di tanti appassionati cinefili italiani (che magari si sono convertiti anche grazie a registi come Raimi o Tarantino che non hanno mai nascosto la loro adorazione per il cineasta romano), ma quarantanni fa una delle poche eccezioni alla regola degli strali del giornalismo italiano fu Sette note in nero, uscito nel 1977, che riuscì nell'impresa di coniugare un buon successo di critica e di pubblico.
Rivedendolo, se ne colgono al volo le motivazioni trattandosi di un film teso, serrato, nel quale suspance, paure ancestrali e inconscio si prendono il proscenio lasciando al sangue un ruolo marginalissimo in quanto totalmente superfluo alla narrazione.

Virginia (una meravigliosa Jennifer O’Neil), che ha subito un trauma infantile avendo avuto una visione che anticipava il suicidio della madre, da adulta comincia ad avere nuove visioni, nelle quali assiste a flash che le mostrano una donna colpita a morte che viene murata ancora agonizzante. Virginia, che è assistita da un psicoterapeuta, attraverso improvvisi flash comincia a scoprire sempre più particolari della scena, individuando in un casale di campagna abbandonato, di proprietà del neo marito (Gianni Garko) la stanza dove avviene il delitto delle sue premonizioni e scoprendo anche che, nel punto preciso da lei “visto” è murato lo scheletro di quella che si scoprirà essere una giovane donna. Ma non è quello il delitto che la O’Neil vede chiaramente nelle sue visioni…

Fulci riesce a mettere in scena una storia che si sviluppa a spirale, trasmettendo angoscia e tensione, in bilico tra stilemi narrativi cari a Poe e dinamiche che richiamano Hitchcock, potendo contare nella colonna sonora di un main theme che segue gli stilemi del periodo (L’esorcista di Mike Olfield, Suspiria dei Goblin) in maniera spaventosamente efficace (per la cronaca le note del tema che prende il titolo dal film, composte da Frizzi, Bixio e Tempera, sono riprese da Tarantino in Kill Bill nella sequenza in cui la Thurman si sveglia dal coma e aggredisce l’infermiere stupratore). 
Insomma, Sette note in nero si merita l'appellativo di classico (magari minore) della filmografia thriller italiana, che mantiene, a quarant'anni di distanza dalla sua uscita, tutto il suo impatto sullo spettatore.

giovedì 7 dicembre 2017

Massimo Carlotto, Il fuggiasco


Massimo Carlotto, padovano, classe 1956, rappresenta forse il più clamoroso caso giudiziario della storia italiana. Figlio di una famiglia benestante, militante di Lotta Continua, nemmeno ventenne scopre il delitto di una ragazza sua vicina di casa per il quale verrà poi accusato.
Da qui comincia un incredibile vicenda che durerà diciassette anni, alimentati da paradossali e kafkiane contorsioni del sistema giudiziario italiano. Parte di questi anni saranno vissuti da Carlotto in clandestinità, prima in Francia e poi in Messico.
Il fuggiasco racconta quel periodo straziante della vita del suo autore, soffermandosi sulle preziose amicizie con gli altri esuli, sui subdoli approfittatori, sulle modalità che il protagonista si impone per diventare sfocato, fuori campo, nell'immagine complessiva della metropoli scelta per sfuggire al carcere.
Lasciano particolarmente il segno le strategie messe in atto per mimetizzarsi in maniera più efficace nella folla, i personaggi interpretati minuziosamente, nemmeno Massimo fosse un attore che si debba calare nella parte del sofisticato Bernard piuttosto che dell'intellettuale Gustave o del turistello Lucien, oppure i movimenti logistici accuratamente selezionati per evitare quanto più possibile i controlli delle forze dell'ordine.
Il periodo messicano è quello probabilmente più buio e disperato, non solo per il tradimento che Carlotto subisce a Città del Messico, ma anche per la descrizione di un non luogo in cui la persona comune può smettere di esistere da un momento all'altro (vittima della violenza di strada o delle autorità locali), nella disperazione della propria famiglia, ma nella totale rassegnazione e indifferenza generale.
Il racconto è lucido e accurato, c'è spazio per lo sfinimento psicofisico, ma anche per l'amore sconfinato e disinteressato di famiglia e amici, e anche per un pò di ironia.
Carlotto fotografa quegli anni senza soffermarsi sulla causa all'origine della latitanza (il delitto del 1976), la vicenda è riportata, per titoli, nell'appendice del romanzo. Per approfondirla in maniera più dettagliata è consigliabile una ricerca in rete.
Il fuggiasco rappresenta l'inizio di un'ottima carriera letteraria del suo autore, che si afferma negli anni come uno dei migliori scrittori noir italiani, offrendo al cinema più di un soggetto da trasportare sul grande schermo, proprio a partire da questo libro, che nel 2003 diventa un film dal titolo omonimo.

lunedì 4 dicembre 2017

Machete (2010)


Sarà stato anche un divertissement, ma intanto Machete ha la responsabilità di aver scritto il manifesto elettorale di Trump, almeno per quanto concerne il tema dell'immigrazione messicana. Il subdolo e disonesto politico McLaughlin (Robert De Niro) infatti, promette ai suoi elettori la costruzione di un muro (elettrificato) che divida i confini USA da quelli messicani, e che le spese per erigerlo saranno fatte far pagare al Messico. Si scoprirà poi che la cosa è orchestrata assieme a Torrez (Steven Seagal), il signore della droga d'oltreconfine, al quale il provvedimento serve per una questione di strategia commerciale dello spaccio. Chissà se tra i tanti guai che sta passando Trump, Robert Rodriguez (regista del film), avrà anticipato anche questo?

Machete (Danny Trejio) è il soprannome di Cortez, probabilmente l'unico federales onesto di tutto il Messico, al quale, per essersi messo contro Torrez, vengono uccisi moglie e figlia, in una sequenza iniziale che dà subito il tiro del film: Machete libera una ragazza rapita, trovandola completamente nuda. La ragazza in realtà è in combutta con Torrez e dopo aver ferito Machete (che era entrato nell'avamposto nemico con l'arma all'origine del suo soprannome, mozzando teste e arti come se non ci fosse un domani), estrae un telefonino dalla vagina e chiama gli sgherri del suo capo. 
Anni dopo, Machete, devastato dal dolore per la perdita della famiglia, vive alla giornata con lavori saltuari finchè non viene coinvolto suo malgrado in un complotto ordito dallo staff del senatore razzista McLaughin. Lo sviluppo della macchinazione gli concederà la possibilità di vendicarsi di Torrez, grazie all'aiuto dell'agente della migra Rivera (una poco credibile Jessica Alba) e di Luz (Michelle Rodriguez), una combattente messicana in incognito.
Il finale realizza il sogno che coltivo da una vita, ogni volta che sento parlare i politici delle varie Leghe, Fratellanze d'Italia e Forze Nuove assortite: tutti i lavoratori stranieri (in questo caso messicani) utilizzati in America: giardinieri, edili, lavapiatti, stradali, si coalizzano per abbattere il braccio armato anti-immigrazione guidato dal reazionario Von Jackson (Don Johnson) attraverso la sua milizia di redneck armata fino ai denti. La sequenza con il corteo composto dalle classiche macchine taroccate in stile messicano (Ellroy le chiamava "tacomobile"), con colori fiammeggianti e sospensioni assurde, che, come una parata militare, si avvicina al luogo dello scontro, è qualcosa di memorabile.

Rodriguez con Machete si gioca bene la carta dell'ironia e del'autoironia rispetto alla miriade di luoghi comuni non solo americani contro i messicani in America, ma anche all'interno stesso della comunità (cosa magari meno facile). Il cast è superlativo (oltre agli attori già citati sono presenti Jeff Fahey, Cheech Marin e Lindsay Lohan nel ruolo di un dissoluto troione per il quale immagino debba aver fatto fatica ad immedesimarsi), la regia da B movie impeccabile, la monoespressività di Danny Trejo epocale, i livelli di splatter coerenti con il mood del film. 
Insomma divertimento garantito.