giovedì 28 settembre 2017

Gang, Calibro 77



Gli album di cover vivono di equilibri difficili e precari. Sono in molti ad esempio a sostenere che il ricorso al tribute album sia segnale inequivocabile dell'accensione della spia della riserva per l'artista in questione. E' altresì opinione diffusa che reinterpretare pezzi altrui abbia senso a condizione di sottoporli a stravolgimento o che le uniche cover che valga la pena proporre siano quelle di canzoni misconosciute, al nobile scopo di divulgarle ad un'audience più vasta.
Onestamente, non ho l'impressione che Calibro 77 dei Gang ci consegni una band in disgrazia, tutt'altro. Certo, i tempi della cosiddetta Età del pane (la trilogia che comprende gli album usciti tra il 1991 e il 1995, recentemente rieditata in cofanetto) sono lontani, ma i Severini hanno ampiamente dimostrato con il recente Sangue e cenere (disco dell'anno 2015 per Bottle of smoke), di avere ancora stimoli e passione, e di saperli magistralmente intrecciare come il giorno uno.
E allora questo tributo ad una manciata di artisti e di canzoni, ma soprattutto ad un periodo storico (gli anni settanta) intenso, saturo di idealismi, drammatico ed irripetibile della nostra storia, ha valenza di sincera e tenace testimonianza, fuori da ogni obbligo di presenzialismo discografico.

L'atmosfera del disco trova il proprio perfetto bilanciamento tra canzoni note e brani più oscuri, creando la giusta convivenza tra ristrutturazioni radicali e riletture rispettose, con una costante grande attenzione per i testi dei pezzi, che a prescindere dal pattern scelto, restano in doveroso primo piano.
Senza dimenticare che l'altro aspetto fondamentale tra quelli necessari per la riuscita di un album di cover è quello di farlo diventare personale al punto da tramutarlo, alle orecchie di chi ascolta, in un lavoro totalmente in linea con lo stile dell'artista.
Difficile, ascoltando la reinterpretazione di un big come De Gregori e della sua surreale Cercando un altro Egitto, qui proposta in versione accelerata con tanto di pattern di fiati, non riconoscere il grande lavoro di personalizzazione fatto dai Gang.
Così come è impossibile restare fermi in presenza del furioso rock and roll cucito attorno a Questa casa non la mollerò di Ricky Gianco, le cui liriche sono incentrate sull'occupazione delle case, tema che negli anni settanta aveva una valenza politica del tutto diversa dalla sopraffazione alla quale spesso assistiamo in questi anni di mercimonio delinquenziale delle case pubbliche.
Il mood che i Severini ricreano, masticandolo insieme al proprio brand sonoro consolidato, è, grazie anche alla conferma in fase di produzione di Jono Manson, riconducibile al genere chiamato americana (nel quale, per semplificare, confluiscono blues, folk e country), come emerge chiaramente dall'opener  Sulla strada, che arriva da Sugo, uno dei dischi più celebrati di Eugenio Finardi, qui vestita da un driven blues  veloce e d'impatto.
Sotto la voce pezzi irriconoscibili troviamo senza dubbio Sebastiano, in origine scritto e interpretato da Ivan Della Mea con uno stile asciutto che, riascoltato oggi, sembra quasi una versione caricaturale di Guccini, e che viene riproposto dai Gang con la spina degli strumenti ben attaccata e un impeto rock che esalta le liriche di denuncia dei comportamenti dei "padroni" di allora, non così diversi da quelli degli "imprenditori" moderni.
E a proposito di Guccini, a sorpresa, la sua Un altro giorno è andato, che si offriva geneticamente ad una versione country veloce, è invece proposta come splendida ballata in crescendo. Il De Andrè della epocale Canzone del maggio (dal notissimo passaggio "anche se voi vi credete assolti/ siete per sempre coinvolti" ) è resa invece con misura e rispetto, e non poteva essere altrimenti. Viceversa non perfettamente riuscita Venderò di Edoardo Bennato (altro pezzo gigantesco della musica italiana), una canzone apparentemente semplice da eseguire, ma che è dannatamente difficile da migliorare. 
In compenso il dinamitardo errebì di Non è una malattia (Gianfranco Manfredi) spazza via ogni dubbio rispetto alla bontà dell'operazione e prepara il campo alla lucida disperazione de I reduci di Giorgio Gaber.

Calibro 77 raggiunge quindi l'obiettivo di ricreare il clima di una stagione meravigliosa, tesa, contraddittoria e satura di passione politica.
Attraverso la fotografia nitida di queste undici canzoni, i Gang ci sbattono in faccia uno scenario ben nascosto davanti ai nostri occhi. Dopo quarant'anni di storia italiana infatti, i problemi sono tornati ad essere gli stessi: disoccupazione, morti sul lavoro, sfruttamento, alienazione, immigrazione, diritto violato alla casa. A parità di struggimenti cos'è cambiato allora se non noi, che non ci sentiamo più parte di una classe tenuta insieme da pari condizioni e rivendicazioni, frantumati tra giovani e anziani, occupati e disoccupati, occupati tutelati e precari, italiani e stranieri (oggi il Sebastiano della canzone di Della Mea si chiamerebbe probabilmente Ahmed), perennemente colpiti da tante armi di distrazione di massa e convinti che il nostro fondamentale post su facebook (o su un blog) possa cambiare il mondo. 
Che ci sia ancora qualcuno che riesce a farci riflettere su questa condizione, di per sé è già una gran cosa.

Anche per questo Calibro 77 è il secondo disco emozionale del 2017 (questo il primo).

lunedì 25 settembre 2017

Barry Seal


Barry Seal è un pilota della TWA che, a causa di piccoli traffici illegali (i soliti sigari cubani), viene intercettato dalla Compagnia e arruolato, quale alternativa al carcere, per viaggi illegali in America Latina nell'ambito dei rapporti che gli U.S.A. tenevano con gli oppositori del crescente consenso comunista di quelle parti. Nel corso di questi raid viene agganciato dal nascente cartello di Medellin (sì, proprio Escobar e soci) che gli propone, sfruttando le tratte effettuate per conto della CIA, di trasportare tonnellate di coca sul suolo americano. Il compenso è quello giusto e Barry accetta.

Le basi per un film convincente c'erano tutte: lo spunto avvincente da una storia vera, un riferimento criminale quantomai di moda (vedi il successo della serie tv Narcos) e, magari solo per il sottoscritto, la rievocazione di una stagione, quella di Reagan e della sanguinaria ingerenza USA nell'America Latina, di cui non si parlerà mai abbastanza. Invece la produzione e il regista Doug Liman scelgono il tono leggero (e fin qui non sarebbe uno scandalo), ma, soprattutto, mettono in scena una storia sfilacciata, coi personaggi principali senza uno straccio di profondità, di caratterizzazione, di spessore: siccome Seal (Tom Cruise), non si sente realizzato nella sua professione di comandante dei voli di linea TWA, non esita a farsi arruolare in pericolosissime missioni segrete CIA ed esita ancora meno a fare da corriere della droga per un'organizzazione criminale colombiana. La moglie (Sarah Wright) si fa un po' di menate quando non capisce cosa stia succedendo, ma poi, quando i soldi arrivano a camionate e viene introdotta nell'alta società dei narcos colombiani, allora tutto va a posto. Per non dire che, nel segno della presunta, rivoltante superiorità americana, i nicaraguensi vengono mostrati come una manica di cavernicoli sottosviluppati o che la critica al sistema di politica estera creato da Reagan ne esca banalizzata, quasi come, se aver contribuito a trucidare migliaia di persone, fosse una marachella. Infine, se vogliamo, va bene che un film "tratto da una storia vera" non debba per forza essere verosimile anche nella rappresentazione dei personaggi, ma davvero, la produzione non fa nessuno sforzo per avvicinare i tratti di Tom Cruise a quelli del vero Barry Seal.

Alla fine il problema è probabilmente uno solo, negli ultimi anni qualunque film con Tom Cruise, prima di ogni altra cosa è un film con Tom Cruise. Il che significa un intero progetto al servizio dell'attore, invece che, come dovrebbe essere, l'attore al servizio del progetto.
Aridatece Blow.

giovedì 21 settembre 2017

George Thorogood, Party of one


Torna alle origini del blues, George Thorogood. Non sarebbe una novità per il diversamente giovane (il prossimo febbraio compirà sessantotto anni) del Delawere, se non fosse che questa volta, a differenza dei tanti tributi ai grandi del genere incisi senza soluzione di continuità già a partire dal debutto del 1977, l'artista si sia totalmente immedesimato nei panni dei bluesman più genuino: quello che si esibiva in strada con la chitarra attaccata ad un piccolo amplificatore, coadiuvato qua e là da un'armonica o dalla sola grancassa, intrattenendo passanti e turisti: da qui l'efficace titolo di Party of one.
L'attacco, e viene da dire non potrebbe essere altrimenti, è per Steady rollin' man di Robert Johnson e subito le carte vengono girate sul tavolo, non c'è trucco non c'è inganno, solo la quintessenza del blues proposta da uno che ne ha fatto la sua ragione di vita.
La lista degli autori scelti per compilare il disco, se da una parte non rivela grosse sorprese, con John Lee Hooker (Boogie chillen; The hookers, One bourbon, one scotch, one beer), Elmore James (Got to move; The sky is crying) e Willie Dixon (Wang dang doodle) a pretendere il loro tributo di sangue, dall'altra rivela la passione di Thorogood per il country/folk più tradizionale, con riproposizioni di Hank Williams (la bellissima e straziante Picture from life's other side); Gary Nichols (Soft spot, da repertorio di Johnny Cash), John Loudermilk (Bad news, che invece del repertorio di Cash lo è davvero stata). 
Non si può che apprezzare anche l'implicito ringraziamento che George fa al lavoro di rilancio del blues da parte di due icone musicali dello scorso secolo che rispondono a nome di Bob Dylan (Down the highway) e Rolling Stones (l'indimenticabile No expetactions, da Beggars Banquet del 1968). 
 
Party of one di Thorogood mi ha ricordato certe operazioni di Neil Young (lo strepitoso Le noise, la più recente) dove si fatica a ricondurre le composizioni agli esiti intimistici e introspettivi normalmente derivanti da opere per solo voce e chitarra. A dimostrazione che non sempre lavorare per sottrazione tolga ritmo e saturazione sonora al risultato finale. 
Poi certo, aiuta chiamarsi George Thorogood.

lunedì 18 settembre 2017

Il maledetto United (2009)


E' dannatamente difficile rendere lo sport sul grande schermo. Ad eccezione della boxe, alla quale è riservata una vastissima e spesso ottima filmografia, le altre discipline arrancano nel trasmettere il realismo e la passione che le contraddistinguono. Il calcio non fa eccezione, anzi, il calcio in primis, nonostante sia, soprattutto nel vecchio continente, uno degli sport da sempre più seguiti,  raramente è stato mostrato in maniera efficace e quando è successo (Fuga per la vittoria, il bellissimo Febbre a 90°, il nostrano Italia - Germania 4-3) è stato messo al servizio di una storia più ampia.

In questo non esaltante scenario risalta Il maledetto United del regista Tom Hooper, che racconta i quattro mesi in cui l'allenatore Brian Clough (interpretato da Michael Sheen) ha disastrosamente allenato l'allora top team inglese Leeds United. Clough arrivava dal miracolo Derby County, squadra che ha portato dagli ultimi posti della Seconda Divisione inglese fino alla promozione in Prima Divisione e poi alla conquista del titolo. Nonostante un allontanamento burrascoso dal club dello Yorkshire, viene chiamato ad allenare il prestigioso Leeds, rimasto orfano dello storico allenatore Don Reavie (lo spettacolare Colm Meaney) passato alla guida della nazionale inglese.
Brian Clough è un allenatore tanto dotato, innovativo, tenace quanto ambizioso e arrogante. Il primo ad usare i media come proprio megafono e a puntare molto più sull'aspetto motivazionale nel rapporto coi suoi giocatori che sulla tattica (giusto per dire che Mourinho tutto sommato non ha inventato niente di nuovo).

La pellicola si gioca tutto su due rapporti personali, quello con il fido vice Peter Taylor (il grande caratterista Timothy Spall), che bilancia e completa, anche caratterialmente, Clough, e l'accesa rivalità con l'ex allenatore del Leeds, Don Reavie, personaggio spigoloso che predilige il gioco "maschio", duro e sleale. La narrazione procede su due binari: il presente (1974) e quello collocato sei anni indietro, a ricostruire la genesi dell'arrivo di Clough a Leeds. La ricostruzione dell'Inghilterra dell'epoca è molto calibrata, non potendo probabilmente contare su grandi budget, la fotografia si concentra su singoli edifici, squarci e interni, risultando comunque suggestiva ed efficace. Le riprese di gioco girate appositamente sono ridotte al minimo necessario, si ricorre ad immagini d'epoca o a stratagemmi riusciti, come quello di Clough che segue la partita dagli scalcinati spogliatoi del Derby, con le strette vetrate opache che rimandano l'ombra degli spettatori e i rumori dagli spalti a sottolineare il corso della partita.

Film da vedere, non tanto dagli ultras del calcio, ma dai veri appassionati di questo sport, che hanno l'occasione di conoscere un mito del football inglese (Clough dopo l'esperienza negativa al Leeds raggiungerà risultati sportivi tutt'oggi ineguagliati alla guida del Notthingam Forest), tra i pochi del mondo ignorante del football ad essere ricordato anche attraverso le sue citazioni, e che ha avuto anche modo di incrociare la sua lingua tagliente con l'Italia e la sua stampa, quando nel 1973 si lamentò dell'arbitraggio di una semifinale d'andata di coppa U.E.F.A. contro la Juventus, arrivando a denunciare che la società bianconera avesse pagato l'arbitro. Per la cronaca, nella partita di ritorno, che decretò l'eliminazione del Deby County dalla competizione, l'arbitro designato, il portoghese Marques Lobo inoltrò un esposto alla federazione proprio per un tentativo di corruzione subito dalla Juventus.
Un film che ci riporta ad un calcio d'altri tempi: brutto, sporco e cattivo, ma maledettamente affascinante, nel quale un personaggio come Brian Clough risplendeva come una supernova.

giovedì 14 settembre 2017

I migliori della vita: John Coltrane, My favorite things (1961)


Il mio tentativo di appassionarmi alla musica jazz nasceva, prima ancora di ogni altro aspetto sonoro, dall'enorme fascino che quel mondo ha sempre esercitato nei miei confronti. Infatti, il jazz è l'unico caso in cui sono arrivato ad un genere musicale non attraverso l'ascolto, ma dalla lettura delle gesta dei suoi autori. Due, i testi per me fondamentali: l'autobiografia di Miles Davis, tomo irrinunciabile per qualunque appassionato non solo di arte ma anche di storia e società USA, e quella di Charles Mingus, anche qui un pezzo di epopea del popolo afroamericano condito da tanta pulsione sessuale alternata occasionalmente da qualche aneddoto musicale.
Purtroppo la passione vera per questo genere non è mai deflagrata, nonostante mi sia procurato, nel tempo, una trentina di album "obbligatori", cercando di approfondire i diversi stili e sottogeneri che si sono susseguiti soprattutto dagli anni venti ai primi settanta, dalle big band fino alla fusion.
 
Dovessi fare un consuntivo, ci sono però due album che sono entrati a far parte del mio bagaglio culturale ed emotivo al pari, chessò, di Darkness on the edge of town di Springsteen, London Calling dei Clash, Vulgar display of power dei Pantera, Highway 61 di Dylan o If I should fall from grace with god dei Pogues.
Sto parlando di Kind of blue di Miles Davis e My favorite things di John Coltrane. 
Considerando che Coltrane è anche figura portante del personnel del disco di Davis, risulta evidente quanto sia centrale, nel mio avvicinamento al jazz, questo enorme personaggio.
 
My favorite things è stato pubblicato a marzo del 1961 in un momento speciale di ispirazione per Coltrane (solo un anno prima era stato pubblicato Kind of blue), che si è liberato dalla scimmia dell'eroina, ha trovato la fede e dedica quasi ogni momento della giornata a suonare, cercando di superare costantemente i suoi limiti.
Come nella collaborazione con Davis, anche My favorite things è suonato nello stile modale, ed è sorretto da quattro composizioni, rielaborazioni di tracce che nel tempo sarebbero diventate standard assoluti e irrinunciabili, patrimonio non solo del jazz ma, erga omnes, di tutta la musica.
 
La title track, deputata ad aprire il lavoro, è un autentico capolavoro. A ragione si può parlare, riferendosi al jazz, di un prima dell'interpretazione di My favorite things e di un dopo, completamente differente.
Il pezzo è sostenuto da un pattern monumentale eseguito da John che, per come si imprime nel cuore, nella pancia e nel cervello, è quanto di più simile ad un riff di un brano blues, rock o heavy. Il tema portante rimbalza tra sax di Trane e piano di McCoy Tyner: si attorciglia, si perde tra le altre note, assottigliandosi fino quasi a scomparire, per poi risalire prepotentemente ad esplodere, in un caos calmo inebriante. My favorite things dura tredici minuti e quarantuno secondi e non c'è nemmeno una frazione di tempo di troppo, anzi, vorresti che ne durasse il doppio. Considerazione non insignificante, se sostenuta da uno come il sottoscritto che notoriamente non ama le lunghe suites strumentali. 
Coltrane, come Hendrix, va oltre la mera riproposizione di un brano di altri, lo reinventa donandogli l'immortalità. E se nutrite perplessità, confrontate l'originale canzoncina in stile Disney (composta da Richard Rodgers e Oscar Hammerstein II per Tutti insieme appassionatamente) con la rielaborazione di Coltrane e, se non siete sordi, traetene le conseguenze.
La magia dell'ispirazione divina di quei giorni pervade anche il resto del lavoro, con Everytime we say goodbye di Cole Porter (ripresa con successo negli ottanta dai Simply Red) e due pezzi di Gershwin: But not for me e Summertime, il suo brano più iconografico e reintrepretato di sempre (Ella Fitzgerald & Louis Amstrong, Miles Davis, Doc Watson, Janis Joplin e un'infinità di altri)  a comporre un'affascinante affresco che non perde nulla della sua abbacinante bellezza a quasi sessant'anni di distanza.
 
My favorite things non è un disco di cui vantarsi perchè "fa curriculum". E' un'opera che contribuisce a rendere migliore la razza umana.

lunedì 11 settembre 2017

Dunkirk


ATTENZIONE! POTREI SPOILERARE

Me la potrei cavare facilmente: su Dunkirk c'è poco da raccontare, va solo visto.
Sarebbe una soluzione furbetta, ma tutto sommato non così subdola, visto che Christopher Nolan, a quanto pare, avesse intenzione di girare il film senza l'ausilio di una sceneggiatura e che solo a fronte dei problemi incontrati (evidentemente anche ad un regista in odore di santità la produzione può negare qualcosa) alla fine abbia preparato uno script tra i più brevi di sempre (settantacinque pagine) per dare alla potenza delle immagini il ruolo di comunicatore assoluto che, nell'idea del regista di Inception, meritavano.

La storia riprende dei fatti misconosciuti fuori dalle latitudini britanniche, ma motivo di smisurato orgoglio inglese. Tra il maggio e il giugno del 1940, all'inizio della seconda guerra mondiale, l'esercito di Sua Maestà (circa quattrocentomila soldati) resta intrappolato sulla spiaggia di Dunkirk, nel nord dell'alleata Francia, con l'avanzata a tenaglia dei nazisti che gli impedisce di rinculare verso la terra e i bassi fondali del mare che rendono impossibile l'attracco delle navi per portarli in salvo.
Il film riporta gli eventi della settimana decisiva per la sorte dei soldati, attraverso tre linee temporali sfasate che si concentrano sugli avvenimenti di mare, cielo e molo.

Nolan gigioneggia senza rivali in questa produzione da cento milioni di dollari (che ne ha già incassati quasi cinque volte tanto), portando a casa un risultato che visivamente ha davvero pochi eguali. Elementi quali una fotografia fredda, metallica resa attraverso luci filtrate, opache, un montaggio che accelera e rallenta, assecondando opportunamente le varie fasi della narrazione, il sonoro realistico, devastante, con i rumori dell'artiglieria e delle bombe spesso a coprire i dialoghi in uno sfoggio di realismo mai fine a sé stesso, vanno a comporre l'insieme di una rappresentazione imponente per la quale servirebbero un paio di occhi aggiuntivi a quelli in dotazione per cogliere appieno le immagini che passano sullo schermo.

Poi ci sono le sequenze di massa, con i soldati sulla spiaggia divisi in file ordinate come dita di una mano che si tendono disperatamente verso il mare, periodicamente dispersi dai raid nemici per poi radunarsi di nuovo e attendere la salvezza dal mare, o la battaglia nei cieli tra gli spitfire inglesi, orgoglio nazionale, e la luftwaffe nazista, che garantisce un livello di immedesimazione da realtà virtuale. Semplicemente meravigliosa la scena finale con lo spitfire inglese superstite che, rimasto senza carburante, incomincia una lenta e lunghissima planata a motori spenti, accompagnata da un irreale silenzio, che lo porterà ad atterrare tra le mani dei nemici, su una spiaggia di Dunkirk ormai abbandonata dai soldati inglesi. Suggestiva invece l'autocitazione che si concede Nolan nell'inquadratura degli elmetti dei soldati inglesi abbandonati sulla spiaggia, a rievocare la distesa di cilindri nel bosco di The prestige.

Ecco, se vogliamo sollevare delle critiche, che non si cerchi nella pellicola una particolare caratterizzazione dei personaggi (quasi totalmente assente) o la ricchezza dei dialoghi, d'altro canto le intenzioni del regista di ridurre al minimo quel tipo di linguaggio e puntare tutto sulla resa visiva erano dichiarate e la magnificenza del risultato finale dà fragorosamente ragione a Nolan. Allo stesso modo possiamo sorvolare su anche alcuni scivoloni di retorica patriottistica (quasi tutte le linee di dialogo del Comandante Bolton/ Kenneth Branagh), un pò fuori luogo con il realismo (non avevo mai visto prima un film di guerra in cui un soldato, dopo aver rischiato di morire sotto il fuoco nemico, una volta in salvo, si cala i pantaloni per defecare) e la modernità dell'opera. 
Il film è ovviamente di taglio corale, con la scelta di occultare il ruolo degli attori più noti, come nel caso di Tom Hardy, i cui pochi secondi di inquadrature del viso riescono comunque a diventare tra le cose più emozionanti della pellicola.

Dunkirk è assolutamente da vedere, e se possibile da vedere all'Arcadia di Melzo, unica sala in tutta Italia ad avere la tecnologia per proiettarlo a 70 mm, dunque nella modalità artistiche voluta da Nolan.
Per una volta invece non indispensabile la visione in lingua originale (divenuta ormai la mia ossessione), visti i dialoghi ridotti davvero all'osso.

giovedì 7 settembre 2017

Chuck Berry, Chuck


Forse se la sentiva Chuck Berry. Non che sia poi così paranormale che a novantanni suonati uno cominci a pensare che la fine potrebbe anche arrivare da un giorno all'altro. Sta di fatto che ha ben poco di casuale la coincidenza che uno degli artisti più influenti in ambito di musica popolare del novecento, dopo quasi trent'anni dal suo ultimo disco di inediti (Rock it, del 1979), si rimetta al lavoro giusto in tempo per completare un album, ma purtroppo non per vederlo distribuito, visto che la sinistra mietitrice lo coglie a marzo , tre mesi prima della release programmata.
Chiariamo subito che Chuck, il ventesimo album dell'uomo di St Louis, non ha niente a che vedere con quel senso di fine imminente che comunicava ad esempio David Bowie con il suo Blackstar, ma d'altro canto, se per impatto sulla cultura moderna i due sono ampiamente assimilabili, diverso è il discorso artistico, con il Duca Bianco sempre a reinventarsi e l'ideatore del duck walk fermo come una roccia sulla sua roba. 
Anche nell'ultima parte della vita di Berry è infatti mancata la svolta artistica che hanno avuti altri grandi vecchi (su tutti Johnny Cash sotta la guida di Rick Rubin), non è dato sapere se a causa del proverbiale caratteraccio del nostro che rendeva quasi impossibile qualunque collaborazione (chiedere per conferma a Keith Richards per i lavori di produzione del film Hail Hail Rock and roll)  o se per il suo altrettanto leggendario orgoglio, che lo vincolava strenuamente al genere che aveva inventato.
 
Per tutte queste ragioni Chuck è un disco che resta saldamente incardinato sui binari dell'arte dell'autore di You never can tell, fuggendo anche dalla facile tentazione di poggiarsi troppo su prestigiose ospitate. Vi troviamo infatti i soli Tom Morello e il promettente Nathaniel Rateliff, a coadiuvare il nostro su Big boys, oltre ad un'altro bel prospetto: Gary Clark jr che presta la sua chitarra all'opener Wonderful woman. Questi due brani sono tra gli highlight del disco, insieme al languido swing di You go to my head, interpretata a due voci con Debra Dobkin. 
Impressiona come la voce di Chuck Berry non mostri il segno degli anni, a differenza degli altri vecchi musicisti suoi coetanei dai cui lavori emergono tutte le cicatrici del tempo e i dovuti affanni dell'età (elemento per inciso che per il sottoscritto è carico di fascino). La traccia che lascia maggiormente trasparire la carta d'identità è anche quella più spiazzante e sperimentale, che spunta all'improvviso sulla fine del disco: in Dutchman infatti ascoltiamo uno spoken con la voce ben sopra agli strumenti che la accompagnano tessendo un intreccio bluesy asciutto e concentrico. Fanno sorridere invece i self-mockbusters Lady B. Goode e Jamaica moon, che rimandano esplicitamente a due pezzi storici del repertorio di Berry (ovviamente Johnny B. Goode e Havana moon). 
 
"Chuck" non suona come un testamento musicale, ma come un disco che richiama i precedenti e che avrebbe fatto da ponte con i successivi. In questo senso un disco ordinario. Ma un disco ordinario di Chuck Berry, perdiana, è sempre qualcosa da ascoltare. 

martedì 5 settembre 2017

Fortynine

Will Freeman, il nullafacente protagonista del romanzo di Nick Hornby Un ragazzo, misurava la durata della giornata in segmenti di micro attività, come l'appuntamento fisso con un programma televisivo, o altre amenità del genere.
Io, da ragazzo, nel periodo di massima passione calcistica, lavoravo su una scala più ampia ma con un metodo non troppo dissimile: pensavo infatti all'età che avrei avuto in relazione ai futuri campionati mondiali di calcio, che come noto, si succedono ogni quattro anni.
Dopo la vittoria al mundial di Spagna del 1982 mi spaventava ad esempio constatare che per vedere i mondiali di calcio del 1990 avrei dovuto attendere di avere ben 22 anni. Oggi, se dovessi usare questa misurazione dovrei inserire anche l'incognita dell'aspettativa di vita, pensando alla massima manifestazione calcistica che si svolgerà in Quatar nel 2022 o addirittura a quelle successive.
Di conseguenza, non ci penso più. Così come non penso più a come mi figuravo i trentenni, i quarantenni e i cinquantenni quando avevo molti anni di meno. Viverla è tutta un'altra cosa rispetto ad osservarla in vitro.  
Ebbene sì, confesso che invecchiare mi pesa.
Il programma di running che svolgo ogni agosto nella pausa estiva del calcetto quest'anno è stato faticosissimo e ha richiesto una forza di volontà supplementare rispetto a quella, già notevole, applicata in passato. E gli esperti che mi circondano mi dicono che d'ora in poi sarà sempre peggio. Va da sé che non ho mai avuto un grande fisico, ma insomma.
Che sono diventato fifone e ipocondriaco l'ho già confessato in altri post per cui, dài, la chiudo qui, festeggiando in tono dimesso l'ultimo anno della fascia dei 40 che comunque, per inciso, mi accompagnerà fino a tutto il prossimo mondiale di calcio di Russia.
 

lunedì 4 settembre 2017

Eternal sunshine of the spotless mind (2004)


Se dovessi compilare una lista di film visti nelle condizioni peggiori, vale a dire già iniziati, mollati prima della fine, infarciti di pubblicità o seguiti distrattamente, Eternal Sunshine of the spotless mind, fino a poco fa sarebbe stato nella top five. 
E l'attenzione è invece un aspetto fondamentale per quest'opera girata da Michel Gondry su un soggetto di Charlie Kaufman. Anche se alla fine tutto torna infatti, i vorticosi flashback e flash forward che costituiscono l'ossatura a spirale della narrazione richiedono una buona predisposizione ad un cinema fuori dagli schemi oltre ad invitare, perchè no, a visioni plurime della pellicola.

La trama vede Joel Barish/Jim Carey e Clementine Kruczynski/Kate Winslet incontrarsi e conoscersi occasionalmente su un treno diretto alla località turistica di Montauk, che lui ha preso al volo colto da un improvviso ed irrefrenabile impulso. I due, diversissimi tra loro: lei istintivamente socievole e un pò freak, lui riservato e chiuso in sé stesso, in realtà hanno avuto una relazione duratura che è entrata in crisi e che ha portato prima Clementine e poi lo stesso Joel a decidere di farsi rimuovere completamente i ricordi del partner dal tessuto cerebrale, attraverso una procedura resa possibile nella società descritta dal film.

Lo script di Kaufman gioca molto con il sogno e il subconscio, arrivando a fornire allo spettatore anche una chiave di lettura dell'effetto mnemonico chiamato deja vu. Ma a un livello più concreto mostra senza ipocrisia la parabola di una storia d'amore che appassisce, con tutto il suo corollario di cattiverie e meschinità che gli amanti si scambiano quasi con indifferenza. La relazione viene mostrata a partire dalla fine, cioè partendo da una brutta litigata che ne decreta la conclusione (con la sequenza memorabile della strada e dei negozi che cambiano continuamente, così come la direzione in cui corre Joel mentre rincorre Clementine) andando all'indietro fino al giorno in cui i due si sono conosciuti e innamorati. Il film tocca le corde più sensibili del nostro animo: i ricordi, la memoria, le cose che custodiamo gelosamente nella nostra mente insieme a quelle che vorremmo dimenticare, andando a formare un quadro d'insieme emotivamente esplosivo. Non solo, Eternal spotless è anche un film sulle scelte che ci hanno condotto a ciò che siamo, a quelle sliding doors esistenziali che hanno incanalato la nostra vita in un senso o in un altro.
La nostra scelta di cancellare i ricordi più dolorosi è il prodotto di fantasia di una incapacità reale di affrontare sofferenza e struggimento, l'inadeguatezza che ci porta ad assumere medicine per ogni malessere, fisico o psicologico, è la stessa che ci porta ad affidare gli aspetti più preziosi e delicati della nostra vita ad una manica di cialtroni che piallano i bellissimi spigoli di anni di ricordi con la stessa cura usata da chi passa la giornata a mettere timbri all'ufficio del catasto.

Una delle scelte embrionali vincenti di Eternal sunshine of the spotless mind è la decisione di ribaltare i characters abituali dei due attori protagonisti. Così il ruolo dell'imprevedibile e un po' fuori di testa passa a Kate Winslet mentre quello del malinconico e insicuro a Jim Carey. Entrambi gli attori tirano così fuori una delle prove migliori della loro intera carriera. E se la Winslet non è certo nuova a ruoli superlativi, lo stesso non era scontato per l'ex Ace Ventura, qui misurato e introspettivo come mai prima (ne dopo).
Anche dal punto di vista tecnico le peculiarità del film sono notevoli, visto che il regista Michel Gordy decide di non avvalersi del blue screen e di lavorare invece direttamente sulle riprese, usando tecniche analogiche e artigianali efficacissime, e ricorrendo solo occasionalmente alla computer grafica (la "pioggia" di auto).

Clamorosamente disonesta e ingannevole la traduzione in italiano del titolo (Se mi lasci ti cancello) che svilisce la citazione letteraria di Alexander Pope ("How happy is the blameless vestal's lot! The world forgetting by the world forgot. Eternal Sunshine of the spotless mind! Each pray'r acceptedand each wish resign'd" / "Com'è felice il destino dell'incolpevole vestale! Dimentica del mondo, dal mondo dimenticata. L'eterno splendore di una mente immacolata! Accettata ogni preghiera e rinunciato ad ogni desiderio") tentando di spacciare un film d'autore per una delle tante commediole demenziali. 

Eternal sunshine of the spotless mind commuove, diverte, fa riflettere ed arriva a spaventare. Il tutto all'interno di una confezione stilistica cinematograficamente eccellente. Un recupero essenziale per chi, come me, l'avesse perso o trascurato.

sabato 2 settembre 2017

MFT luglio/agosto 2017

ASCOLTI

Steve Earle, So you wannabe an outlaw
Chuck Berry, Chuck
John Mellencamp, Sad clowns and hillbillies

Little Steven, Soulfire
Bob Wayne, Bad Hombre
Avatarium, Hurricanes and halos
Ye Banished Privateers, First night back in port
George Thorogood, Party of one
Old Crow Medicine Show, 50 years of Blonde on blonde
Alice Cooper, Paranormal
Joy Division, Transmission
Chaka Khan, Best of

Monografie

The Pogues - Outtakes & cover

LETTURE

Italia odia. Il cinema poliziesco italiano, Roberto Curti
Zero zero zero, Roberto Saviano

VISIONI SERIALI

Il trono di spade, 7
The leftovers, 3