Torna alle origini del blues, George Thorogood. Non sarebbe una novità per il diversamente giovane (il prossimo febbraio compirà sessantotto anni) del Delawere, se non fosse che questa volta, a differenza dei tanti tributi ai grandi del genere incisi senza soluzione di continuità già a partire dal debutto del 1977, l'artista si sia totalmente immedesimato nei panni dei bluesman più genuino: quello che si esibiva in strada con la chitarra attaccata ad un piccolo amplificatore, coadiuvato qua e là da un'armonica o dalla sola grancassa, intrattenendo passanti e turisti: da qui l'efficace titolo di Party of one.
L'attacco, e viene da dire non potrebbe essere altrimenti, è per Steady rollin' man di Robert Johnson e subito le carte vengono girate sul tavolo, non c'è trucco non c'è inganno, solo la quintessenza del blues proposta da uno che ne ha fatto la sua ragione di vita.
La lista degli autori scelti per compilare il disco, se da una parte non rivela grosse sorprese, con John Lee Hooker (Boogie chillen; The hookers, One bourbon, one scotch, one beer), Elmore James (Got to move; The sky is crying) e Willie Dixon (Wang dang doodle) a pretendere il loro tributo di sangue, dall'altra rivela la passione di Thorogood per il country/folk più tradizionale, con riproposizioni di Hank Williams (la bellissima e straziante Picture from life's other side); Gary Nichols (Soft spot, da repertorio di Johnny Cash), John Loudermilk (Bad news, che invece del repertorio di Cash lo è davvero stata).
Non si può che apprezzare anche l'implicito ringraziamento che George fa al lavoro di rilancio del blues da parte di due icone musicali dello scorso secolo che rispondono a nome di Bob Dylan (Down the highway) e Rolling Stones (l'indimenticabile No expetactions, da Beggars Banquet del 1968).
Party of one di Thorogood mi ha ricordato certe operazioni di Neil Young (lo strepitoso Le noise, la più recente) dove si fatica a ricondurre le composizioni agli esiti intimistici e introspettivi normalmente derivanti da opere per solo voce e chitarra. A dimostrazione che non sempre lavorare per sottrazione tolga ritmo e saturazione sonora al risultato finale.
Poi certo, aiuta chiamarsi George Thorogood.
Poi certo, aiuta chiamarsi George Thorogood.
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