giovedì 28 aprile 2016

Signs




Di norma non è che mi servano tutti questi stimoli per attivare i ricettori di memoria e cercare sullo scaffale dischi dimenticati o accantonati, per una ripassatina. Stavolta però le forze occulte hanno congiurato tutte insieme, intercciandosi in pochi giorni su diversi livelli, per farmi tirare giù dalla mensola Bob Marley. Il primo invito mi è arrivato dalle pagine della biografia dei Led Zeppelin da poco recensita, dove si riportava come, durante il tour americano del 1973, la band, nei momenti di riposo dai concerti, faceva girare senza soluzione di continuità sullo stereo Burnin'. Il secondo segnale è giunto attraverso il televisore, attraverso l'episodio 1x8 di Vinyl, la serie co-prodotta da Scorsese e Jagger sull'industria musicale della Grande Mela durante i settanta, in una sequenza in cui vediamo (attori impersonare) i Wailers sul palco del Max's Kansas City sempre nell'anno di grazia '73. Buon ultimo l'incolpevole mio figlio al quale, durante una gita scolastica a Verona, è stato regalato da un venditore ambulante un braccialetto dai tipici colori rasta accompagnato dalla frase: "questo è il braccialetto di Bob Marley!".
Non mi sono dovuto neanche scomodare, è stato come se i ciddì dalla mensola siano spontaneamente venuti a me nella mia selezione preferita, quella cioè che considero la migliore triade di lavori mai prodotta da Marley e soci: Catch a fire; Burnin' e Natty Dread.
Vorrei dilungarmi sulla magia racchiusa in questi solchi, sulle contaminazioni tra reggae e funk, errebì e attitudine rock, amore, religione e militanza politica, ma non è questo lo scopo del post. Magari un'altra volta.

lunedì 25 aprile 2016

Ben Harper and The Innocent Criminals, Call it what it is

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A volte, almeno per il sottoscritto, i giudizi sui dischi vengono condizionati anche dalla voglia che si ha, in quel preciso momento, di ascoltare quel preciso artista. 
Ecco, da questo punto di vista la nuova release di Ben Harper è giunta al momento più opportuno, perchè il desiderio di ascoltare nuovo materiale del musicista californiano era giustappunto molto elevato.
Ero favorevolmente predisposto, dunque? Molto probabilmente sì, ma Harper c'ha messo del suo per incoraggiarmi, rimettendosi insieme  agli storici sodali The Innocent Criminals a nove anni dall'ultima volta e realizzando probabilmente il suo miglior disco full band 
(escludendo quindi le collaborazioni con altri artisti) dai tempi di Diamonds on the inside del 2003 (non il massimo ma la tetralogia di lavori precedenti è inarrivabile).
Call it what it is non sorprende per contenuti stilistici: siamo infatti al cospetto del consueto sfoggio di amore per la buona musica di Harper, che spazia disinvoltamente dal soul al funk al blues al reggae al rock  di matrice rigorosamente vintage. Quello che ritroviamo invece nell'album è il ritorno della migliore ispirazione e da un buon songwriting ad accompagnare le composizioni. 
A molti per esempio non è piaciuta la traccia d'apertura When sex was dirty, che io trovo invece incisiva e accattivante proprio il suo essere rozza e un pò ignorante. Per le stesse ragioni mentre guido vado di headbangin consapevole mentre ascolto Pink ballon, l'unico altro pezzo della raccolta che viaggi su coordinate hard-rock seventies.
Il resto del disco gira su atmosfere più dilatate, che siano convincenti ballate come Deeper and deeper; Dance like fire o Goodbye to you, oppure folk-blues in punta di slide come All that grown o fascinazioni reggae quali Finding our way.
Il punto è che l'insieme delle undici composizioni regge bene l'urto dei ripetuti ascolti e rimette credibilmente in pista un artista che per la verità non si è mai fermato, ma la cui ispirazione serviva probabilmente la spinta del giusto propellente, qui garantito dall'apporto degli Innocent Criminals.

lunedì 18 aprile 2016

Stephen Davis, Il martello degli dei


Stephen Davis pubblica Il martello degli dei nel 1985, a pochi anni dallo split definitivo della band, avvenuto nel 1980 subito dopo la prematura (ma ampiamente annunciata, in considerazione dello stile di vita) dipartita del batterista John Bonham (25/09/1980).
Ancora oggi questo tomo, più volte ristampato e leggermente aggiornato, è considerato tra le testimonianze più autorevoli e attendibili della incredibile storia del dirigibile pesante.
 
Essendo cresciuto musicalmente nel mito degli Zep dei in terra,  l'ho trovato una lettura molto istruttiva e a tratti anche sorprendente, vista la nitida fotografia che Davis riesce a fare degli anni d'oro (1969/1975), quando la band apparteneva esclusivamente a ragazzini in età di high school e riempiva, progressivamente, prima i piccoli clubs e poi gli stadi, ignorata, e spesso vituperata, dai media e dai magazine musicali (la "bibbia del rock" Rolling Stone in primis).
Questo aspetto, e la frustrazione che esso determinava in Page e Plant, è probabilmente l'elemento che più d'altri ho faticato ad elaborare, a fronte della sacra abbacinate aura che circondava il gruppo per quelli che, come la mia generazione, sono arrivati tardi per goderne le gesta.
 
Così come stupisce (anche se non dovrebbe, tutto sommato) il trattamento riservati agli Zeppelin con l'avvento del punk nella seconda metà dei settanta: la band è infatti infilata nel calderone dei gruppi boriosi e inutilmente prolissi, da rottamare in nome delle canzoni da tre accordi suonati male  ma velocemente e dell'urgenza comunicativa delle nuove leve.
Molto più prevedibili (nel senso che non se ne può fare a meno) sono le cronache delle scorribande dei quattro nel corso delle infinite turnè: i televisori che volano giù dalle finestre, le camere d'hotel distrutte, le orge, la coca e l'ero, le liason al limite della pedofilia di un Jimmy Page quasi trentenne che si accompagna con ragazze adolescenti, la violenza del servizio d'ordine della band (guidato dal tour manager Richard Cole che alla fine dei settanta si farà anche un periodo di detenzione a Regina Coeli a Roma, per possesso di droga) e soprattutto, il ruolo centrale del manager Peter Grant, figura anch'essa mitologica nella storia dei Led Zeppelin.
Come spesso mi accade con le biografie musicali, ho accompagnato l'avanzamento della storia con l'ascolto parallelo dei dischi oggetto di analisi. Prima gli Yardbirds quindi, poi gli album dei Led Zeppelin, dall'esordio a Coda, in un crescendo emotivo pienamente soddisfacente che consiglio a tutti i musicofili.

venerdì 8 aprile 2016

Haggard's easin' my misery

Merle Haggard, 06/04/1937 - 06/04/2016

merle-haggard

"And I'm drinkin some George Jones
And a little bit of Coe
Haggard's easin' my misery
And Waylon keepin' me from home
 
Hank's given' me those high times
Cash is gonna singin' low
And I'm here gettin wasted
Just like my country heroes"
 
(Hank III, Country heroes)



martedì 5 aprile 2016

Austin Lucas, Between the moon and the midwest

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Nel mio personalissimo universo di personaggi minori, underdogs, outsiders e losers musicali, Austin Lucas occupa un posto di tutto rispetto. E non potrebbe essere altrimenti, vista la particolarissima storia di questo artista dal faccione rotondo, natio dell'Ohio, che si è però fatto le ossa suonando la musica probabilmente più americana di tutte (il country) nella vecchia Europa, più precisamente in Repubblica Ceca.
Oggi Austin può guardare molte star affermate dall'alto di una gavetta durissima che ha superato la boa dei dieci album, festeggiati con questo Between the moon and the midwest: consueta (in senso positivo) raccolta di perfette melodie, chitarre honky tonk e raffinate armonie vocali.
Perciò è solo momentaneo il disorientamento provocato dall'incipit rumorista della prima traccia Unbroken hearts, che si scioglie subito in un tripudio di chitarre jingle jangle propedeutiche ad accompagnarci dentro le inconfondibili atmosfere ariose dei grandi spazi del midwest, riproposte anche nella successiva Ain't we free.
Sono luoghi armoniosi e sognanti i mondi musicali nei quali ci conduce Lucas, perfettamente a suo agio nel bilanciare ballate movimentate (Wrong side of the dream), e scarni pezzi acustici (William) con trascinanti esempi di country 'n' roll (Call the doctor).
Insomma, una conferma, l'ennesima, della bravura di questo artista così lontano e così vicino alla scena tradizionale del cuore degli USA.


Post precedenti:

AUSTIN LUCAS, A new home in the old world

AUSTIN LUCAS, Stay reckless