giovedì 30 luglio 2020

Noi (2019)

NOI: trailer, trama e data del thriller di Jordan Peele

Era attesissimo alla seconda prova cinematografica Jordan Peele, dopo il botto dello straordinario Scappa - Get out.
E l'ex comico e nuovo, pare già influentissimo, cineasta americano non si è fatto prendere dall'ansia da prestazione sfornando un altro gioiellino, ancora una volta curandone sceneggiatura e regia (oltre che, in parte, produzione).

La storia inizia nel 1986, in un luna park su un lungo litorale. Una bambina, approfittando di un momento di distrazione dei genitori, si allontana da loro finendo in un'attrazione tipo "casa degli specchi" dove vede un'altra bambina, del tutto identica a lei.
Salto in avanti, ai giorni nostri, la bambina è cresciuta, è diventata madre, ed ha una famiglia composta, oltre che dal marito, da due figli (maschio / femmina) con i quali si sta recando nella stessa località marittima dell'antefatto, dove, inevitabilmente il passato tornerà a tormentarla.

Se con Scappa - Get out Peele aveva ripreso la solida tradizione del cinema di genere usato per lanciare messaggi politici, qui torna a farlo con ancora più forza, usando il suo film come una clava per parlare dell'iniqua distribuzione delle risorse in America e di quella vasta parte della popolazione senza accesso alla minima possibilità di crescita sociale, come in un gioco a somma zero, dove qualcuno vince tutto ed altri, di riflesso, perdono ogni cosa.
Tuttavia, anche per chi non cerca sottotesti e vuole semplicemente essere intrattenuto da una produzione di ottima qualità, Noi funziona a prescindere, in virtù di messa in scena, recitazione suspance non banali. 
E anche se i più navigati sgameranno in anticipo il colpo di scena finale, a mio parere non è questo l'elemento che guasta la visione perchè, sempre a mio modestissimo parere, il genere è solo un pretesto per parlare di ben altro.

lunedì 27 luglio 2020

Green Day, Father of all motherfuckers

Father Of All Motherfuckers : CD album di Green Day | LaFeltrinelli

Prima di iniziare a scrivere questa recensione sono andato a controllare la discografia dei Green Day perchè, onestamente, non ricordavo quale fosse l'ultimo disco della band che avessi ascoltato.
Ebbene, al netto di un ascolto distratto del trittico Uno, Dos, Tre, ero fermo al 2009 con 21Century breakdown. E, convinto che i Green Day avessero già dato il loro meglio, avrei continuato ad ignorare Billy Armstrong e soci, non fosse stato per la recensione di Father of all motherfuckers dell'amico blogger Ale/Jumbolo che ha avuto la capacità di incuriosirmi.
Grazie a lui quindi, che mi ha fatto accendere un riflettore su questo album, che, lo dico in premessa, ho trovato sorprendente e divertentissimo.

I Green Day infatti, dopo oltre tre decenni di attività riescono in un'operazione che rinfresca il loro sound come un'inaspettata secchiata d'acqua gelata, abbandonando il loro pop punk per buttarsi in una eccitante rivisitazione di un sound che definirei figlio di un certo tipo di musica americana anni 60/70, imbastardita dal rhythm and blues come dal pop nero mainstream e dal garage rock.
Dimenticate quindi la stentorea ed inconfondibile attitudine al canto di Armstrong, che rendeva immediatamente riconoscibile qualunque pezzo dei Green Day, e tuffatevi in una tracklist composta da dieci pezzi (per meno di mezz'ora di durata), carichi di attitudine e farciti di urletti, battimano, voci in falsetto e ritmo, al punto che ad un primo ascolto l'opera sembra partorita dalla mente di Dan Auerbach, tanto il patchwork musicale conduce ai Black Keys post El camino.
Un grande dimostrazione di coraggio quindi, da parte della band, che cancella il proprio brand stilistico per buttarsi, e gettare l'ascoltatore, in un turbinio di musica che sfido chiunque ascolti l'album al buio a ricondurre ai Green Day.
Dieci tracce, dicevamo, aperte dalla title track, che ricevono un'incredibile forza propulsiva da pezzi come Fire, ready, aim, da Oh yeah, che inizia come un pezzo delle Ronettes, o da I was a teenage teenager che celebra senza formalismi i Ramones o ancora dallo sfrenato rock and roll Stab you in the heart.
I richiami ad una certa stagione radiofonica americana sono ricorrenti anche in alcuni riferimenti dei testi, come quel Meet me on the roof, che potreste trovare in molte canzoni dei sessanta, o la classica invocazione soul "can I get a witness" , immancabile nelle esibizioni degli artisti soul (qui richiamata in Take the money and crawl).
E il timbro classico Green Day? E' diluito in qualche canzone, come vaniglia nel caffè freddo: un approccio al ritornello, un break di batteria, qualche riff, mentre emerge più forte in un paio di pezzi più classici, non a caso inseriti in coda alla tracklist (Junkies on a high e Graffitia).

Insomma, Father of all motherfuckers è un disco festoso ed audace, non mi sovvengono molti altri gruppi di primo piano che, dopo aver creato in trent'anni di successi e riconoscibilità un marchio sonoro immediatamente identificabile, invece di persistere con l'ispirazione in riserva sparata (qualcuno ha detto Pearl Jam?) abbiano archiviato orgoglio e confort zone per cambiare ogni cosa .
Che si tratti di un episodio, per tornare poi alle origini, o un cambiamento più strutturale, nulla potrà minare una rinnovata credibilità che i Green Day, almeno per il sottoscritto, hanno riconquistato in ventisette minuti di musica. 
Grandi.

giovedì 23 luglio 2020

El camino (2019)

El Camino - Il film di Breaking Bad - Film (2019) - MYmovies.it

Sembra passato un secolo da quando seguivo con fanatismo alcune serie televisive. Sembra un secolo, eppure sono solo pochi anni.
Breaking Bad  è senza dubbio una di quelle con la qualità maggiore e che più mi ha appassionato tenendomi col fiato sospeso, episodio dopo episodio, stagione dopo stagione.
Non ho seguito lo spin-off/prequel di Better call Saul (che mi dicono comunque essere molto buono) perchè, come già detto, non mi sconquiffera più "impegnarmi" a lungo con una serie, e però, per il motivo esattamente opposto, non avevo grosse scuse per non vedere 
il definitivo (?) epilogo di Breaking Bad, vale a dire El Camino, proposto in un unico film da due ore, nel quale ci viene svelato il destino di Jesse, dal momento esatto in cui fugge dalla sua prigionia, grazie al piano congegnato da Walt. 
Attraverso diversi flashback (che si prendono la metà del film) andiamo ulteriormente a scoprire le agghiaccianti condizioni psicofisiche e le continue umiliazioni a cui era sottoposto Jesse durante la sua prigionia, con particolare attenzione al suo rapporto con lo psicopatico carceriere Todd.

Che dire, fa un certo effetto rituffarsi nelle atmosfere di Breaking Bad e rivedere parte dei characters che ci hanno allietato per tanto tempo. Qualcuno immutato nonostante i sei anni trascorsi, come Badger (interpretato da Matt Jones), Skinny Pete (Charles Baker) o lo stesso, strabiliante, Walter White (Bryan Cranston), altri leggermente gonfi quando, per il ruolo, avrebbero dovuto essere emanciati (Jesse/Aaron Paul), qualcuno proprio inquartato (Todd/Jesse Plemons).
El camino è senza dubbio un prodotto televisivo, ma non è privo di alcune anomalie, rispetto alla norma di riferimento, come ad esempio l'utilizzo dei classici campi larghi marchio di fabbrica della serie (le sequenze nel deserto) o la pressochè totale assenza di personaggi femminili.
Per quanto concerne la costruzione della storia, il film si prende il suo tempo (scelta apprezzabile), assecondando la pigrizia degli scenari sullo sfondo e conducendoci passo passo nel disperato tentativo di Jesse di fuggire dalla polizia e da un destino che sembra ineluttabile. 
Insomma, un epilogo coerente e decoroso (non era scontato fosse così).

Il film segna anche l'ultima interpretazione di Robert Forster, storico attore americano rilanciato da Tarantino con Jackie Brown, deceduto purtroppo proprio qualche giorno prima del lancio del film.

lunedì 20 luglio 2020

L.A. Guns, The devil you know (2019)

L.A. GUNS - The Devil You Know

Sarà che il ferro va battuto finchè è caldo oppure che c'è un nuovo contratto (con la Frontiers) da onorare, ma i ritrovati LA Guns, a soli diciotto mesi di distanza dal comeback album The missing peace, l'anno scorso sfornano un nuovo lavoro: The devil you know.
E se il disco della riappacificazione Tracii Guns/Phil Lewis aveva dato importanti segnali di vitalità, quest'ultimo pezzo della storia (travagliata) della band deflagra in modo ancora più forte, presentandosi come una vera e propria fucilata.
Infatti, dalla partenza lanciata The rage, per tutte le dieci tracce dell'edizione standard dell'album, le Pistole di Los Angeles non concedono un attimo di respiro all'ascoltatore, con il loro sleaze sempre molto  più orientato all'heavy (impattato pienamente nella title track, con un break spezza colli) piuttosto che al melodic rock stile Aerosmith o all'AOR.
Posto che i confronti con le altre band più o meno "coetanee" di pari genere sono inevitabili, il benchmark con gli ultimi Motley Crue sarebbe così ingeneroso da far male a chi con quella band è cresciuto, tuttavia non si può evitare di rimarcare come, quando gli LA Guns, con Loaded bomb, invadono il campo da gioco di Sixx e soci  gli impartiscono una lezione esemplare su come si potrebbe ancora scrivere una eccitante Crue song nel XXI secolo.
Insomma, The devil you know è un disco stradaiolo, rumoroso, sporco, senza pezzi ruffiani e senza rallentamenti, fino alla conclusiva Another season in hell, una stupenda ballata elettrica e nervosa che ricorda così da vicino un certo tipo di composizioni metal degli anni ottanta da far piangere di commozione.

Mi guardo in giro ma non vedo competitors in grado di spostare questi LA Guns dal trono di sovrani dello sleaze metal. 

giovedì 16 luglio 2020

Chernobyl


Chernobyl - Serie TV (2019)

Ospito eccezionalmente una recensione non mia, ma dell'amica blogger ellepì, titolare, tra l'altro, de Le Sirene di Titano, blog di letteratura attualmente in pausa di riflessione.
L'eccezionalità è anche data dal soggetto, in considerazione del fatto che di norma lei non si occupi di serie tv. 
Evidentemente Chernobyl (che, colpevolmente, non ho ancora visto) meritava l'approfondimento che trovate di seguito.
Solo una piccola nota a margine: la serie ha debuttato a maggio 2019, ma è arrivata in chiaro, grazie a La7, solo qualche settimana fa, in pieno lockdown.


Trasmettere questa serie in un momento come l'attuale è stata probabilmente una scelta non facile, audace. Alcune caratteristiche della vicenda del Covid 19 richiamano inevitabilmente le conseguenze a breve termine che ebbe l'incidente sulla popolazione ucraina e mondiale: l'inconsapevolezza del pericolo favorita da una comunicazione omertosa, il panico che scaturisce sempre in situazioni di malattia di fronte a qualcosa di sconosciuto e inarrestabile, il fatto che i cari sparivano nelle corsie degli ospedali e non tornavano indietro. Altrettante sono le differenze: il fatto che Chernobyl fu un terrificante errore di valutazione i cui segni saranno portati dalla Terra e dalla popolazione per millenni (mentre la speranza è di battere il Covid 19 con un vaccino molto molto prima) e il fatto che l'incidente di fatto non sia veramente concluso, dato che il nocciolo della centrale continua a bruciare ancora oggi e così per migliaia di anni, e il famoso “sarcofago” che ora lo copre dovrebbe reggere per soli 100 anni, dopo di che bisognerà provvedere nuovamente.

“Chernobyl” è probabilmente il viaggio più realistico che possiamo fare in quella vicenda, anche per chi, come me, era ragazzino in quei giorni e ha vissuto in famiglia gli effetti della nube radioattiva che invase i cieli d'Europa, guardava i telegiornali ma era troppo giovane e troppo lontano da Chernobyl, per capire qualcosa che neanche gli adulti erano in grado di spiegarci, racconta senza retorica e consolazione gli eventi e come coloro che furono esposti direttamente alle radiazioni (sia subito dopo, durante le prime operazioni di soccorso, le indagini per comprendere l'accaduto e i lavori per evitare una fusione totale del nocciolo) non avessero alcuno scampo. Questo lo aveva ben presente  Valery Legasov, il chimico che si batté perché il pericolo fosse riconosciuto e affrontato dalle autorità e che denunciò l'omertà degli apparati di potere (che minimizzavano anche in presenza del capo di Stato, Gorbaciov) e l'inadeguatezza delle tecnologie nucleari sovietiche. La consapevolezza della condanna accompagna lo spettatore mentre segue gli operai della centrale, Legasov, il politico Boris Shcherbina, la scienziata Ulana Khomyuk e tutti gli altri personaggi impegnati nello sforzo di contenere le conseguenze dell'esplosione o che le subiscono, fantasmi in un mondo che non si vuole credere vero, in cui la carne è divorata dall'esterno e dall'interno e in cui non c'è una via di fuga, una salvezza.
“Abbiamo a che fare con qualcosa che non è mai accaduto prima su questo pianeta” dice Legasov a Shcherbina, è impossibile immaginare come si sentirono i politici, gli scienziati che erano consapevoli di quello che era accaduto, mentre la popolazione si muoveva senza riferimenti in una notte infinita. Tra loro vi era Lyudmilla Ignatenko, moglie di uno dei pompieri che per primi arrivarono alla centrale dopo l'esplosione (e tutt'ora in vita, nonostante tutto), seguì suo marito, trasportato in un ospedale a Mosca fino alla fine, orribile, in uno strazio che resta tra i ricordi indelebili di questa serie.

La realizzazione di questo progetto deve essere stata indubbiamente molto complessa, sia per la vastità dell'argomento, sia perché si tratta di un avvenimento realmente accaduto e, nonostante l'Unione Sovietica non esista più, il rischio che la serie si trasformasse in uno spot pro-democrazie occidentali o (peggio) in un colossal epico all'americana, una specie di Jurassic Park con la centrale nucleare nei panni del tirannosauro, era reale.
Gli autori hanno quindi scelto la strada giusta adottando uno stile documentaristico e ispirandosi alle atmosfere “Stalker”, prediligendo colori freddi e lunghe azioni senza dialogo, pur mantenendo un ritmo narrativo comprensibile a un pubblico occidentale. Questo equilibrio nella rappresentazione di una vicenda sovietica da parte di sceneggiatori, registi e attori occidentali non è scontato, perché se da una parte era necessario soddisfare il pubblico di HBO, altrettanto attraente era la prospettiva di superare il dato narrativo e storico, cosa che in parte avviene, soprattutto nella ricostruzione dei primi minuti successivi all'esplosione, nelle carrellate sui paesaggi che conservano  un'apparente, disturbante normalità. Solo talvolta, impercettibilmente quasi, l'equilibrio si spezza, qualcosa non torna in una situazione o in un tempo, un'inquadratura. Sono momenti, particolari, in generale tutto tiene alla perfezione, grazie a un lavoro di regia, scrittura, fotografia e montaggio fenomenali e alla bravura degli attori, tra cui i tre protagonisti Jared Harris (Legasov), Stellan Skarsgard (Shcherbina) che tra l'altro si candida come possibile interprete di  Boris Ieltsin in un futuro film, e la magnifica Emily Watson (Khomyuk).

I punti deboli della serie vengono a galla nell'ultimo episodio, in cui si ricostruisce il processo che consegnò tre colpevoli (pur colpevoli) alla storia assolvendo tuttavia lo Stato Sovietico. Nella puntata che vuole essere la vera chiave di lettura dell'accaduto, l'azione avrebbe potuto essere dilatata dando una lettura soggettiva e globale (filosofica?) alla vicenda e alle sue conseguenze, ma  viene compressa e si resta davvero un po' delusi da una conclusione tutto sommato frettolosa. Gli eventi della notte del 26 aprile 1986, prima di quel momento solo frammenti quasi sconnessi, vengono ordinati e -come in un telefilm poliziesco- finalmente collegati tra loro. Cosa e perché è successo, chi siano i responsabili: il racconto di Legasov è una sequenza costruita con un montaggio magnifico e la sua esposizione dei fatti ai giudici un brillante esempio di come si possa rendere comprensibile un argomento complicato all'interno di una narrazione. Ma quando Legasov arriva a denunciare le mancanze del  governo Sovietico, forse il pragmatismo prende il sopravvento. Sarebbe stato quello, a mio parere, il momento per osare e far partecipare completamente lo spettatore al dramma di Legasov, consapevole delle conseguenze della sua denuncia pubblica.         Si è scelta invece una conclusione abbastanza rapida, lasciando il discorso sulla Verità di Legasov come un aforisma quasi retorico (e non lo era).
Nella conclusione, quasi a completamento di questo finale, vengono raccontate con foto e didascalie le sorti dei protagonisti e scopriamo che Ulana Khomyuk è in realtà un personaggio creato per rappresentare tutti gli scienziati che lavorarono con Legasov e cercarono la verità sull'esplosione del reattore di Chernobyl. Saperlo a posteriori è un'ulteriore delusione, perché se fosse stato esplicitato, il personaggio avrebbe potuto assumere a pieno titolo la funzione di Coro Greco.


“Chernobyl” è comunque un capolavoro e un successo per chi l'ha creata , riuscendo a imporre temi, personaggi e ritmi decisamente non consueti nella televisione contemporanea, con una produzione capace davvero di suscitare forti sentimenti nel pubblico.

LP

lunedì 13 luglio 2020

Hot Country Knights, The K is silent

Hot Country Knights - The K Is Silent - Amazon.com Music

Disco di debutto per gli Hot Country Knights, nuova creatura del navigato countryman Dierks Bentley che bazzica con buoni risultati il genere da una ventina d'anni e nove lavori a proprio nome. 
Questa volta il buon Dierks mette assieme un progetto finalizzato all'aspetto più danzereccio del genere, con un disco di esplosivo e irresistibile honky-tonk.
La copertina e le note relative a questo progetto danno molto spazio all'aspetto parodistico della nuova incarnazione musicale, in realtà dentro le dieci tracce che compongono il disco c'è solo dell'ottimo country, e l'unica traccia inconsapevolmente grottesca è l'ultima, ma ne parleremo più avanti.
Prima occupiamoci di quanto di buono (ed è parecchio) c'è nell'album, contraddistinto da alcune tracce honky tonk devastanti, a partire da una Pick her up (featuring Travis Tritt) che farebbe cantare anche un muto, per poi passare all'altrettanto notevole Moose knuckle shuffle, alla tamarrissima Wrangler danger, a Mull it over e Kings of neon. Anche il lato ballate non scherza con Asphalt e Then it rained.
Tutta roba di alto livello dentro il genere, peccato per lo scivolone finale, uno di quei pezzi che provocano psoriasi immediata a chiunque non sia americano del sud. 
Si tratta di The USA begin with Us, un pezzo dal vivo (ammesso che sia davvero così, perchè suona farlocco anche in questo senso), nel quale Bentley invece di cantare si produce in un sermone al pubblico su quanto sia bello essere americano e di come, tra le altre cose, abbia nostalgia di quando le sue mutande erano made in USA invece che made in China, il tutto con lo stage che gli risponde al suono di U-S-A-! U-S-A-! . 
Una roba imbarazzante a livelli patologici, senza ombra di ironia volontaria, che risulta totalmente comica.
Non vorrei però che uno scivolone (almeno ai miei occhi) come questo metta in secondo piano un lavoro che per il 90% rappresenta forse il migliore e spensierato honky tonk che mi sia passato per le orecchie da molto, molto tempo.

giovedì 9 luglio 2020

Black tide - Un caso di scomparsa (2018)

Black Tide - Film (2018) - MYmovies.it

Abbiamo fatto tristemente il callo allo stravolgimento dei titoli originali dei film stranieri nella distribuzione italiana, ma il cambio del titolo di un film francese, con un titolo... in inglese è la novità che mancava. E' la seconda volta in poco tempo che mi capita, il precedente era Frères ennemies tradotto con l'inglese Fratelli nemici, ora è la volta di Fleuve noir (fiume nero), tradotto appunto con Black tide (marea nera). Forse gli autori di queste genialate non sanno della solida tradizione di noir / polar francese e pensano che il pubblico sia più attratto da un film se pensa sia americano. Chi lo sa. 

Dopo questa lunga e nerdissima premessa, vado al dunque.
A prescindere dal titolo, questo è un film (tratto dal romanzo Un caso di scomparsa dello scrittore israeliano Dror Mishani) davvero valido, come solo certi europei (o i non-americani, vista la nazionalità dello scrittore del romanzo) sanno fare, affrancandosi con autorevolezza dai modelli d'oltreoceano.
Seguiamo la vicenda di Francois Visconti (Vincent Cassel), comandante di polizia che viene incaricato delle indagini sulla scomparsa di un sedicenne, Dany. Visconti è un poliziotto totalmente allo sbando, alcolista patologico, lasciato dalla moglie, con un figlio coetaneo dello scomparso implicato in piccoli traffici di droga.
Scritta così è una trama già vista tante volte, ma in questo caso a fare la differenza è una trama ad orologeria, la progressione della storia, una sceneggiatura solidissima, un finale sconvolgente, amaro, ma al tempo stesso realistico. A fare la differenza è anche l'interpretazione di Cassel che, con il suo caracollare da sbandato, la faccia sfatta, i capelli sporchi incollati alla fronte, e i vestiti di due misure in più, al netto di qualche passaggio sopra le righe, fornisce un interpretazione indimenticabile. Non gli sono da meno Romain Duris, nel ruolo del sospettato principale e Sandrine Kiberlain, nella parte della madre di Dany.
Dei punti di forza del film ho detto, aggiungo che anche il fato dei due adolescenti, lo scomparso e il figlio di Visconti, che sarebbe stato trattato in maniera ben diversa e paternalistica in altre latitudini, qui trova un epilogo di grande efficacia.

Una perla per appassionati del vero noir.

lunedì 6 luglio 2020

MFT, maggio-giugno 2020

ASCOLTI

Body CountCarnivore
Brian FallonLocal honey
Buju Banton, 'Til Shiloh
Cirith UngolForever black
Code Orange, Underneath
CruachanA celtic legacy
Dead KennedysMilking the sacred cow
DissectionStorm of the light's bane
Hayseed DixieBlast from the grassed
Heaven Shall Burn, Of truth and sacrifice
Hot Country KnightsThe K is silent
Judas PriestPainkiller
Kingdom ComeST, 1989
Lady GagaChromatica
Lucinda WilliamsGood souls better angels
Mark LaneganStraight songs of sorrow
Matt WoodsNatural disasters
Ritmo TribaleLa rivoluzione del giorno prima
Steve Earle and The DukesGhosts of West Virginia
WolfmotherRock 'n' roll baby
Avatarium, The fire I long for
Black FlagDamaged

On the Road With Black Flag: Henry Rollins' 1986 Essay | SPIN


VISIONI

Il promontorio della paura (1962) (4/5)
Un milione di modi per morire nel west (2,5/5)
The irishman (4/5)
The aviator (3,5/5)
Titanium (3/5)
Hell or high water (3,5/5)
The rover (3,5/5)
Deathgasm (3,5/5)
La notte non aspetta (2,5/5)
Bright (2,5/5)
Runner runner (2,5/5)
Ready player one (3,75/5)
Sogno di una notte di mezz'età (2/5)
Il colpo del cane (3/5)
Confessioni di una mente pericolosa (3/5)
Agents secrets (1/5)
Blue ruin (4/5)
Green room (3,5/5)
Smetto quando voglio - Ad honorem (3,5/5)
Re per una notte (4/5)
Ultras (2020) (2,5/5)
Return to sender (2015) (1/5)
The Post (3,5/5)
Un figlio all'improvviso (1,5/5)
In Bruges (3,75/5)
Red (2008) (3,5/5)
La mia vita da vampiro (3,75/5)
These final hours (3,75/5)
Soldado (3,5/5)
La terra dell'abbastanza (3,75/5)
Spenser Confidential (1,5/5)
The road (3,5/5)
Hold the dark (3,5/5)
Cell block 99 - Nessuno può fermarmi (4/5)
Thermae Romae (3,5/5)
Undisputed (3/5)
Run all night - Una notte per sopravvivere (2,75/3)
Kill the irishman (3/5)
The raid 2 (4/5)
44 inch chest (2,75/3)
Time to hunt (3,75/5)
Il tunnel dell'orrore (1981) (3/5)
Fast & Furious - Hobbs & Shaw (2,25/5)
Un uomo qualunque - He was a quiet man (2/5)
Alita - Angelo della vendetta (3,5/5)
Gemini man (2/5)
The vanishing - Il mistero del faro (3/5)
Una sull'altra (3/5)
Triple frontier (2,5/5)
Fratelli nemici - Close enemies (3,5/5)
Q&A - Terzo grado (4/5)
Ubriachi d'amore (2019) (1/5)
I peggiori (3/5)
Promise land (2012) (3,5/5)
C'eravamo tanto amati (5/5)
Rapinatori (3/5)
Da 5 Bloods (2/5)
Black tide - Un caso di scomparsa (4/5)
The factory (2012) (3/5)
Il grande salto (2019) (3/5)
La prima pietra (3/5)
Le verità sospese (2/5)
Un maledetto imbroglio (4/5)
Niente da nascondere (4/5)
Caos (2005) (1,5/5)
I miserabili (3,5/5)
Timecrimes (4/5)
Ormai è fatta! (3/5)
Le mani sulla città (5/5)

Francesco Rosi - Le mani sulla città 1963 | Documentari, Cinematografia,  Città

Visioni seriali

Mindhunter, st. 1 e 2 (3,5/5)

LETTURE

Joseph Heller, Comma 22
Filippo Pagani, Dr Feelgood

giovedì 2 luglio 2020

The factory (2012)

The Factory [DVD] by John Cusack: Amazon.it: Christian Bale ...

Una bella sorpresa, questo The factory. Un thriller/poliziesco con serial killer che inizia come tanti, con un assassino di prostitute che, per una svista, va a rapire proprio la figlia dell'ispettore (John Cusak) incaricato assieme ad una collega (Jennifer Carpenter) delle indagini sugli omicidi. 
Tutto già ampiamente visto. 
Nello sviluppo della trama però il film risale le posizioni della classifica dell'ovvio, per arrivare ad un notevole e amarissimo colpo di scena finale che lo piazza sicuramente tra i thriller più interessanti degli ultimi anni. 
Se non va giudicato un libro dalla copertina, neanche un film dalla sua prima mezz'ora. 
Da recuperare.

Ritorno al cinema! (+ I miserabili)

Qualche tempo fa avevo mestamente pubblicato un post nel quale lamentavo la chiusura del bel multisala della mia città. Per pigrizia o semplice dimenticanza non ho più aggiornato il blog su questa vicenda, che è finita bene, dato che la struttura cinematografica è stata poi rilevata da uno dei marchi più autorevoli e seri in questo ambito (quindi non UCI...), che l'ha rilanciata.
Di conseguenza ho ripreso con una certa regolarità a frequentare il cinema, finchè non è arrivato lo stramaledetto coronavirus a fermare tutto.
La novità è che da qualche giorno sono accessibili le arene estive, e da noi c'è uno spazio davvero suggestivo per vedere i film sotto le stelle (come potete vedere qui sotto), e così, ad oltre quattro mesi dall'ultima volta (nella quale se le mie liste non mentono avevo visto il pessimo Birds of prey), sono tornato a sognare su grande schermo.



L'occasione era imperdibile non solo per un aspetto affettivo ma soprattutto perchè il film in programmazione era ben evidenziato nella mia lista di titoli da vedere.
Si tratta de I miserabili, che non è l'ennesima trasposizione del romanzo di Hugo, ma che con quell'opera ha volutamente punti di contatto, non solo per la location in cui si svolge la storia (Montfermeil), ma anche per l'afflato sociale e lo sguardo disincantato sui bambini di strada, trasportato dal XIX al XXI secolo, che la contraddistingue.

La macchina da presa (molto spesso a mano) sta costantemente addosso ai protagonisti di questa storia, da una parte tre poliziotti della BAC (Brigata Anti Criminalità) che pattugliano le strade delle periferie più pericolose di Parigi, quelle della Banlieu 93, dall'altra l'umanità varia, soprattutto ragazzini, che popolano quegli alveari abitativi. Della squadra di agenti fanno parte Chris, poliziotto "cattivo", violento e senza scrupoli; Gwada, storico partner di Chris, di origini africane e di religione musulmana, che cerca di mediare gli eccessi del collega, e Ruiz (interpretato da Damien Bonnard, Dunkirk e L'Ufficiale e la spia)  l'ultimo arrivato, la parte "buona" del gruppo.
Il punto di svolta della storia avviene quando un ragazzino, Issa (interpretato con straordinaria espressività dal piccolo attore Issa Perica) che vive più per strada che in famiglia, ruba un cucciolo di leone da un circo, i cui proprietari minacciano azioni violente contro tutta la comunità nel caso l'animale non fosse ricondotto da loro.
Da qui un'esacaltion di avvenimenti che segneranno per sempre la vita di Issa e di tutti i protagonisti della vicenda, fino al claustrofobico finale.

Film pluripremiato in Francia e candidato all'Oscar, questo I miserabili è sicuramente una produzione valida, che punta i riflettori su un pezzo di società francese con le sue infinite problematiche e le tante contraddizioni, riuscendo (in questo il regista e co-sceneggiatore di origini maliane Ladj Ly è molto efficace) a non prendere quasi mai le parti di una o l'altra fazione. Certo, le denunce sui metodi della polizia sono esplicite (molto bravo in questo senso il poliziotto Chris, interpretato da Alexis Manenti), ma anche l'ipocrisia di chi dovrebbe tutelare la comunità della banlieu e invece tenta di trarne guadagno è resa bene. Chi ne esce meglio è la comunità islamica, Imam ed ex delinquenti che cercano, attraverso gli insegnamenti del Corano, di togliere i ragazzini dalla cattiva strada. 

Insomma, I miserabili di Ly dà l'impressione di voler intrecciare il romanzo di Hugo con I 400 colpi di Truffaut e, inevitabilmente,con L'odio di Kassovitz, riuscendo in qualche modo nella suggestione, ma, per quanto mi riguarda, almeno dopo una singola visione, senza l'esaltazione critica che ho letto in giro.

I Miserabili - Film (2019) - MYmovies.it