lunedì 29 febbraio 2016

Deadpool the movie

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Quando hai poco tempo libero a qualcosa devi rinunciare. Nel mio caso the shorter straw è capitata ai fumetti Marvel, che per lustri ho letto voracemente. Quando torno alla vecchia passione, magari per i viaggi in treno o nei periodi di stacco lavorativo, quasi sempre lo faccio per Deadpool, personaggio minore dei primi novanta che negli ultimi anni è stato ottimamente rilanciato dalla Casa delle Idee. Non sono tanto i poteri a fare la differenza in questo character (il più importante è un fattore di guarigione addirittura più potente di quello di Wolverine) di professione mercenario, ma il tono assolutamente folle delle sue avventure, caratterizzate da una violenza splatter, battute a ripetizione, allusioni più o meno esplicite alla sfera sessuale e tanto sarcasmo su cinema, politica, televisione e, ovviamente, fumetti dei super-eroi.
Con queste premesse non potevo certo perdermi il primo film a lui dedicato, giustamente pubblicizzato come "il super eroe per adulti".
Bene, Deadpool the movie non arretra di un passo rispetto al mood del fumetto, con un ottimo Ryan Reynolds, una raffica di battute micidiali e scene memorabili (vi basti quella di sesso in cui prima Reynolds/Wade sodomizza la fidanzata Morena Baccarin/Vanessa e subito dopo lei...sodomizza lui!), oltre alle ovvie sequenze di azione al fulmicotone (avviate da titoli di testa semplicemente geniali).
Resta fuori dalla trama il folle amore di Deadpool per la Morte, costante delle storie fumettistiche, dove il nostro anela la fine della sua vita e si immagina sovente in situazioni di intimità con la Triste Mietitrice, raffigurata nella più classica delle rappresentazioni, come uno scheletro con una falce. 
A parte questo, ben poco da criticare, se non il doppiaggio dilettantistico dell'X-Man Colosso e del villain Ajax: gli spiccati accenti russo e inglese dei due sono resi in italiano con risultati agghiaccianti.

giovedì 25 febbraio 2016

Trump like them

Negli anni della grande passione politica, dell'antiberlusconismo, che probabilmente era più aggregante delle idee (poche e confuse) del centrosinistra, di quel centrodestra visto come incarnazione di tutto ciò che più detestavo non solo nella politica, ma anche nella vita pubblica, ho sempre sostenuto che gli Stati Uniti, pur a fronte di un'infinità di criticità e contraddizioni, potevano almeno contare su di un tessuto sociale che aveva evidentemente sviluppato i giusti anticorpi per scongiurare l'affermazione di fenomeni populisti e demagogici come quello del Cavaliere.
 
A quanto pare il tempo mi ha dato torto.
In passato ci siamo mangiati il fegato per i vari Reagan, Bush sr e Bush jr, ma oggi la minaccia Donald Trump fa impallidire anche gli aspetti più reazionari di questi ex-presidenti.
Nonostante abbia contro una buona parte dello stesso partito che lo sostiene (i repubblicani), i media, lo star system (posizione forse solo di facciata), addirittura il Papa; nonostante le imbarazzanti gaffe e le agghiaccianti dichiarazioni razziste, sessiste e classiste, quest'uomo pare inarrestabile al punto che si teme asfalti i propri avversari nel supermartedì del prossimo primo marzo (si voterà in quattordici Stati).
Sembra proprio che Trump incarni l'esempio più eclatante del totale imbarbarimento della società civile, della deriva culturale, del definitivo abbandono dell'uso della ragione in favore, non del sentimento, ma del libero sfogo della pancia dell'elettorato.
Eletto o no (si mormora che parte dei Repubblicani potrebbe persino votare la Clinton per evitare questa ipotesi), il timore che l'effetto dello "stile Trump" contagi il resto del mondo occidentale è grande, in considerazione dei preoccupanti bacilli influenzali che già attanagliano l'Europa, attraverso il nazionalismo di buona parte dell'est (ma non solo) e il vincente trend del "dagli all'immigrato" che conosciamo molto bene anche in casa nostra.
 
Di fronte a questo fenomeno, ad una campagna elettorale ignorante, fatta di muri, proiettili imbevuti di sangue di maiale destinati ai musulmani, di atteggiamenti misogini e altre varie amenità, un terrificante sospetto si fa largo: non è che dopo Andreotti, ci faranno rimpiangere anche Berlusconi?

lunedì 22 febbraio 2016

Megadeth, Dystopia


Uno pensa che i Megadeth, dopo gli splendori del primo lustro di attività (1985/1990), fossero rassegnati ad un'inesorabile spirale di mediocrità (dalla quale salvo Endgame, del 2009) ed ecco che invece quel genio incostante e capriccioso di Dave Mustaine se ne esce con un album finalmente degno di cotanta tradizione metal.
Non è dato sapere se la botta di creatività sia dovuta all' ottimo innesto dell'axeman brasiliano Kiko Loureiro (Angra) o del batterista Chris Adler (Lamb of God) che hanno preso rispettivamente il posto di Chris Broderick e Shawn Drover, ma quello che è certo è che il Rosso è riuscito nell'operazione di traghettare il thrash (che lui stesso ha contribuito a creare) nel terzo millennio, con un'opera che sta nella tradizione classica del genere senza risultare mai vetusta.
Di certo il ruolo di Loureiro è centrale nel rilanciare il classico sound Megadeth: non le tirate da sega elettrica dunque (che sono ridotte al minimo sindacale), ma gli intro acustici a creare il giusto climax per le sfuriate elettriche della band, i solo puliti, i duelli chitarristici, il gran lavoro di cucitura tra le diverse sezioni delle composizioni e con gli altri strumenti. Poi ci sono le canzoni, ovviamente. Almeno la metà di quelle incluse nella tracklist (che consta di dieci episodi, più il bonus Foreign policy dei Fear) potrebbe stare a pieno titolo nei dischi più acclamati di Mustaine. Mi riferisco alla deflagrante doppietta iniziale The threat is real e Dystopia, a Death from within, Poisonous shadows, Lying in state e al trascinante strumentale Conquer or die!.
Dystopia è la dimostrazione che si può riproporre uno stile musicale oggettivamente superato (il thrash metal) attualizzandolo senza snaturarlo grazie al contributo di musicisti validi e di una manciata di canzoni solide. Al tempo stesso è una sonante lezione a quanti cercano maldestramente di rifarsi una reputazione rincorrendo il suono dei bei tempi andati, con risultati, ad essere buoni, discutibili (chi ha detto Metallica?).

giovedì 18 febbraio 2016

80 Minuti di Rage Against The Machine

Di recente il grande amore per i Rage Against The Machine è tornato prepotentemente ad attanagliarmi.
E, conoscendomi, quando mi prende così, significa che il momento è propizio per sfornare una bella playlist monografica. Tra l'altro, la band di Morello e De La Rocha non ha mai immesso sul mercato dischi antologici, e quindi quella che segue può essere un ottimo bignami nel caso ci fosse qualche marziano che non li ha mai ascoltati o più verosimilmente per chi vuole riabbracciare i pezzi più significativi dell'intera discografia (incluse le partecipazioni a soundtrack come Higher Learning; The Crow o Godzilla).

1. Bombtrack
2. Killing in the name of
3. Bullet in the head
4. Freedom
5. People of the sun
6. Bulls on parade
7. Vietnow
8. Down rodeo
9. Year of the boomerang (OST Higher Learning)
10. Darkness of greed (OST The Crow)
11. No shelter (OST Godzilla)
12. Testify
13. Guerrilla radio
14. Calm like a bomb
15. Sleep now in the fire
16. Kick out the jam
17. Renegades of funk
18. The ghost of Tom Joad

lunedì 15 febbraio 2016

I migliori dischi del 2015

Visto che viaggio con circa un mese di ritardo sul periodo del canonico consuntivo di fine anno, tralascio ogni premessa e vi rimando a quella che ha fatto da prologo al classificone del 2014: dentro ci trovate spirito e metodologia usati anche per questa compilazione.
Ecco dunque le mie personalissime preferenze per il 2015 da poco terminato.

POSIZIONE NUMERO TRE ( VOTO 7 )

The Sonics, This is the Sonics
Ultimo recensito del 2015 ma di diritto tra i primi della lista. Incendiari.
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Il Teatro degli Orrori, Il Teatro degli Orrori
Tale è la mia devozione, che li premierei anche solo per il fatto di esistere. Necessari.
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Bachi da Pietra, Necroide
Non esiste in Italia un'altra band come i Bachi da Pietra e Necroide ribadisce il concetto. Fuori dagli schemi.
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The Mavericks, Mono
Raul Malo es mi hermano.The Mavericks mi familia.
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POSIZIONE NUMERO DUE (VOTO 7,5)

Thunder, Wonder days
Un ritorno attesissimo che non delude. Lucidamente nostalgici.
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Southside Johnny, Soultime!
Quando Mr. Lyon maneggia il soul insieme ai fidi Asbury Jukes a noi non resta che ascoltare (e godere). Immarcescibile.
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Paradise Lost, The plague within
Atmosfere desolate, riff inquietanti, cantato che alterna clean al growl. Death, doom, gothic al loro meglio. Maestri.
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Warren Haynes featuring Railroad Earth, Ashes and dust
Il primo disco interamente folk dell'ultimo leader del genere jam. Sorprendente.
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POSIZIONE NUMERO UNO ( VOTO 8,5 )

Gang, Sangue e cenere
Nome della band, titolo del disco e anno di uscita. Non credo serva sprecare altre parole. Indispensabili.
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Chris Stapleton, Traveller 
Il movimento real country USA sforna di continuo magnifici losers che emergono dallo status di underdog e catturano la luce di mille riflettori. Saving country music.
 
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Delusioni dell'anno i Blackberry Smoke, il cui live l'anno scorso aveva raggiunto la cima della classifica, ma che con Holding all the roses annacquano eccessivamente il loro sound, e Zac Brown: al cospetto di tanta allure e autorevolezza non può uscirsene con un album impersonale e confuso come Jekyll + Hyde.

giovedì 11 febbraio 2016

The Sonics, This is The Sonics


Dietro l'incendiario ryhthm and blues di This is the sonics ti aspetteresti di trovare un gruppo di giovani e nerboruti neri con il testosterone da fabbro ferraio, e non, come succede in realtà, tre ultrasettantenni bianchi che avevano debuttato qualcosa come cinquant'anni fa (con Here are the Sonics, 1965), lasciando, nello spazio di tre album (oltre al debutto, Boom del 1966 e Introducing, del 1967), un imprinting indelebile su molta musica rock degli anni a venire, attraverso l'influenza trasversale universalmente riconosciuta da gente come Kurt Cobain, Bruce Springsteen, White Stripes, Mudhoney e molti altri.
Con queste premesse, The Sonics non potevano permettersi di sputtanarsi nel nome di una reunion come tante se ne vedono di questi tempi: dovevano, in virtù dell'autorevolezza derivata dai meriti acquisiti sul campo, continuare a dettare la linea a tutto il movimento.
Missione ampiamente compiuta.
Sfido chiunque ascolti per la prima volta le linee vocali di Gerry Roslie (così come il suo lavoro all'organo); i riff slabbrati provenienti dalla chitarra di Larry Parypa e il trascinante lavoro al sax di Rob Lind ad associare il monumentale sound che ti assale in tracce quali I don't need no doctor, Be a woman, The hard way, I got your number, o alla cover di You can't judge a book by the cover (a proposito, al confronto, la pur buona versione proposta dagli Strypes ne esce annichilita) a qualcosa di stantio.
Un disco micidiale, dal tiro potentissimo e dal sound strabordante che mette insieme con invidiabile competenza errebì, garage, jump blues e rock and roll.
Incredibile a dirsi, una delle sorprese più entusiasmanti del 2015. 

lunedì 8 febbraio 2016

Supersuckers, Holdin' the bag


Lo confesso: erano circa una ventina d'anni che non ascoltavo quei fuori di testa dei Supersuckers (precisamente da The sacriliciuous sounds of ) e se mi sono approcciato a questo Holdin' the bag è solo perchè ho addocchiato nella tracklist un duetto con Hayes Carll, uno dei miei musicisti preferiti. Alla fine però, sapete come succede, quando non ti aspetti granchè da un'opera (libro, film, in questo caso disco), spesso ne rimani folgorato. 
Sì perchè in questo lavoro il mitologico Eddie Spaghetti, che da tempo ormai porta sulle sue spalle tutto il peso dello storico brand del gruppo, ha confezionato un suono non acustico, ma sicuramente asciutto, senza fronzoli e senza quelle smargiassate elettriche caratteristica della band ai tempi della Sub Pop. Certo, è nota l'influenza che il country ha sempre avuto nel sound dei SS, ma a differenza del passato, in Holdin' the bag è lasciata libera di scorazzare senza camuffamenti.
 
La tracklist che apre il lavoro è la migliore traduzione sonora della copertina del disco: atmosfere western alla Morricone fanno infatti da preludio ad un pezzo malinconico sulla fine delle relazioni. In questa direzione, ma in un'ottica rancorosa e liberatoria, procede la successiva This life...with you, la canzone che Eddie interpreta con Hayes Carll, adattandosi in pieno al suo stile, sia a livello musicale che di liriche. Il protagonista infatti non si dà pace per aver condiviso la sua vita con l'ex amata e si spertica in lodi di quanto sia tutto migliore se gustato senza di lei. La canzone del secolo per i freschi di separazione.
 
Le composizioni di Holdin' the bag sono tutte lineari e dall'impatto immediato, la strofa porta al ritornello esattamente quando te l'aspetto e il refrain è sempre incisivo, sia quando ci si strugge per amore (I can't cry, secondo duetto, con Lydia Loveless) che quando si spinge un pò il pedale sul country/rockabilly (Jobber-Jabber e Shimmy and shake). Si chiude con la cover della epocale All my rowdy friends di Hank Williams jr, , tanto per ribadire, se ce ne fosse bisogno, le credenziali dell'album.
 
Spero che questo disco, onesto, semplice,diretto, porti un qualche beneficio alla carriera dei Supersuckers, anche alla luce dei gravi problemi di salute che hanno recentemente colpito Eddie Spaghetti (cancro alla gola), rispetto ai quali i fans hanno reagito con delle donazioni arrivate, ad oggi, a circa sessantamila dollari.
Limitandosi alla musica, come detto, Holdin' the bag si è rivelato una piacevolissima sorpresa, e se avesse un sottotitolo sarebbe "songs for drunks, broken hearts and hellraisers".

lunedì 1 febbraio 2016

Il Teatro degli Orrori, Il Teatro degli Orrori


Anche se i lettori di questo spazio sono pochi intimi, e pertanto l'esercizio di scrittura dovrebbe essere scevro da ogni pressione, a volte vengo assalito dall'ansia da prestazione. Scrivere de Il Teatro degli Orrori per esempio mi mette soggezione. Probabilmente perchè fin qui tutti gli album del gruppo, ad eccezione dell'esordio, non recensito, si sono piazzati in cima alle mie scelte dell'anno. Conseguentemente, al momento di trovare le parole per descrivere i contenuti dei nuovi lavori della band le dita sulla tastiera si fanno pesanti e le sinapsi mentali faticano a scattare. 
Tuttavia, ad oltre tre mesi dall'uscita del nuovo disco, è arrivato il momento di provarci.

Il primo elemento che emerge dagli ascolti dell'album eponimo dei TdO è il netto allontanamento dalle atmosfere più cupe e rarefatte che avevano caratterizzato il mood de Il mondo nuovo (e di Obtorto collo, il debutto solista di Capovilla) e il ritorno alla cazzimma più esplosiva degli esordi. In pratica i TdO tornano a pestare giù duro, e per non lasciare spazi a ripensamenti, lo fanno in pratica dalla prima all'ultima traccia. L'altra innovazione riguarda l'ingresso in formazione stabile di Kole Laca, che attraverso il suo lavoro alle tastiere porta un contributo elettronico alla cifra stilistica della band.
Detto delle novità che caratterizzano il lavoro, la filosofia dell'album risponde invece alle tradizioni consolidate del brand Teatro degli Orrori, imperniato dunque sulle liriche del frontman, all'assalto frontale di tutti gli aspetti più controversi della società: dalla politica, al ruolo delle multinazionali, all'ipocrisia dei rapporti interpersonali a quel putrido stagno che è diventato il mondo del lavoro.

D'altro canto, con un inizio come Disinteressati e indifferenti  non c'è pericolo di essere fraintesi: l'obiettivo agganciato dai radar delle liriche è quello di un'ampia fascia di giovani moderni, disillusi e nichilisti, ed è centrato in pieno con risultati deflagranti. Insomma, il Capovilla è tornato, e il suo classico stile tra cantato di pancia e passaggi declamati in stile uomo col megafano  non fà sconti ne prigionieri. 
Così Lavorare stanca mina le certezze sulla cosiddetta dignità del lavorare, soprattutto in considerazione (aggiungo io) delle perdute certezze in merito a diritti e tutele a causa delle leggi introdotte negli ultimi anni di governo di centrosinistra. E allora ben venga uno dei pezzi migliori dell'album, quel Il lungo sonno (lettera aperta al Partito Democratico) che ognuno di noi delusi della politica di sinistra avrebbe voluto scrivere. I versi della canzone ("aspettando che cambiasse il mondo (...) sono cambiato io, e adesso sono di destra") con i riferimenti agli slogan del Piddì ("i diritti dei lavoratori, quelli delle donne, la lotta di classe, cuore di ogni progresso / la fedeltà alle idee, i valori della costituzione / una società più giusta e uguale / non me ne frega più niente / è tutta un'illusione, una beffa, una pantomima") rappresenta come meglio non si potrebbe il pensiero di chi vede, nell'opera del più grande Partito di centrosinistra italiano, la realizzazione di buona parte dei programmi della destra. 
Benzodiazepina, non fosse per l'inequivocabile differenza di atmosfere e periodo storico, sarebbe la degna conclusione di una traiettoria che Renato Carosone aveva tracciato già dai primi anni cinquanta col geniale boogie Piagliate 'na pastiglia e che Capovilla conclude mettendo insieme i mostruosi interessi delle grandi compagnie farmaceutiche e la conclamata ipocondria dell'italico popolo, consumatore seriale di medicinali. 
Convincente anche Sentimenti inconfessabili, nella quale Capovilla sogna il proprio funerale accompagnato dalle ipocrisie tipiche di quelle situazioni, raggiungendo, con i suoi strali, anche il giornalista musicale Federico Guglielmi. Attacco dal mio punto di vista incomprensibile, vista la coerenza della persona, ma che d'altro canto pone Guglielmi nella ristretta cerchia dei giornalisti immortalati dalla musica leggera, anche se, bisogna ammetterlo, non siamo dalle parti del capolavoro L'avvelenata, dove Guccini si scagliava (tra gli altri) contro Bertoncelli.

Certo, l'album non è esattamente un lavoro che scivola via leggero o che si possa ascoltare in sottofondo mentre si fanno i mestieri di casa. E' piuttosto un monolite che reclama piena attenzione e volumi adeguati dell'impianto stereo. L'atteggiamento fuckin' hostile di Pierpaolo rende l'avanzare nell'ascolto simile alla perlustrazione di una foresta la cui vegetazione si fa passo dopo passo sempre più fitta di rovi e rami che ti graffiano la faccia, le braccia e le gambe. E a poco serve il tentativo di maggior leggerezza lasciato alla conclusiva Una giornata al sole (che sembra in tutta onestà una outtake della roba solista di Capovilla).

Il Teatro degli Orrori si sono trovati ad un bivio decisivo della propria carriera, e in questi casi tornare alle origini è sì una scelta scontata ma anche fitta di pericoli. E così il risultato finale dell'album numero quattro della discografia della band sacrifica sull'altare della veemenza sonora il magico equilibrio che ci aveva fatto gridare al miracolo con Dell'impero delle tenebre e A sangue freddo
Si tratta, intendiamoci, di un peccato veniale, di un sacrificio che ci consente di avere ancora tra noi una delle formazioni più eccitanti e necessarie di questi interminabili tempi oscuri.