giovedì 28 giugno 2018

Planet of apes, la trilogia prequel

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Dopo la trilogia di Matrix, torno a parlare di una saga, stavolta molto recente, che mi ha inaspettatamente appassionato. Si tratta di Planet of apes, imperniata sulla genesi della storia conosciuta al grande pubblico grazie all'originale Pianeta delle scimmie, film del 1968 (tratto dal romanzo del 1963 di Pierre Boulle), pellicola epocale zeppa di sottotesti, contraddistinta da uno dei finali più iconografici del cinema. Già all'epoca la storia si sviluppò su ben cinque film (l'ultimo dei quali del 1973), oltre ad una serie tv e un'altra animata. 
Nel 2001 Tim Burton ne gira un rifacimento a mio avviso senza infamia ne lode, ma è con l'intuizione del 2011 di raccontare gli eventi che porteranno al dominio delle scimmie che le cose si fanno veramente interessanti.
Già, perchè è difficile oggigiorno assistere a delle produzioni mirate a fare il botto al box office che riescano tuttavia a conciliare in maniera così convincente qualità, effetti speciali e solida sceneggiatura. 
La storia dello scimpanzè Cesare ("interpretato" in un incredibile motion capture da Andy serkis, prima scelta per questo particolare tipo di recitazione, dopo la prova offerta per il Gollum del Signore degli anelli), che viene risparmiato per pietà dallo scienziato Will Rodman (James Franco) dalla decisione della multinazionale per cui lavora di abbattere tutte le scimmie cavia dopo il fallimento di un esperimento, narrata dai primi vagiti all'epilogo di The war, ha il respiro della grande saga e, a mio avviso, tutte le caratteristiche per diventare un classico che resisterà nel tempo.

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Il lavoro fatto per rendere realistiche le scimmie è qualcosa di così verosimile da risultare stupefacente. L'espressività dei primati, colta nei numerosi primi piani, è da far scappare a gambe levate un esercito di attori cani che affollano le sale d'attesa dei produttori hollywodiani. La storia, come dicevo, è tesa, coerente e verosimile. Le scimmie sono le protagoniste assolute, non è un caso che per ognuno dei tre episodi venga cambiato il cast di attori umani (James Franco nel primo; Jason Clarke con Gary Oldman nel secondo; un cattivissimo Woody Harrelson che si ispira al colonnello Kurtz/Marlon Brando in Apocalypse now nel terzo), mentre si ripropongano, com'è giusto che sia, i veri eroi della trilogia: Cesare e il suo branco.
L'opera ha ovviamente numerose chiavi di lettura: genocidi storici, ingiustizie sociali e significati morali, ma l'aspetto positivo è che riesce a farli cogliere senza risultare mai pretenziosa o paternalistica. 
Le abbondanti sei ore della saga avvincono innanzitutto per la costruzione della narrazione, per la messa in scena, le sequenze di azione e i momenti di introspezione. Il resto viene da sè.

A livello di blockbusters, una trilogia letteralmente imperdibile.

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lunedì 25 giugno 2018

Brian Fallon, Sleepwalkers

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Messi a riposo i Gaslight Anthem , ecco tornare con la seconda prova solista colui che dei GA è il leader: Brian Fallon. 
Il trentottenne di Red Bank (NJ), dopo aver guidato la precedente band ad un esordio (2007) contraddistinto da un'interessante contaminazione tra certa new wave inglese e il blue collar rock americano, ha via via spostato il baricentro dei Gaslight Anthem verso un rock più muscoloso, senza però mai abbandonare una forte vena poetica e una capacità melodica tutt'altro che banale.
Successivamente, nel suo esordio da solista, aveva smussato alcune asperità del suono dei GA, mantenendo comunque un legame molto forte con quell'esperienza, per un risultato più che onorevole.

Tre anni dopo Brian torna con un'altra raccolta di canzoni nelle quali, già dai primi secondi dell'opener If your prayers don't go to heaven, risulta riconoscibilissima la sua personalissima impronta.
Già, perchè Brian Fallon è probabilmente l'ultimo cantore di quel romanticismo da strada che tanto aveva impregnato i primi tre dischi di Springsteen (nel disco i riferimenti al Boss sono naturalmente presenti, ma più concettualmente che stilisticamente). Le sue composizioni sono prevalentemente midtempos, nelle quali schiocchi della dita o mani battute sono la soluzione più spontanea per accompagnarne l'ascolto, e nelle quali i riferimenti a relazioni tormentate, malesseri generazionali, uniti ai costanti, più o meno espliciti, riferimenti alle radici musicali dell'autore (Etta James, titolo della traccia numero quattro, ma anche gli Stones e Elvis Costello) rappresentano una costante. 
Il disco è così, avvolto in una elegante omogeneità che ad un ascoltatore distratto potrebbe suonare come sinonimo di ripetitività e che invece, se lasciata sedimentare, schiude delle piccole perle, con notevoli picchi emotivi quando, nel caso della title track, alla strumentazione tradizionale si aggiunge un'elegante sezione fiati.

Insomma, Sleepwalkers non sarà certo disco dell'anno ma di certo torna a consegnarci un autore che difende con passione il fortino del rock poetico.



giovedì 21 giugno 2018

Judas Priest, Firepower

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Basterebbe confrontare qualche pezzo a caso dagli ultimi tre dischi dei Judas (Angel of retribution; Nostradamus e Reedeemer of souls) con Firepower, per rendersi immediatamente conto della differenza stilistica tra quei lavori e questo. Laddove c'era un suono cupo, oscuro, pessimista, a tratti magmatico, qui ritroviamo, dietro una copertina passatista, il marchio di fabbrica sonoro che ci ha fatto conoscere e amare la band. 
Con Firepower si torna al classicissimo sound chitarristico a due asce, ad un Rob Halford magari meno performante ma sempre convincente, ai refrain che tagliano come lame, ad un brand insomma che risorge quando sembrava ormai irrimediabilmente confinato ai lavori di repertorio.
Difficile scovare oggi un disco che contenga così tanti brani illuminati uno impilato sull'altro, ad ascoltare la title track, Lightning strike, Evil never dies, Never the heroes, Necromancer, Children of the sun e No surrender sembra quasi di trovarsi al cospetto di un greatest hits, tanta è l'eccellenza dei pezzi. 
Ma anche quando si esce dalla comfort zone del combo, con un pezzo più "moderno", oserei dire con sfumature stoner, quale è Lone wolf, i risultati sono comunque apprezzabili.

L'operazione dei Priests di certo ha poco di spontaneo e tanto mestiere, tuttavia non è così semplice decidere a tavolino di tornare ad un sound che incontri il favore dei fan storici e poi mettere in pratica i propri intendimenti riuscendo a sfornare composizioni all'altezza.
Qui il nucleo storico della band, Rob Halford e Ian Hill (voce e basso), classe 1951 oltre a Glen Tipton, classe 1947 (che ha partecipato ai lavori di realizzazione del disco, dovendo però in seguito rinunciare a seguire la band in tour, a causa di un peggioramento del morbo di Parkinson, che lo affligge da tempo), centrano invece in pieno l'obiettivo, a pochi mesi dal cinquantesimo anniversario dalla formazione del gruppo (1969, anche se l'esordio discografico è di cinque anni dopo), con un lavoro che nelle sue quattordici tracce, per un'ora di durata, non annoia mai.

Impossibile chiedere di più, oggi, a questa band. 
Anzi, per dirla tutta il fatto di avere per le mani un lavoro come Firepower è un regalo completamente inaspettato per la categoria dei fan attempati dell'heavy metal alla quale indubbiamente appartengo.

lunedì 18 giugno 2018

La trilogia di Matrix

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Il primo film di Matrix, nel 1999, pur facendo leva su molti elementi di cyberpunk e fantascienza distopica già esplorati da altri, ha indubbiamente lasciato un segno indelebile nella storia del cinema di genere, creando un linguaggio e delle modalità di ripresa che hanno fatto letteralmente epoca. I suoi due seguiti, girati assieme nel 2004, ma proposti a distanza di qualche mese nelle sale, mi avevano lasciato invece una gran confusione e la sensazione di un pasticcio imbastito solo ed esclusivamente per ragioni commerciali.
E' anche per questa ragione che, approfittando della messa in onda della saga completa su Sky, ho voluto rivederli a breve sequenza uno dall'altro (diciamo che nel giro di una settimana, magari anche spezzettandoli, me li sono fatti tutti), in modo da ricavarne un giudizio più lucido.
Credo di aver fatto bene. Innanzitutto perchè mi sono reso conto che ricordavo ben poco di molte sequenze e quasi nulla del filo narrativo, e poi perchè la saga, vista in maniera organica, acquista notevole coerenza e dignità.
I fratelli Wachowski (nel frattempo diventate sorelle) che, al netto delle accuse di scopiazzature e plagio, hanno ideato, scritto e diretto l'intero progetto, hanno dimostrato di avere le idee chiare portando in scena, assieme ad un'azione innovativa ed adrenalinica (in Matrix Reload la lunga scena di inseguimento in autostrada resta ancora oggi qualcosa di inarrivabile) e tecniche all'avanguardia (i mitologici rallenty chiamati bullet time), tutto un universo composto da filosofie orientali, tute fetish, personaggi enigmatici, characters lascivi (posso dire? Una Bellucci insostenibilmente figa), karma e, soprattutto una coppia di protagonisti principali, Neo (Keanu Reeves) e il suo magnifico doppleganger l'Agente Smith (Hugo Weaving), impossibili da dimenticare.

Insomma, a differenza di altri titoli che hanno sofferto l'invecchiamento, alla trilogia di Matrix il passare del tempo gli fa una pippa.

giovedì 14 giugno 2018

Seek and destroy, Giorgio Costa



Complice un'attesa forzata di diverse ore alla stazione Termini di Roma e un periodo di ennesimo, intenso (ri)ascolto dei primi album dei Metallica, ho acquistato questo volume biografico di Giorgio Costa sulla"epopea" dei Metallica.
Confesso di aver scelto il libro anche per il sigillo di garanzia rappresentato dalla prefazione di Federico Guglielmi, il mio giornalista musicale preferito, nonostante sapessi bene che i Metallica non siano esattamente la sua tazza di tè (elemento questo molto coerentemente ammesso dallo stesso Guglielmi nella presentazione).
Seek and destroy è un volume che scorre via bene, le analisi, gli approfondimenti e le introspezioni di Costa permettono l'emersione di chiavi di lettura anche inedite ed originali (aspetto non banale, parlando di un gruppo la cui opera è stata sviscerata in ogni sua parte) della vita e dei lavori dei four horsemen.
La nota critica all'operazione è a mio avviso connessa all'orizzonte temporale che l'autore ha deciso di coprire. A fronte di una presenza sul mercato di tanti libri che illustrano l'intera carriera dei Tallica, Costa opta infatti per una dinamica molto originale: raccontare nel dettaglio la nascita del gruppo attraverso le gesta dei giovanissimi Ulrich ed Hetfield e dei compagni di viaggio da loro reclutati (Burton, Mustaine ed Hammett), per un periodo di tempo che copre gli esordi fino alla pubblicazione del primo album.
Successivamente, l'autore decide si spostare il racconto venticinque anni in avanti e saldarlo attorno al rapporto, a dire di Costa, salvifico, tra la band e il mitologico produttore Rick Rubin, ingaggiato dopo un lungo periodo di appannamento creativo, per i lavori di incisione di Death Magnetic del 2008.
A fronte di questa sua peculiarità, Seek and destroy si distingue senza dubbio tra la miriade di biografie date alla stampa aventi ad oggetto la storia dei Metallica, ma, e qui sta la critica, avrebbe dovuto essere maggiormente esplicitata dal sottotitolo del libro, invece che "L'epopea dei Metallica", magari "Come Rubin ha salvato i Metallica". Così, per dirne una.

Lettura comunque consigliata, a patto che non si cerchi una biografia tradizionale della band.


lunedì 11 giugno 2018

La truffa dei Logan

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West Virginia, oggi. Jimmy Logan (Channing Tatum) è una promessa mancata del football americano che ormai si arrabatta con un lavoro di fatica e vive in una casa fatiscente, lui e i suoi amici rientrerebbero nella definizione di white trash, americani bianchi che stazionano attorno alla soglia di povertà. La sua ex moglie (Katie Holmes)  è cascata invece bene, accasandosi con un idiota proprietario di diverse concessionarie Ford. Jimmy è molto legato alla figlioletta Sadie e al fratello Clyde (Adam Driver). Entrambi hanno un menomazione fisica: Jimmy zoppica per un infortunio giovanile e Clyde ha perso una mano in Iraq, per questo, e per alcune sfortune capitate in passato alla famiglia Logan, si portano dietro il fardello della "sfortuna dei Logan", dal quale l'unica esentata è la sorella Mellie (Riley Keough). Quando Jimmy viene licenziato dal cantiere in cui lavora, decide di coinvolgere tutti i fratelli in una rapina al Charlotte Motor Speedway, mitico circuito di Nascar americano. Per fare questo, gli serve però un aiuto esterno, che individua nell'esperto di esplosivi Joe Bang (Daniel Craig), detenuto presso un istituto penitenziario, il quale, a sua volta, coinvolge i suoi due fratelli, i redneck Sam e Fish (Brian Gleeson e Jack Quaid).

Steven Soderbergh mancava dal cinema dal 2013 (Effetti collaterali), in questa iato ha girato per la televisione (Dietro i candelabbri e The knick). Con La truffa dei Logan (Logan lucky, il più coerente titolo originale) torna al grande pubblico cercando in qualche modo di replicare la formula di uno suoi più grandi successi, la saga Ocean's eleven. Rispetto alle modalità con il quale è presentato il film (commedia action) ci si trova davanti a qualcosa di diverso. Il ritmo è abbastanza lento, poche le battute, una ricerca di realismo "leggero", ma anche momenti francamente insopportabili (tutte le parti con la piccola Sadie). Il lavoro dovrebbe essere collettivo, ma non tutti gli attori appaiono completamente in parte (primo fra tutti Daniel Craig, non so se penalizzato dal doppiaggio). Alla fine Soderbergh porta a casa il lavoro senza troppa enfasi, grazie anche ad un buon finale a sorpresa. 
Da segnalare, per gli amanti del country, la partecipazione di Dwight Yoakam nella parte del direttore del carcere.

giovedì 7 giugno 2018

Jack White, Boarding house reach



Su una cosa sono d'accordo con l'amico blogger Jumbolo: è difficile farsi un opinione su Jack White, capire se sia un'artista di talento o invece uno che ha semplicemente avuto più fortuna di altri, ugualmente, se non maggiormente dotati. Non sto qui a ricordarne la biografia: i suoi White Stripes avevano colpito gli appassionati con la loro rispettosa contaminazione tra indie e stili classici (blues, errebì, jump blues) resa attraverso una formazione base a due, elettrica e batteria. Poi un susseguirsi di progetti a flusso continuo (Raconteurs, Dead Weather) che più per la qualità dei contenuti (altalenante) si segnalavano per l'urgenza creativa del nostro.
L'esordio solista arriva solo nel 2012 (Blunderbuss), bissato nel 2014 (Lazaretto), entrambi con buoni riscontri commerciali. Personalmente quei dischi li ho ascoltati distrattamente e non sarei in grado di esprimere un giudizio compiuto, al contrario di questo Boarding house reach, la cui realizzazione ha visto Jack sperimentare in totale solitudine con pro-tools e reel-to-reel, suonare vari strumenti (chitarre, organo, piano, batteria, sintetizzatori) oltre che misurarsi nel canonico esercizio di songwriting e interpretazione vocale.
Il risultato finale, lo dico subito, mi ha entusiasmato. 
E per una volta non per ragioni riconducibili alla rappresentazione di un mood classico o retrò, ma per l'esatto contrario. 
Se è infatti vero che la tracklist inizia con due pezzi tra le cose migliori incise dall'artista dopo i White Stripes (il soul di Connected by love e Why walk a dog?, che durante i primi ascolti pensavo fosse una suggestiva cover di What's so funny bout peace, love and understanding?), il motivo del mio apprezzamento è legato alla cifra stilistica complessiva del disco, dentro la quale White non si pone steccati e sperimenta in totale libertà ed indipendenza. 
Dopo il dittico iniziale assistiamo così a composizioni nelle quali l'utilizzo di sample, rdf e mash-up dentro il processo creativo partorisce melodie sghembe, spiazzanti ma, per certi versi, geniali e (almeno per quello che mi riguarda) assolutamente trascinanti. 
Pezzi come Corporation, Hypermisophoniac, Ice station Zebra, Everything you've ever learned o Respect commander  rientrano in una dimensione artistica più vicina all'attitudine hip hop "colto" alla Kendrick Lamar piuttosto che alla tradizione country-rock- blues-rnb patrimonio genetico dall'ex White Stripes. Peraltro, il legame con la moderna black music è suggellato anche dalla presenza di Jay-Z nella traccia Over and over and over.
La chiosa dell'opera, così come la sua apertura, torna al classico, con la ballata What's done is done e Humoresque, arrangiata su una melodia del compositore classico Antonin Dvorak.

Insomma, capisco che per qualcuno Boarding house reach possa essere percepito come uno sterile esercizio di stile da parte di una sopravvalutata rock star. 
Per me è invece un disco sorprendente, libero, coraggioso e stimolante che ha un posto assicurato tra i miei migliori dell'anno.

lunedì 4 giugno 2018

The Rolling Stones, On air (2017)

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On air raccoglie una serie di esibizioni nelle quali dei ventenni Rolling Stones si proposero al pubblico inglese attraverso ospitate in diversi programmi radiofonici della BBC, in un orizzonte temporale che va dal 1963 al 1965.
Il periodo storico è quello dell'intransigente passione per il blues, dell'amore per l'errebì e del trasporto per il rock and roll, come la produzione discografica del gruppo, in quell'epoca, sta fedelmente a testimoniare.
Così come i primi album della band  (il debutto eponimo, England's newest hit makers, 12 X 5, No 2, The Rolling Stones, Now!; Out of our heads, December's children) erano composti essenzialmente da cover, anche le gig radiofoniche qui raccolte riprendono il tributo della band ai propri riferimenti musicali, dacchè 15 tracce su 18 nella versione standard e 28 su 32 in quella deluxe sono cover.
La qualità delle incisioni, eccellente in alcune canzoni, più a bassa fedeltà in altre, non impedisce all'amante della band di entusiasmarsi di fronte all'energia liberata dai giovani virgulti, qui magari meno scaltri di quanto sapranno essere, ma molto più genuini, anche nelle imperfezioni.
La tracklist non ha momenti di appannamento, i nomi tutelari del sound stonesiano ci sono tutti, da Chuck Berry a Bo Diddley, da Muddy Waters a Jimmy Reed, passando per Wilson Pickett e Solomon Burke, e i pochi brani originali del gruppo hanno la certificazione di assoluta eccellenza (Satisfaction, The spider and the fly, The last time, Little by little).
Un recupero lodevole, un disco imprevedibilmente fresco ed eccitante.