giovedì 28 agosto 2014

MFT, agosto 2014

MUSICA


Anche per un music-alcoholic come il sottoscritto non è sempre domenica. Ci sono dei periodi nei quali l'ascolto diventa solo routine, senza troppo trasporto ne passione. Giusto un'abitudine di cui non riesci a fare a meno. Ecco, per fortuna agosto non è stato un mese di quel tipo, anzi, il provvisorio alleggerimento dei carichi di lavoro mi ha provocato una maggiore rilassatezza e con essa una più spiccata predisposizione all'approfondimento, all'ascolto attento. L'album che più ha goduto di questo stato d'animo è stato senza dubbio il meraviglioso Remedy, dei Old Crow Medicine Show, seguito a stretta misura dai titoli che potete leggere qui sotto. Settembre promette di essere altrettanto interessante con le nuove releases dei Counting Crows, Robert Plant e di John Mellencamp, già presente in elenco con il primo live ufficiale dopo quarant'anni di onoratissima carriera.


Skid Row, Rise of the damnation army
John Hiatt, Terms of my surrender
Gaslight Anthem, Get hurt
The War On Drugs, Lost in the dream
Eric Clapton & Friends, The breeze
John Mellencamp, Live at Town Hall, July 31, 2003
Le Zeppelin, II
Overkill, White devil armory (in cuffia mentre scrivo)
Sergio Caputo, Un sabato italiano 30


VISIONI


Ho recuperato una manciata di film in stand-by da una vita: Thank you for smoking; Come un tuono; Il lato positivo; Tutti i santi giorni, mentre sul versante serial,terminata la stagione due di Orange is the new black mi sono bevuto come un sorso di Tennessee whiskey la prima di Justified ed ora sono un pò indeciso se attaccare Fargo, The Bridge USA o la sesta ed ultima dei Soprano. Occhio che ai primi di settembre partirà la final season di Sons of anarchy.

LETTURE

In un week end in montagna mi sono divorato le oltre quattrocento pagine de Il suggeritore di Donato Carrisi ma è stato un fulmine a ciel sereno, visto che subito dopo sono ripiombato nel mio tremendo blocco del lettore. Ho un pò di roba che prende polvere sul comodino, spero con il prossimo MFT di aver intaccato la pila.

lunedì 25 agosto 2014

Bob Wayne, Back to the camper


Le  aspettative che nutrivo verso questo album, alimentate dal crescente fanatismo sviluppato per Bob Wayne dopo la fulminazione per Till the wheels fall off  e il conseguente effetto domino del concerto dell'estate scorsa e del recupero del lavoro di repertorio del barbuto countryman dell'Alabama, mi hanno un po' guastato i primi approcci a Back to the camper. Sviato anche dalla copertina (cazzara, ma come vedremo fuorviante rispetto ai contenuti) mi aspettavo infatti di essere travolto da un'onda d'urto a base di veloce, divertente e irriverente country punk spruzzato di blugrass, sull'onda dei classici Everything is legal in Alabama, All those one night stand, There ain't no diesel trucks in heaven, Fuck the law, Driven by demons e compagnia bella, e invece, dopo l'inizio scarno e nervoso di Sam Tucker, che rimanda nello stile a 13 truckin' songs e nelle liriche alla rievocazione delle gesta dei  cercatori d'oro di fine ottocento, Wayne si gioca, inaspettatamente, la carta di due ballate consecutive, interpretate entrambe in duetto con la singer Elizabeth Cook. Col senno di poi 20 miles to Juárez e The river sono due pezzi fantastici, giocati sul tema di fughe verso il confine del Messico e della natura selvaggia, ma in prima istanza l'impatto mi ha decisamente disorientato, causandomi per un po' un effetto repulsivo. Pur non essendo l'ordinamento della canzoni della tracklist un capriccio ed esprimendo invece la scelta di un'architettura musicalmente più riflessiva ed evocativa rispetto all'ultimo lavoro, col tempo e la pazienza che si concede solo ai propri beniamini, il lavoro si è procurato la mia attenzione aprendosi una breccia nella mia sensibilità musicale.
Nel contesto complessivo, rispetto al passato si perde qualcosa in spregiudicatezza ed aggressività sonora, ma senza che ciò arrivi mai a scalfire profondità e stile outlaw del songwriting. Pezzi come Dope train (interpretato insieme alla leggenda Red Simspon), Hillbilly heaven, Showdown (originariamente apparso in 13 truckin' songs) sono lì a dimostrare che l'ispirazione di Bob Wayne scorre ancora orgogliosamente fluida. Ancora di più lo fanno Evangeline (presentata in anteprima durante il concerto di Milano dell'anno scorso) e la sorprendente pirate song Granuaile. Non manca nemmeno l'ormai consueto pezzo spietatamente autobiografico, The violent side of me e, in fin dei conti, nemmeno un assaggio di cosa è in grado di fare la band quando accelera un po' le battute (Til I die e I just got out).
Insomma, se dal punto di vista compositivo il percorso di Bob Wayne si arricchisce di una nuova tappa nella quale ritroviamo i classici temi dell'universo wayniano, da quello dello stile registriamo una maggiore attenzione al potenziale commerciale dell'album, esercitato con la massima attenzione a preservare la propria, forte, identità artistica.
Per Bottle of Smoke la missione può dirsi compiuta.


venerdì 22 agosto 2014

Summertime and the livin' is (finally) easy

Quest'anno, a causa del continuo evolversi dei problemi di sopravvivenza della mia azienda, ho dovuto preferito non programmare alcun periodo di vacanza facendomi una tiratona estenuante, mentre la mia famiglia si organizzava un po' per conto suo (pratica che sta diventando purtroppo un'abitudine) tra ferie  a due e centro estivo comunale del filliolo.
Mi si apre ora la possibilità di farmi qualche giorno di vacanza e anche se una sola settimana di ferie, considerato il carico di stress accumulato in questi ultimi dodici mesi fatti di giornate di lavoro da dodici ore each, è poca cosa, lo accolgo comunque con sollievo in vista di un autunno, che, almeno per me, sarà senza dubbio alcuno caldissimo.
Visto che la sweet-half ha esaurito tutta la sua dotazione di ferie, questa vacanza sarà una roba da uomini tra me e Stefano. Siamo pronti e bellicosi: disordine organizzato in camera, tavoletta del water rigorosamente alzata e cocktail (analcolici, tranquilli!) in spiaggia mentre osserviamo il tramonto sul mare. 
 
Durante il giorno invece...
 

mercoledì 20 agosto 2014

I migliori della vita: Streets of fire, Soundtrack (1984)

All'età di quindici anni pensavo di avere perfettamente chiaro ciò di cui avevo bisogno: qualche soldo in più in tasca, un aspetto migliore, una ragazza e maggior talento nel giocare a calcio. Ignoravo però che da quella lista mancasse un ulteriore elemento. Una componente di cui non avvertivo consapevolmente l'assenza ma il cui ingombro albergava in me come un agente segreto dormiente, in paziente attesa di essere attivato.
L' elemento mancante era la musica e in particolare quell'enorme bacino nel quale confluiscono a dozzine tutti i generi e gli stili riassunti per semplicità sotto il termine rock. Ci sono diversi modi per essere iniziato a questa particolare forma d'arte: qualcuno l'ha approcciata attraverso i dischi dei fratelli maggiori, altri dalle amicizie giuste, qualcuno (pochi all'epoca, molti di più oggi) dai genitori.
Per me l'occasione si è presentata inaspettatamente una sera d'autunno, in un ottimo cinema di periferia, che per quella proiezione era praticamente deserto. La persona presente con me alla visione mi confidò in seguito che gli altri due spettatori paganti oltre a noi erano niente di meno che Edoardo Bennato e il suo manager. Non ho mai saputo se questa informazione rispondesse o meno a verità, ma ricordo bene come, in seguito, lessi un'intervista nella quale l'artista napoletano citava Strade di fuoco come uno dei suoi film preferiti di sempre.
 
Dietro la macchina da presa della pellicola c'era un Walter Hill nel pieno della cresta dell'onda, reduce com'era dal successo di Driver l'imprendibile, I guerrieri della notte e 48 ore, senza dimenticare il ruolo da produttore per Alien. Il sottotitolo del film era A rock and roll fable e questa è a tutti gli effetti la migliore sinossi possibile. In una città ed un'epoca di fantasia (se diciamo una Chicago alternativa ferma agli anni cinquanta ci andiamo vicino) c 'è la principessa/rockstar in pericolo (Diane Lane); l'eroe ribelle e tenebroso (Michael Parè); il cupo villain (Willem Dafoe) e l'imbranato buono di cuore (Rick Moranis), tutti characters interpretati da giovani attori alle prime apparizioni, ma che in seguito (chi più chi meno), nonostante il flop della pellicola, avrebbero fatto la loro bella carriera hollywoodiana.

Spesso di discute del valore delle prime volte, e di come, sia che si parli di sesso che di eroina, per il resto della vita si cerchi di ritrovare quelle sensazioni potentissime e sconquassanti, riuscendo ahimè raramente nell'intento. Ecco, dentro il mio bisogno quotidiano, compulsivo, fisico di ascoltare in continuazione musica, abbeverandomi dalla fonte di chitarra, basso, batteria (e banjo) c'è molto dell' imprinting ricevuto quella sera di trent'anni fa, quando, non appena le luci del cinema si sono spente, davanti alle immagini di una città avvolta dalla pioggia e dall'oscurità, sono partite le note di Nowhere fast.

Nowhere fast è un bigino di come si può costruire un pezzo rock giovanilista. Il mood è quello del rock/rhythm and blues, le liriche sfacciatamente generazionali come tante ne sono state scritte prima, soprattutto nei sessanta (pensate a We gotta get out of this place degli Animals), sul tema del giovane emarginato che fugge da una realtà alienante (There's nothing wrong with goin nowhere baby / But we should be goin' nowhere fast), il pattern è costruito su un drumming puntuale e potente (scoprirò leggendo le note dell'ellepì che il batterista dei Fire Inc, gruppo di session men assemblato per l'occasione,  era Max Weinberg della E Street Band di Springsteen: un segno del destino!) a cui fa da contrappasso un tappeto di tastiere vagamente honky tonk. Sullo schermo un'incantevole Diane Lane strizzata in un vestitino di raso rosso e guanti neri lunghi fino ai gomiti, cantava in playback sulle voci registrate di Holly Sherwood e Laurie Sargent. Un connubio che oggi troverei banale e un po' maschilista, quello tra  rock, fatalone indifese, Harley Davidson cavalcate da motocilisti in tute di pelle nera ed eroi in impermeabile armati di fucile a canne mozze, ma che all'epoca fece non pochi danni al mio immaginario già abbondantemente compromesso da fumetti e fantasie assortite.
 
Per la verità già prima di quella fatidica sera avevo capito che qualcosa di meraviglioso, e sì, eccitante, si nascondeva tra le note e nell'immagine del rock. Ricordo che da bambino avevo provato vibrazioni inedite ed inebrianti mentre osservavo Elvis Presley cantare Jailhouse rock nella celebre coreografia inserita nel film Il delinquente del rock and roll. Era stato un attimo, un flash improvviso che pure mi aveva lasciato una fastidiosa sensazione di incompiutezza, un prurito mentale, come quando hai l'impressione di trascurare qualcosa di importante ma proprio non riesci a metterlo a fuoco.  
Quella sera al cinema, finalmente, l'imene che mi impediva di godere appieno della meraviglia musicale venne definitivamente lacerato, aprendomi un mondo che, nel bene e nel male, avrebbe cambiato l'ordine della priorità dei miei interessi per gli anni a venire.
 
La colonna sonora di Streets of fire era curata da Ry Cooder e Jimmy Iovine, ed è dunque a loro che si deve la scelta di artisti e pezzi, la contestualizzazione della musica con le immagini, il bilanciamento perfetto tra episodi veloci e dolci ballate all'interno della tracklist e infine il coinvolgimento dei Blasters, band che lascia il segno più di chiunque altro, in virtù di due pezzi monstre come One bad stud e Blue shadows e di un cameo nel quale interpretano (una versione di) loro stessi in concerto nel covo della cattivissima bike gang dei Bombers. Diversa la situazione per il cantante pop-soul Dan Hartman la cui hit I can Dream about you è consegnata ad un gruppo doo-wop nero di fantasia, perfetto anche nell'interpretazione di un pezzo tanto semplice quanto portentoso come Countdown to love, di Greg Phillinganes.
Le due ballate più potenti, nella migliore tradizione delle  canzoni-spezzacuore, sono lasciate alle suggestive ugole di Maria McKee, in libera uscita dai Lone Justice (Never be you) e Marylin Martin (Sorcerer).
 
La caratteristica principale dei dischi della vita è che pur conoscendoli in lungo e in largo in tutti i loro aspetti (musica, testi, alternanza delle canzoni) ti capita ancora, a volte, di trovarci dentro nuove sfumature. E' per questo che ancora oggi non mi sottraggo al rito dell'ascolto di Streets of fire. Perché ogni volta mi dico che un pezzo new wave come Deeper and deeper dei Fixx non dovrebbe avere molto senso nel registro stilistico complessivo dell'album e invece si amalgama con il resto, giocando sullo stesso contrasto gastronomico del miele sul pecorino stagionato. E' per questo che ogni volta mi abbandono a Hold that snake, spensierato rock and roll di Ry Cooder dal testo infarcito di doppi sensi, sorridendo al pensiero che da quel momento in avanti il maestro avrebbe iniziato una ricerca alle radici della musica che l'avrebbe portato a imparare e insegnare dall'Africa a Cuba, con risultati che rimarranno nella storia. E' per questo che, nel tempo e grazie al web, ho fatto ricerche su ricerche per individuare molti degli oscuri autori e session men dietro a questo progetto trovando più di una carriera interrotta ed artisti che sono spariti dal radar delle scene musicali.

Ma più di ogni altra cosa, con l'esperienza maturata, riguardando Streets of fire e soprattutto riascoltandone per milionesima volta il soundtrack, ho messo a fuoco una verità: il rock vive per buona parte di illusioni, prime fra tutte quella dell'eterna giovinezza, come ci ricorda, svolgendo il compito nel migliore dei modi, Tonight is what is mean to be young, secondo ed ultimo pezzo dei Fire Inc. incluso nella OST. 
Nelle mani dell'industria (oggigiorno non solo discografica), la musica nata originariamente dalla sofferenza del blues e dalla natura dopolavoristica del country è diventata un prodotto buono per vendere abbigliamento, elettronica, moto, macchine, alcolici e profumi, più che dischi.
Lo scenario che ha ospitato il set del film era un teatro di posa, Diane Lane cantava per finta, i musicisti erano attori: era tutta una messa in scena. Così come, allargando il discorso, lo è molta della musica che ascolto: derivativa, rassicurante, suonata da gente che ha l'età di mio padre quando è andato in pensione e sulla cui urgenza creativa non scommetterei un centesimo. La curva d'apprendimento iniziata trent'anni fa si può dire sia terminata.

Nondimeno questa forma artistica esercita ancora un potere straordinario su di me.
E se oggi, con il traguardo dei cinquanta più vicino di quanto lo sia la tappa dei quaranta, ancora mi ostino a segnare  concerti sul calendario della cucina e a programmare complicate trasferte per assistere alle esibizioni di allucinati countryman o metallari impenitenti, e ancora, se quando infilo un cd nel lettore o abbasso la puntina su di un vinile si ripete la magia di quel formicolio alla base del collo e di quell'immotivata eccitazione primordiale, il merito è anche di un film dimenticato e assolutamente prescindibile e della sua folgorante colonna sonora.

 

Mi sembra superfluo sottolineare come il post mi serva anche per inaugurare la nuova veste del blog, rigorosamente a tema.

lunedì 18 agosto 2014

Skid Row, Rise of the damnation army (EP, 2/3)

 
Nel periodo di mezzo tra United world rebellion, capitolo uno di tre del nuovo corso Skid Row e questo Rise of the damnation army, suo seguito appena pubblicato, Sebastian Bach ha rilasciato il suo nuovo album solista. Ecco, se dovessimo misurare il valore di questi due EP attraverso un paragone con il recente lavoro dell'ex frontman degli Skid Row, il risultato sarebbe impietosamente a vantaggio dei superstiti della band originale (coadiuvati dall'ugola di John Solinger).
Sì perché fermo restando che entrambe le produzioni si muovono nel paludoso terreno del retro rock, laddove quello di Bach risulta stantio e bolso, nel caso della sua ex band assistiamo invece ad una tenace dimostrazione di attaccamento agli insegnamenti del miglior glam-metal (We are the damned e Give it the gun), ma anche di accelerazioni dal gusto punk-rock (Damnation army). Detto che il lento Catch your fall è invece poca cosa e che l'EP è arricchito da due buone cover (Sheer heart attack dei Queen e Rats in the cellar degli Aerosmith) non ci resta che attendere il rilascio del terzo ed ultimo capitolo di questa per molti versi sorprendente trilogia.

venerdì 15 agosto 2014

80 + 80 minuti di Dave Matthews Band

Dopo l'indigestione di rock pesante delle ultime due playlist, per ferragosto ho preparato una compilation doppia che a mio avviso ben si sposa con (quello che dovrebbe essere) il mood della giornata: calda, pigra moolto laid back ma con qualche accelerazione. Questa è nel mio immaginario la Dave Matthews Band, che con il suo essere a cavallo di generi e influenze, è uno di quei gruppi difficili da collocare su un unico scaffale stilistico. Otto album ufficiali tra il 1994 e il 2012, innumerevoli dischi dal vivo e un best of ufficiale del 2006 con soli dodici tracce. Volete mettere?


CD 1

01. American baby
02. Crush
03. Grace is gone
04. Grey Street
05. Rapunzel
06. The space between us
07. What would you say
08. The best of what's around
09. Too much
10. Crash into me
11. Ants marching
12. Satellite
13. Two steps
14. Funny the way it is
15. Mercy
16. Everyday


CD 2

01. Dreamgirl
02. Stay (Wasting time)
03. Typical situation
04. I did it
05. Why I am
06. Busted stuff
07. Everybody wake up (Our finest hour)
08. Don't drink the water
09. Where are you going
10. So much to say
11. Jimi thing
12. Tripping billies
13. Smooth rider
14. Warehouse
15. Dancing nannies
16. All along the watchtower (Cover di Bob Dylan, live)

mercoledì 13 agosto 2014

80 minuti di Slayer

Come minacciato promesso nel post precedente, eccoci alla terza playlist monografica consecutiva. Rimaniamo in ambito rock duro e anzi ci spostiamo più in là, inoltrandoci nel terreno del metallo pesante, con un gruppo tra i più importanti del movimento e in particolare del genere thrash, di cui è uno degli indiscussi padri. Parlo ovviamente degli Slayer, monicker tanto influente quanto parco di pubblicazioni, se è vero che in oltre trent'anni di carriera (l'esordio dal titolo quanto mai programmatico Show no mercy è del 1983) ha dato alle stampe solo nove album, l'ultimo dei quali (World Painted blood) risale a cinque anni fa. Nessuna antologia ufficiale è mai stata licenziata dalla band.

01. Die by the sword
02. Black magic
03. Chemical warfare
04. Captor of sin
05. War ensemble
06. Dead skin mask
07. Season in the abyss
08. Angel of Death
09. Raining blood
10. Hell awaits
11. At dawn they sleep
12. Disciple
13. Stain of mind
14. Dittohead
15. Serenity in murder
16. I hate you
17. Eyes of insane
18. Psychpatic red



Gli Slayer in una immagine recente. Il terzo da sinistra è lo storico chitarrista Jeff Hanneman, scomparso nel 2013.

lunedì 11 agosto 2014

80 + 80 minuti di Foo Fighters

Vacanze o non vacanze (opzione due per il sottoscritto, almeno fino alla fine del mese), l'estate è il periodo ideale per le compilation. Bene per chi, come me, le adora e le sforna di continuo a prescindere dalle stagioni, male per chi le detesta profondamente. Questi ultimi lettori faranno bene a tenersi lontano dal blog per l'intera settimana, perché ho deciso di dedicarla appunto alle playlist monografiche. Inizio con i Foo Fighters, sui quali non mi dilungo troppo in fase di presentazione. Sette album in studio dal 1995 al 2011, un successo che è cresciuto esponenzialmente nel corso degli anni fino a far diventare la band di Dave Grohl massimo punto di riferimento per il mainstream rock americano di qualità.
Una raccolta di successi della band è stata, per la verità, già pubblicata qualche anno fa, ma a mio modo di vedere non rendeva giustizia ai FF, concentrata come era sui pezzi più commerciali del combo e soprattutto limitata nel numero delle tracce (solo tredici, al netto degli inediti). Non per niente la band ne aveva avversato l'uscita.
Spero che a Grohl piaccia di più la mia: due dischi, quaranta pezzi e via andare. 


CD 1

1. I'll stick around
2. Best of you
3. Walk
4. Let it die
5. All my life
6. Skin and bones (live)
7. This is a call
8. No way back
9. Monkey wrench
10. Everlong
11. Rope
12. My hero
13. DOA
14. Learn to fly
15. The one
16. The pretender
17. Breakout
18. Big me
19. Generator
20. Tired of you

CD 2

1. Bridge burning
2. Times like these
3. Weenie beenie
4. See you
5. Stacked Actors
6. Hey, Johnny Park!
7. New way home
8. Low
9. Enough space
10. For all the cows
11. Cheer up, boys (you make-up is running)
12. Arlandria
13. Wattershed
14. Cold day in the sun
15. Long road to ruin
16. Have it all
17. My poor brain
18. Resolve
19. Up in arms
20. Aurora

giovedì 7 agosto 2014

80 minuti di Bruce Springsteen

Quante compilation di Springsteen avrò fatto nel corso della mia vita? Innumerevoli, senza ombra di dubbio. E anche se avevo smesso da tempo di assemblarle mi sono arreso all'evidenza che con il Boss non sei mai del tutto disintossicato, difatti, da qualche giorno, una manciata di suoi pezzi hanno cominciato a girarmi in testa e, come spesso mi accade, ho sentito l'esigenza di metterli in sequenza e regalarmi dei robusti singalong nel traffico automobilistico dei pendolari. L'unico criterio di scelta adottato è quello che prevede l'assenza di un criterio scientifico. Se proprio vogliamo c'è un filo conduttore tra il legame che ho con queste canzoni e il loro mood:  lento o al massimo mid-tempo. Dalla tracklist credo inoltre emerga il mio amore per la quarta facciata (in termini di vinile) di The River e per quel gioiellino per pochi cultori che è stato Tunnel of love.
E siccome c'ho ripreso gusto, è in preparazione un ovvio volume due...

1. Thunder road
2. Tougher than the rest
3. Something in the night
4.The ties that binds
5. Meeting across the river
6. Brilliant disguise
7. Lucky town
8. Fade away
9. Long time coming
10. Point blank
11. Walk like a man
12. The promise land
13. The price you pay
14. Tunnel of love
15. Backstreet
16. When you're alone
17. Born to run (live acoustic version)