giovedì 31 dicembre 2020

Elegia americana (2020)


Nel 2016 esce Hillbilly elegy, autobiografia nella quale l'autore, J.D. Vance, racconta di sè, della sua famiglia, dalla diffusa povertà della gente che vive nella parte di Kentucky interessata dai monti Appalachi. Non ho letto il libro, ma secondo molti opinion leader, quel testo, che a quanto pare criticava il parassitismo dei locali, che vivevano di sostegno welfare, ha (involontariamente? inconsapevolmente?) contributo se non alla vittoria di Trump alle presidenziali, quantomeno a capire perchè in quelle zone del Paese (bible belt e rust belt) il repubblicano abbia fatto il pieno di voti.

Quindi, mi sono chiesto, nel trarre un film da un libro che è sì di formazione, ma che ha un forte afflato politico/sociologico, Ron Howard terrà in considerazione questi aspetti? Purtroppo no. Elegia americana è solo un melodrammone familiare con più di un'incongruenza nel suo sviluppo, la trasposizione della storia di J.D. è un banale, retorico e a tratti irritante spottone all'american dream, dove i valorosi ce la fanno "no matter what", mentre sono solo gli sfaticati a restare indietro. In un film francamente brutto non faccio tuttavia fatica a salvare le prestazioni attoriali, notevoli, anche se eccessivamente "costruite"(con vista sugli Oscar), di Glenn Close (la nonna di J.D.) e Amy Adams (la madre).

Insomma, per una volta il titolo italiano rappresenta l'opera più di quello originale perchè qui la fotografia di quella popolazione "white trash" è talmente fuori fuoco da far rimpiangere la ben più fedele rappresentazione di questi hillbillies fatta in un prodotto leggero come la serie tv Justified. Per questo Elegia americana è il titolo perfetto. Per chi crede che l'eccezione valga più della regola o che sia normale indebitarsi a vita per laurearsi (secondo indebitamento più diffuso negli States, dopo quello per l'acquisto della casa) gli USA sono ancora la terra delle opportunità. O almeno così vuol farci credere Ron Howard.

Elegia americana è disponibile su Netflix

lunedì 28 dicembre 2020

AC/DC, Power up


Nel mettere assieme i pensieri per organizzare mentalmente la recensione del nuovo album degli AC/DC sono due i concetti che mi frullavano in testa, e nessuno dei due concernente la musica contenuta dentro questo Power up (aka PWR/UP). 

Mi stupisce quasi fino al fastidio (per quanto ci si possa infastidire alla mia età per faccende di rock and roll, si intende) la pressochè totale accondiscendenza con la quale chiunque, tra critica e appassionati, accolga negli ultimi anni ogni nuovo lavoro degli australiani. Si tratta di una benevolenza che nessuno, tra i "competitor" che per storia, impatto culturale e tenacia, rientrano nel benchmark degli AC/DC, arrivano a godere. Pensiamo solo alla scientifica operazione di conteggio dei peli sul culo con relative ondate di indignazione per i nuovi (a detta di chi scrive validi) lavori di Iron Maiden (Book of souls) e Metallica (Hardwired...to self-destruct) o ancora alle reazioni con mignolo alzato di fronte a quelli che erano i nuovi lavori di Lemmy coi Motorhead (che per insistenza stilistica potevano essere paragonati alla band di Angus Young), ed avremmo un campione significativo a dimostrare come nel rock and roll saranno anche tutti uguali ma gli AC/DC sono più uguali degli altri, nonostante non abbiano sostanzialmente mai tentato strade diverse dal solito boogie-hard-rock e il leader del gruppo, a sessantacinque anni suonati, per i live act, si vesta ancora come la caricatura di uno scolaretto. 

Ma che ormai la band sia consapevole di essere diventata un brand, più che un gruppo musicale (e qui arrivo al secondo concetto), e che il suo monicker sia assimilabile a marchi pop-iconografici come la M di McDonald, la conchiglia della Shell o la mela della Apple, lo dimostra la scelta fatta negli ultimi vent'anni per le immagini di copertina, laddove dal 2000 (anno di uscita di Stiff upper lip, ultimo con un immagine artistica), tutti i lavori di questo ultimo ventennio (Black ice, Rock or bust, PWR/UP) - complice anche l'avvento dei Compact Disc e poi quello delle iconcine delle playlist Spotify - hanno orientato l'Azienda-ACDC ad un business plan di estrema sostanza ed efficacia, con il nome/brand a riempire tutto lo spazio disponibile sulla copertina, come se bastasse questo a fare del contenuto musicale una garanzia, analogamente al tuo "Dash di sempre". 

Sul contenuto dell'album cosa posso dire? Due-tre pezzi con il piglio ruffiano che serve (Shot in the dark; Kick you when you're down; Demon fire), ma che ci dimenticheremo subito, esattamente com'è successo per i brani dei due dischi che hanno preceduto questo. Personalmente sono sobbalzato solo ascoltando Through the mist of time, il mio preferito, l'unico brano che si allontana dal solito giro armonico e che rimanda, incredibilmente, all'elegante pop rock dei Van Halen (con Sammy Hagar) di 5150

Chioso solo affermando che la mia severità di giudizio viene dall'affetto che ho per gli AC/DC. Non serve, credo, ribadire quanto ami questa band, basta farsi un giro nel blog. Aggiungo che sono autenticamente felice che Brian Johnson (uno dei personaggi in assoluto più simpatici del music business) abbia superato i suoi gravi problemi all'udito che lo portarono ad abbandonare l'ultimo tour (sostituito da un Axl Rose alla Ironside, una scelta che ho detestato), tuttavia, sono convinto che se questo stesso album fosse stato rilasciato venti o trenta anni fa avrebbe ricevuto un'accoglienza molto più tiepida di quanto accade oggi. Eppure band e brani, gira e rigira, sono pressochè gli stessi, e anzi, forse, pensando a Stiff upper lip o a The razors edge , pure peggiori. 

E dunque, necessariamente, ad essere cambiati siamo noi e il contesto critico, perchè, di certo, gli AC/DC sono sempre gli stessi.

giovedì 24 dicembre 2020

Zombie contro zombie (2017)


Il regista Higurashi sta girando un survival movie con zombie, quando il set viene assalito da veri morti viventi, obbligando la troupe ad una reale lotta per la propria sopravvivenza.

Ho tenuto la sinossi al minimo indispensabile, preferendo correre il rischio di banalizzare la trama del film piuttosto che rivelarne gli incredibili sviluppi. Compenso cercando qui, in fase di commento, di convincere il lettore a non farsi in alcun modo sfuggire la visione di questo Zombie contro zombie, un film letteralmente imperdibile per ogni amante, prima ancora che degli horror, dell'Arte cinematografica.

Mi stupisce sempre come, ad altre latitudini (e penso ad Asia e Spagna, in questi ultimi anni) si riesca a realizzare progetti eccitanti e validissimi attraverso idee semplici ma originali, anche con budget risicatissimi. E' il caso di Zombie contro zombie (One cut of the dead il pressochè perfetto titolo originale, come scoprirete guardandolo) reso possibile da un crowdfounding, per un costo complessivo di venticinquemila euro. 

I tre canonici atti dell'opera cinematografica in questo caso sono suddivisi in modo chirurgico e, assemblati, completano una storia che è un purissimo atto d'amore verso la settima arte e verso le capacità più autentiche ed artigianali di realizzarla. La prima mezzora, tutta girata dal regista giapponese Shin'ichirò Ueda attraverso un frenetico piano sequenza, è solo l'inizio di una spirale avvolgente, a più strati di metacinema, di un'opera geniale, esilarante, appassionante e, per certi aspetti, commovente, che, una volta finita, si ha l'impulso di rimettere daccapo.

Uscito inizialmente in poche sale giapponesi, One cut of the dead, grazie al passaparola, ha visto progressivamente accrescere la sua popolarità, fino a raggiungere un buon successo in patria ed ascendere al rango di opera di culto nel resto del mondo. Io l'ho visto grazie all'ottima piattaforma di streaming fareastream, realizzata dai mai troppo celebrati responsabili del Far East Film Festival di Udine, che tante meravigliose pellicole di quell'area di mondo hanno contribuito a portare in Italia, ma il film si trova agevolmente anche in dvd.

Per un Natale da veri cinefili regalatevi quest'imperdibile gioiello. Sono certo che mi ringrazierete.

lunedì 21 dicembre 2020

Raven, Metal City

 


Quattordicesimo album per i pionieri della NWOBHM, più che nobili "defenders of the faith" (come vengono chiamati gli artisti che portano avanti il registro dell'heavy metal classico) veri e propri operai del metal, che continuano coi loro tempi - negli anni zero due dischi a decennio - a divulgare la loro musica, ad oltre quarantacinque anni dalla loro formazione, avvenuta a Newcaslte nel 1974. La band è creatura dei due fratelli Gallagher (no, non Liam e Noel): John - basso e voce - e Mark - chitarra - , e, a completare il trio alla batteria, dal 2017 troviamo l'ottimo (e trasversale a qualunque genere) Mike Heller. 

Metal City arriva a cinque anni dal precedente ExtermiNation, ma, sopratutto, a livello personale, arriva dopo aver scoperto il trio dal vivo nel 2017, a supporto dei Saxon, ed essermene innamorato. Dieci tracce per meno di quaranta minuti di durata di puro Raven style eseguito alla massima potenza, con un bel colpo di spugna alla carta d'identità degli ultrasessantenni Gallagher. E' superfluo, per chi conosce i Raven, chiarire che la tracklist è una frustata, tradotto: non cercate ballate qui dentro. I brani stanno tutti sotto i quattro minuti, ad eccezione della conclusiva, doomeggiante, When worlds collide, che supera i sei. The power apre invece il lavoro, tracciando congruamente le coordinate di uno stile costruito su un tappeto disumano di batteria, la chitarra di Mark e il cantato di John, qua e là punteggiato dai suoi inconfondibili e desueti acuti in falsetto (in effetti credo sia rimasto l'unico a farli). Tanti (tutti?) i pezzi sui cui scatenare l'inferno dell'headbanging: Human race, la title track, Battlescarred, Motorheadin' (indovinate dedicata a chi). 

I Raven si confermano insomma, ancora una volta una garanzia. Fuori dalle mode, dagli schemi, dal marketing e (purtroppo) dal successo commerciale, ma amati alla follia da un manipolo di nostalgici, tengono proletariamente alta la fede del vero metallo.

lunedì 14 dicembre 2020

It's never too late to mend: Warren Zevon, Stand in the fire (1980)



Questo recupero è probabilmente solo un pretesto per parlare di un grande songwriter e rocker, che da madre natura ha avuto in dono, in egual misura, talento e cattiva sorte. Vero è che, nonostante la mia passione per Zevon sia arrivata in ritardo, all'indomani della sua grave malattia e al suo album The wind, uscito proprio qualche giorno prima del suo prematuro decesso (2003), sono comunque oltre tre lustri che ascolto i suoi lavori, con una prevalenza per il periodo settantiano (quello del cofanetto della foto, consigliatissimo anche per il rapporto qualità/prezzo) ed è pertanto bizzarro che non abbia mai posato le mie orecchie sul disco dal vivo che esattamente quella prima fase di carriera si proponeva di sugellare (Zevon debutta discograficamente nel 1969, poi si perde in una deriva tossico-alcolica per tornare nel 1976, anno in cui ricomincia ad incidere con regolarità). 

La tournee del 1980, a supporto di Bad luck streak in dancing school, uscito a febbraio di quell'anno, è un successo e, il 26 dicembre, viene celebrata con la pubblicazione di Stand in the fire, il primo album dal vivo di Warren la cui tracklist sintetizza cinque serate sold-out al Roxy Theatre di Hollywood. La prima versione dell'album contiene dieci tracce, successivamente, con l'avvento del compact disc, il lavoro viene rieditato e passa a quattordici pezzi.

Lo stato di forma di Zevon è debordante, la band (sugli scudi in particolare le due chitarre, David Landau e Zeke Zirngiebel nonchè Bob Harris, al piano e sintetizzatore, oltre allo stesso Warren, che si alterna a basso, chitarra, dodici corde e piano) gira che è una goduria. Nonostante abbia un disco ben accolto da critica e pubblico uscito da pochi mesi (Bad luck streak in dancing school), il cantautore nativo di Chicago inserisce nella scaletta del lavoro solo due brani di quell'album (Play it all night long e Jennie needs a shooter), rinunciando anche al singolo più popolare (A certain girl). Una scelta vincente che fa di Stand in the fire un live come si concepivano una volta, cioè un momento di consuntivo, un punto e a capo della carriera, che resiste all'usura del tempo.

Il rocker sembra quasi irridere all'enorme - sia in termini qualitativi che quantitativi -  songbook a disposizione e si concede il lusso di aprire con un pezzo inedito (la title track) e chiudere (nella ten-tracks version) con una torrida cover/medley: Bo diddley's a gunsilnger/Bo Diddley, senza peraltro proferire una sola parola o invitare ruffianamente il pubblico a banali singalong, "limitandosi" ad infilare una serie di straripanti versioni delle sue canzoni, tra le quali Excitable boy, Werevolfes of London (forse il suo più noto successo) Lawyers, guns and money, Poor poor pitiful me, I'll sleep when I'm dead e quella Jeannie needs a shooter scritta a quattro mani con Springsteen e dai lui recentemente pubblicata su Letter to you  in una versione diversissima, e , a parere di chi scrive, minore, di questa. Nel corso dell'esibizione Warren si diverte anche a cambiare parte dei testi, infilando nelle liriche i nomi degli amici Jackson Brown (che l'ha scoperto e lanciato) e James Taylor.

Una volta tanto i quattro brani aggiunti per la versione in CD non risultano in alcun modo superflui o ininfluenti, dato che ampliano lo spettro della cifra stilistica dell'artista, in particolar modo attraverso una Frank and Jesse James suonata in parte con il solo accompagnamento di un piano in stile ragtime e, soprattutto, con la conclusiva e drammatica Hasten down the wind cui fa finalmente prologo un'introduzione parlata nella quale Warren lascia emergere, non senza ironia, i periodi più oscuri della sua esistenza.

Dopo l'anno di grazia 1980 sembrava che le porte del successo si fossero ormai spalancate, per Warren Zevon. Purtroppo così non sarà. Zevon non sbaglierà mai un disco (ne usciranno altri otto, fino al fatale 2003), ma resterà un artista molto più amato dai "colleghi" e amici (suoi fan dichiarati, oltre ai già citati Brown e Taylor, Linda Ronstadt; Willy De Ville; Bruce Springsteen; Ry Cooder; Don Henley; Dwight Yoakam; Billy Bob Thornton ) che dalla grande massa del pubblico. 

Incredibile da credere, ascoltando la musica superlativa contenuta in Stand in the fire.

giovedì 10 dicembre 2020

Tokyo tribe (2014)


In una Tokyo distopica, folle e anarchica, il sadico gangster Buppa, cannibale capo del quartiere chiamato Buppa Town, intende estendere il suo dominio a tutta la città, e per questo si prepara alla guerra con le gang degli altri blocks. Non sa però che in uno dei raid messi in atto dai suoi sgherri è stata catturata, allo scopo di trasformarla in un'ennesima schiava sessuale,  una ragazza di nome Sumni, figlia in incognito di un potente e temuto sacerdote che la vuole indietro non per amore paterno, ma per sacrificarla in dono a qualche dio. Sumni è suonata alla grande, ma tutt'altro che remissiva, con l'aiuto di un ragazzino dei sobborghi e di Kay, capo della Musashinokuni, la gang meno belligerante e dedita a diffondere pace e amore, cerca di sfuggire dal padre sacerdote e da Buppa Town. In tutto ciò Merra, il braccio destro di di Buppa (che avrebbe anche un figlio ancora più crudele di lui, che usa le persone vive come oggetti di arredamento) vuole Kay morto per un motivo sconosciuto allo stesso Kay e che verrà svelato nell'incredibile finale.

Il rap non è esattamente il mio campo da gioco e sono piuttosto allergico ai musical. Ciònonostante (come direbbero gli Elii dei bei tempi) sono letteralmente impazzito per questo film, nel quale si rappa in misura enormemente maggiore di quanto si usino i dialoghi.

Tokyo tribe (tratto dal manga Tokyo tribes) è infatti qualcosa di mai visto prima, il regista Sion Sono mette in scena una specie di coloratissima versione cyberpunk de I guerrieri della notte, o se preferite una West Side Story sotto acido, lungo le strade di una Tokyo distopica e senza regole, se non quella del più forte, i cui quartieri sono sotto il dominio ognuno di una diversa gang. Ci vuole una "mano" registica non banale a tenere assieme un putiferio anarchico di questa portata, ma Sion Sono dimostra immediatamente di avere tutto sotto controllo attraverso l'incantevole piano sequenza che apre il film e che muove dai tetti delle catapecchie fino alla strada, tra decine di personaggi che si accalcano e si scontrano. Attraverso un moderno cantastorie, un rapper/DJ che lega assieme le varie vicende, il plot scorre di evento in evento fino allo showdown, tra più d'una citazione cinematografica (la più gustosa ruota attorno a Kill Bill e Bruce Lee). 

Un film che definire sorprendente è poco. Un'opera geniale, lisergica, zeppa di ironia, violenza, sesso, ma anche di amore, fratellanza e sottotesti politici (le guerre non si fanno forse tutte per dimostrare di avercelo più lungo?).

 Visionario e imperdibile.

giovedì 3 dicembre 2020

Fulci for Fake (2019)

Mentre ci si approssima ai venticinque anni dalla morte (avvenuta nella pressochè totale indifferenza il 13 marzo 1996), non si arresta la riscoperta e la rivalutazione, iniziata ormai diverso tempo fa, di Lucio Fulci. Il regista Simone Scafidi (classe 1978), fan della prima ora del cineasta romano, realizza un progetto a lungo accarezzato girando un docu-film che, omaggiando nel titolo F for Fake di Orson Welles, si propone di raccontare vita e opere di colui che si autodefinì terrorista dei generi.

Scafidi ricorre ad un espediente interessante, quello cioè di agire attraverso voce, pensiero e presenza di un attore (l'ottimo Nicola Nocella) che, dovendosi preparare a recitare nel ruolo di protagonista in un ipotetico biopic su Fulci, per entrare nel personaggio decide di indagare sulla vita del regista attraverso una serie di interviste a chi l'ha conosciuto e "vissuto", a partire dalla figlia Camilla, la cui sfortunata esistenza è stata segnata da gravi incidenti e terribili malattie, deceduta poco dopo la realizzazione proprio di questo docu-film.

Posto che siamo al cospetto di un'opera interessante, coraggiosa e per certi versi necessaria e definitiva, sulla figura di Lucio Fulci, una produzione insomma che tutti i fan del maestro non si saranno sicuramente fatti scappare (quella dell'immagine ad accompagnamento del post è la mia copia in blu ray) devo qui confessare una parziale delusione, forse condizionata dalle aspettative elevate che nutrivo per questo progetto. Intendiamoci: per chi non conosce Fulci quest'opera rappresenta un'indispensabile ed illuminante viatico per entrare nel mondo fulciano, nei suoi lavori trasversali ai generi, nella sua maestria tecnica, nella sua capacità di creare frittate gourmet persino senza uova. Il problema semmai si pone per quelli (e col tempo sono diventati tanti) che del maestro sanno già molto. Ecco, per tutte queste persone Fulci for fake aggiunge poco alle informazioni già note sul regista romano, sul suo carattere burbero che sfociava a volte nel sadismo, soprattutto nei confronti di alcune attrici, sulle tante disgrazie che hanno flagellato la sua vita, sull'ostracismo di molta parte della critica, soprattutto quella di sinistra (a lui, che si riconosceva proprio in quella parte politica!) e sulla beffa finale che subì, quando, in quelli che saranno i suoi ultimi giorni di vita sembrava che la sua carriera potesse finalmente essere celebrata e rilanciata (attraverso un progetto con Dario Argento). 

Manca insomma quel taglio di luce inedito, quell'angolazione nuova, quel personaggio chiave capace di rivelare aspetti fin qui sconosciuti dell'uomo Fulci. L'operazione insomma che ha fatto di S for Stanley, grazie al contributo di un testimone come Emilio D'Alessandro, un lavoro straordinario, non riesce appieno con F for Fulci, nonostante gli interessanti contributi dei diversi intervistati (Camilla Fulci su tutti, ma anche l'altra figlia Antonella; il compositore Fabio Frizzi; il suo più fedele direttore della fotografia Sergio Salvati; Enrico Vanzina; Michele Soavi; il primo biografo Michele Romagnoli e lo stesso Simone Scafidi). 

Detto ciò, restano immutati stima e ringraziamento a Scafidi per essere riuscito a portare a compimento questo progetto, la cui visione resta, al netto delle mie dissertazioni da fanboy, fortemente caldeggiata.