lunedì 30 novembre 2015

Lucero, All a man should do


Ecco, i Lucero riescono ad incarnare quel lato leggero ma non superficiale, tosto ma con leggerezza, del genere americana. Lo ribadiscono, qualora ce ne fosse bisogno, con quest'ultimo All a man should do, uscito a fine estate a suggellare quindici anni di carriera e una decina di dischi all'attivo.
La band del cantante chitarrista Ben Nichols, che ha probabilmente raggiunto l'apice della produzione nel 2009 con 1372 Overton Park, non riposa sugli allora e sforna un ten tracks carico di tutte le influenze che hanno fatto dei Lucero una realtà immediatamente riconoscibile nell'ampio panorama del genere trattato. 
E così ci basta Baby don't you want me, la traccia d'apertura, per rimanere intrappolati nel calore delle loro melodie e nei ganci killer dei loro refrain. Va ancora meglio con il secondo pezzo nel quale omaggiano il mondo di un grandissimo e sfortunato artista: Went looking for Warren Zevon's Los Angeles è un tributo sincero che solo un vero fan avrebbe potuto comporre, per come va a pescare con disinvoltura nei titoli del repertorio di Zevon, utilizzandoli nelle liriche del pezzo. Sicuramente uno degli highlits dell'album.
Se qualcuno, controllando la scheda della band su wikipedia, dovesse chiedersi come mai, tra gli stili indicativi del gruppo è citato anche il punk, sappia che non si tratta propriamente di un refuso. L'attitudine più aggressiva della band non si traduce in pezzi sguaiati eseguiti con la chitarra scordata, ma sicuramente nell'approccio irriverente di un brano come Can't you hear her howl o nelle liriche del country They called her killer.
I'm in love with a girl, un pezzo alla Steve Earle periodo Transcendental blues, è la title track mascherata che conduce per mano alla conclusiva My girl and me in 93, che suona come se dietro alla batteria e al piano fossero seduti MaxWeinberg e Roy Bittan.

Non è un caso se Matt Woods, nel suo splendido disco dell'anno scorso, dedicando una canzone ai Lucero abbia compiuto un'operazione che di norma si riserva ai grandi. Nichols e i suoi sodali si sono guadagnati, se non spaventosi ritorni economici, almeno quel tipo di inarrivabile rispetto.

venerdì 27 novembre 2015

Goatsnake, Black age blues


Anche se sono in giro da una ventina di anni, scopro solo ora i Goatsnake. Va bene, a mia scusante posso portare il fatto che la band, dopo la doppietta di album del 1999 e del 2000 abbia interrotto l'attività per riprenderla solo con la recente pubblicazione di questo Black age blues.
La spina dorsale del gruppo è costituita da due pezzi da novanta dell'indie che conta, il cantante Peter Stahl che, all'apice delle sue diverse esperienze è stato infatti il singer di quegli Scream nei quali ha militato anche Dave Grohl e il chitarrista Greg Anderson, altro irrequieto della musica più ostica, che ha misurato le sue capacità anche nei Sunn O))).
Non mi sarei mai imbattuto in questo disco se non avessi, negli ultimi tempi, ripreso a leggere riviste metal, e devo dire che sarebbe stato un vero peccato, perché il ritorno dei Goatsnake è autorevole e carismatico. A dispetto delle banalizzazioni utili a definire un sottogenere, il combo losangelino (nato dalle ceneri degli Obsessed) rende onore al titolo dell'album, proponendo un disco che del blues ha sicuramente le atmosfere, proposte però così come erano state rese dai primissimi album dei Black Sabbath, quelli perlappunto più impregnati della musica che ha dannato l'anima di Robert Johnson. Quindi sì, parliamo di doom della specie che prediligo, vale a dire riff cadenzati perfetti per un headbanging consapevole, come nella suggestiva opener Another river to cross.
Ma lo stile vocale di Stahl si apre ad altre suggestioni: molto nitida ad esempio è la sua similitudine con l'ugula di Ian Astbury dei Cult (provate la title track) e, come diretta conseguenza, a tratti emergono assonanze perfino con l'inconfondibile timbrica di Jim Morrison (Coffe and whiskey) che contribuisce a rompere gli argini con la psichedelia sixties.
Anche gli amanti del genere stoner possono avere il loro momento di gloria, grazie ad un'imperiosa Grandpa Jones, prima che il doom torni a reclamare lo scettro della cifra stilistica del disco con la conclusiva A Killing blues.
 
Insomma, un lavoro dove la componente retrò si coniuga alla perfezione con atmosfere profondamente sciamaniche, per un risultato impeccabile.