lunedì 25 marzo 2024

L'ammutinamento del Caine: corte marziale (2023)


Davanti ad un tribunale militare, il capitano della marina Queeg sostiene le ragioni della denuncia al suo sottoposto, tenente Maryk, per ammutinamento, avendolo quest'ultimo sollevato dall'incarico, per presunta instabilità mentale. La corte dovrà esprimere  un giudizio, con il dibattimento affidato, per la difesa, ad un estremamente riluttante ma leale Barney Greenwald e, per l'accusa, all'aggressiva Katherine Challee. 

Confesso di non aver visto (almeno a mia memoria) nessuna delle precedenti riduzioni dell'opera teatrale di Herman Wouke. Probabilmente non avrei visto nemmeno questa, non fosse che si tratta dell'ultima regia di William Friedkin (scomparso ad agosto 2023) e, ma questo l'ho scoperto solo dai titoli di coda del film, l'ultimo ruolo dell'attore Lance Reddick (marzo 2023): una lunga carriera sia nel cinema che, in particolare, nelle produzioni televisive. Curiosamente, essendo Reddick scomparso subito dopo le riprese e la post-produzione del film, i titoli dedicano la pellicola alla sua memoria e non a quella di Friedkin.

L'ammutinamento del Caine: corte marziale pare dovesse uscire nelle sale, tant'è che viene presentato fuori concorso alla Mostra di Venezia, poi però finisce in un limbo distributivo, non vede mai i cinema e arriva in sordina su Paramount plus e nelle schede del cast finisce sotto la voce film tv.

Pur ammettendo che lo stile rimanda a quel tipo di prodotto, essendo il film girato sostanzialmente in un unico ambiente, il buon cast, la messa in scena, i dialoghi, la tensione e il ritmo non c'è dubbio siano da classe superiore. 
La vicenda si apre con il tenente Greenwald (il caratterista Jason Clarke, davvero in parte), nel ruolo di avvocato difensore, che informa l'imputato di aver accettato la sua difesa per dovere, ma che, avendo potuto scegliere, non lo avrebbe fatto, per il disonore recato alla marina. 
Già qui ci troviamo di fronte ad un incipit anomalo, rispetto a tanti legal drama, al punto che il giudice Blakely chiede al tenente Maryk (Jake Lacy) se abbia intenzione di cambiare legale. Lacy viene rassicurato da Greenwald e il processo continua, tra gli interrogatori all'assalto della procuratrice Challee (Monica Raymund) e la strategia difensiva di Greenwald. In mezzo un capitano Queeg, interpretato magistralmente da Kiefer Sutherland, che, inesorabilmente, passa dal ruolo di vittima a quello di accusato.

La tecnica di Friedkin è una lectio magistralis di primi piani, campi e controcampi che assecondano l'incremento della tensione, anche grazie alle prove attoriali (segnalo quella molto espressiva della Raymund, anche lei tante serie tv - Lie to me la principale - ). La conclusione del film, non mi riferisco all'esito del processo, quanto alla coda, è l'ennesimo colpo d'autore di Friedkin, che opera un costante ribaltamento dei ruoli, tra vittime e carnefici, definendo l'integrità militare, forse anche un pò reazionaria, di Greenwald.

Da vedere. Non solo per un doveroso saluto di commiato ad un grande regista.

Paramount +


giovedì 21 marzo 2024

Piana/Vesco, Dammi un segno (una recensione)

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, la recensione di Vale Sapisi di un romanzo romantico che affronta il tema della sordità.

Quando, qualche anno fa, iniziai a studiare la Lingua dei Segni ne ero totalmente affascinata, grazie ad essa scoprii una comunità e la sua cultura. Cominciai a partecipare alle attività organizzate dalle associazioni di sordi, m'impegnai in una serie di attività di volontariato e scrissi anche qualche racconto con l'intento di trasmettere il mio entusiasmo e far conoscere la condizione dei sordi. Rileggendoli però, non mi piacquero, avevano qualcosa di artificiale, falso. Li misi da parte e non ci pensai più. Oggi sono abbastanza convinta che per scrivere di disabilità bisogna conoscerla molto, molto bene, e avere delle capacità letterarie solide. Se poi a scrivere è un disabile, ancora meglio. Al primo anno di corso LIS lessi “Il grido del gabbiano”, l'autobiografia dell'attrice sorda Emanuelle Laborit e, anche se non era un capolavoro a livello letterario, mentre lo leggevo sentivo di comprendere almeno un po' dei sentimenti che l'autrice provava la sua condizione.

 “Dammi un segno” è la storia d'amore tra un ragazzo sordo (Brando) e una ragazza udente (Sofia). Si incontrano sul tram ogni sera ma nessuno dei due ha il coraggio di fare la prima mossa. Quando infine riescono a dichiararsi entrano uno nel mondo dell'altra. Sofia e la sua coinquilina Nina conosceranno gli amici di Brando, Daniele e Mauro, e la comunità sorda alla quale appartengono. L'idea non è nuova, tutti ricordano “Figli di un dio minore” in cui si seguiva la nascita di un sentimento tra un insegnante udente e una giovane sorda, però non è detto che la stessa trama non possa svilupparsi in modo nuovo, dato che la società è cambiata e, anche se tuttora l'inclusione non è stata raggiunta, la sordità è più conosciuta.

Però, devo dire, sono rimasta abbastanza delusa da questa lettura, principalmente perché non ho trovato una narrazione soddisfacente della disabilità: anche se in queste pagine se ne parla e ci sono dei lunghi monologhi dei protagonisti rispetto al loro passato (infanzia e prima giovinezza), non ho avuto la percezione di cosa comporti essere sordo, quali siano le conseguenze nella vita quotidiana. I ragazzi sordi comunicano perfettamente e non hanno mai un problema; Sofia e Brando si capiscono troppo bene, io e il mio ragazzo siamo entrambe udenti e ogni tanto litighiamo, magari travisiamo quanto ha detto l'altro, come può essere che tra due giovani che vengono da realtà così diverse sia sempre tutto tanto perfetto?

E poi, non viene esplicitato il modo in cui i personaggi comunicano. Io che ho fatto i corsi  Lis so che i sordi possono segnare o leggere il labiale e parlare, ma mi chiedo cosa possa capire chi non conosce la sordità. Ci sono anche momenti che mi hanno lasciata molto perplessa, come quando si scopre che Sofia non ha mai fatto incontrare Brando ai suoi genitori e (spoiler) questi scopriranno che il futuro marito della figlia è sordo solo il giorno del matrimonio. “Non volevo creare imbarazzo” dice lei, ma a me non sembra una cosa molto carina, soprattutto verso il povero Brando, tenuto nascosto ai futuri suoceri, come se ci si vergognasse di lui.

A parte questo, la storia si svolge in modo poco realistico (spoiler), il viaggio dei tre ragazzi sordi in Giappone, India, Sud America va troppo liscio, tutti li capiscono al volo e tutti sono gentili e disponibili, va sempre tutto bene, come se si trovassero a Milano o Venezia. Sofia, dal canto suo, impara la LIS  nel tempo in cui Brando è in viaggio: mi viene in mente che forse io e tutti gli altri allievi dei corsi dobbiamo essere poco svegli, visto che ci abbiamo messo almeno 3 anni. Insomma, nel racconto c'è molta approssimazione. La Cultura Sorda non viene mostrata, ma spiegata in lezioni didascaliche che Sofia e Nina impartiscono a malcapitati (amici, parenti...) ogni volta che hanno l'occasione.
 A coronare tutto questo un finale che definire prevedibile è poco.

Mi dispiace doverlo dire, ma questo libro è semplicemente brutto, affronta un tema importante in modo goffo e superficiale, con una scrittura veramente povera e infantile, e questo è tanto più grave considerato che i protagonisti sordi sono ispirati a persone reali e Daniele e Mauro hanno collaborato con le loro storie al romanzo. Le loro esperienze, come quelle delle persone che fanno parte della comunità riportate al termine del volume, avrebbero meritato ben altra scrittura. Un vero peccato.


lunedì 18 marzo 2024

Brad Mehldau, Your mother should know (2023)

La liason del jazz con la musica cosiddetta leggera è solida, antica e strutturata, non inizia certo negli anni ottanta (che però sì, sono il decennio in cui del connubio si è più tristemente abusato) con Miles Davis che rifaceva Human nature e Time after time. A riprova di ciò le cronache ci riportano nei primi settanta un Miles, che al grande successo di massa ha sempre anelato, segnarsi nell'agenda degli impegni una jam con Jimi Hendrix, purtroppo giusto qualche giorno prima che il più grande chitarrista di tutti i tempi trovasse la morte con una modalità così dannatamente idiota. Il disco jazz con i pezzi di Jimi lo realizzerà poi (1974) il pianista Gil Evans assieme ad un'orchestra di venti elementi (qui una mia breve, indegna recensione). Tralasciando peraltro l'intuizione più spettacolare di tutte ad opera di John Coltrane, che da una banale canzoncina da musical ha tirato fuori uno dei pezzi jazz per cui vale la pena vivere, My favorite things

Perciò, ecco, forse non è più nemmeno il caso di parlare di liason, piuttosto di matrimonio duraturo, e al critico rimane solo da capire se tra i due (generi) si tratti di vero amore o piuttosto di mero interesse. 
Brad Mehldau, pianista americano della Florida, che dal 1993 ad oggi ha al suo attivo più di quaranta album (per dire, ha già dato due successori all'album del 2023 oggetto di questa recensione) con il pop e il rock ha sempre limonato, a titolo esemplificativo e non esaustivo basterebbe sfogliare le tracklist dei cinque volumi, distribuiti nel tempo, di The art of  the Trio, dove ascoltiamo rapiti esecuzioni che passano da brani di musical, Radiohead, Nick Drake, classici da crooner, fino ai Beatles. 
I Beatles, appunto. Dopo quella gemma di Blackbird (The art of  the Trio, volume 1 - 1997 - ) che, vabè, è solo il mio pezzo dei fab four preferito di sempre, il buon Brad decide di dedicare un intero lavoro alla musica della mitologica band (giudizio che prescinde dal mio gusto personale).

In una tracklist di undici pezzi, dieci sono dedicati alle composizioni della ditta Lennon McCartney (uno per amore di verità è del solo George Harrison) pescando, con condivisibile saggezza, nel repertorio meno noto dei Beatles, al netto di due pezzi, I saw her standing there e I am the walrus, che comunque definirei mediamente conosciuti. Per il resto, dalla title track a For no one, a Golden slumbers o Maxwell's silver hammer, si naviga nel repertorio più nascosto e raffinato della band, scandagliando soprattutto Revolver (tre brani) e Abbey road (due) che permettono a Mehldau di dipingere i consueti sapienti arazzi armonici, questa volta con sfumature anche blues (Golden slumbers) o boogie/ragtime (I saw her standing there). 
Il disco è registrato dal vivo assemblando una serie di serate a Parigi, e si chiude con un pezzo che dei Beatles non è, ma che, porca miseria, risulta il più bello, malinconico e struggente del lotto: Life on Mars? di David Bowie. 
Quale che sia il motivo della scelta in controcorrente sulla filosofia dell'operazione, affinità alle melodie beatlesiane o banalmente non voler disperdere un'interpretazione magistrale, una conclusione satura di poesia ed emozione per un disco sicuramente da ascoltare e riascoltare.

giovedì 14 marzo 2024

Recensioni capate: Un altro ferragosto


Rieccoci a Ventotene, quasi trent'anni dopo l'ultima volta (Ferie d'agosto, 1996), con la maggior parte del cast originale, orfano però di Piero Natoli e Ennio Fantastichini (hai detto niente) a replicare la "lotta di classe" virata in una commedia all'italiana che si vorrebbe nobile parente degli Scola, dei Monicelli, ma sì, anche del migliore Virzì. 
S'è già capito che non ho gradito? 
Laddove l'opera originale era un imperfetto gioiellino, che traeva dall'equilibrio tra commedia e dramma, dentro le differenze sociali/politiche dei characters, la sua forza, vale a dire che su clichè e contraddizioni di entrambi gli schieramenti ci si potevano divertire anche i berluscones (almeno quelli dotati di un minimo di senso di autocritica e umorismo) e la malinconia di fondo era centrata sull'infelicità di esistenze gettate in pasto alle convenzioni sociali/morali, qui, per far ridere, Virzì deve ricorrere alle maschere di un De Sica in versione cinepanettone e per toccare le corde emotive far leva sulla tragedia della morte. Sprecatissimi, a mio avviso, Orlando e la Morante, eccessivamente sopra le righe un comunque bravo Marchioni, ma se la migliore prova attoriale rischia di essere quella di Sabrina Ferilli, compagni abbiamo un problema. 


Al cinema

lunedì 11 marzo 2024

Recensioni capate: Jim Thompson, L'assassino che è in me (1952) - audiolibro

Sostiene Stephen King, nell'appassionante prefazione a questo romanzo (da leggere in realtà come postfazione, visti i numerosi "spoiler"), che Jim Thompson nella sua prolifica bibliografia abbia scritto tanti hard boiled usa-e-getta a esclusivo scopo alimentare, con qualche significativa eccezione, laddove  ha invece realizzato dei capo d'opera, se non proprio capolavori. 

Uno è senza dubbio questo L'assassino che è in me, agghiacciante viaggio nella mente deviata di Lou Ford, assassino seriale che come copertura svolge la mansione di vice sceriffo in una cittadina del Texas. Una di quelle province americane modello Springfield dei Simpson, in cui ognuno, dal miliardario al ragazzo della pompa di benzina, recita una parte e tutti si conoscono, l'unica differenza con i personaggi creati da Matt Groening è che Thompson ne dà una versione in acido.  Lou si camuffa bene tra i volti noti del paese, ma nasconde un animo brutale e omicida totalmente privo di freni, vincoli morali ed empatia. Fin qui certo, si può parlare solo parzialmente di trama in anticipo sui tempi, e in effetti è sul linguaggio che Thompson è avanti mezzo secolo. Quando può parlare liberamente, e in genere succede un attimo prima di uccidere la sua preda, Lou non ha limiti, come quando minaccia chi gli sta davanti di scoparlo con una pannocchia avvolta nel filo spinato che conserva per le occasioni speciali. La brutalità delle sue azioni si amplifica laddove l'autore le scatena non per impeto d'ira ma a valle di una lucida preparazione con annesso afflato liberatorio, gonfiato dalla lunga attesa, che si porta via ogni paravento pubblico e decoro morale. 

Dal romanzo nel 2010 è stato tratto un film di Michael Winterbotton con un buon cast (Casey Affleck, Jessica Alba, Bill Pullman, Kate Hudson) che non gode di buona stampa, ma che non ho avuto modo di vedere per farmi un'idea personale.

giovedì 7 marzo 2024

MFT, gennaio febbraio

ASCOLTI

Lankum, False Lankum 
John Mellencamp, Orpheus descending
Steve Earle, Jerry Jeff
Brad MehldauYour mother should know
Howard Jones, Human's lib
Howard Jones, Dream into action
Zakk Sabbath, Doomed forever forever doomed 
Idles, Tangk
Mick Mars, The other side of Mars
Pain of Truth, Not through blood
Patti Smith, Land
Saxon, Hell, fire and damnation
Sierra Ferrell, Long time coming
Grian Chatten, Chaos for the fly

Monografie/Playlist

Post Punk/New Wave 1978/1984


VISIONI


Foglie al vento (3,75/5)
La casa degli oggetti (2/5)
Margini (4/5)
The Whale (2,75/5)
Indiana Jones e il teschio di cristallo (2,75/5)
Indiana Jones e il quadrante del destino (2,75/5)
Anything else (3,5/5)
Perfect days (5/5)
Tàr (3,5/5)
Hai mai avuto paura? (3,5/5)
The holdovers - Lezioni di vita (3/5)
The creator (3,5/5)
Oppenheimer (3,75/5)
Reinfield (3/5)
The Beekeeper (2/5)
Jimmy Bobo - Bullet to the head (3/5)
Kimi - Il futuro è in ascolto (3,5/5)
Argylle - La super spia (2/5)
Dampyr (3,25/5)
L'ordine del tempo (2,5/5)
Basic (2,75/5)
La sconosciuta (3,5/5)
Dungeons & Dragons - L'onore dei ladri (3,25/5)
The Tranfsormes - Il risveglio (3/5)
Un uomo da marciapiede (3,75/5)
Bumblebee (3,25/5) 
Night swim (2/5)
Interstellar (3,25/5)
Io, Capitano (3,5/5)
Past lives (3,5/5)
Baxter (3/5)

















in grassetto i film visti in sala

Visioni seriali

Tin star (2,5/5)
Succession, 3 (3,5); 4 (3,5)
True Detective - Night Country (3,25/5)

LETTURE

Emmanuel Carrère, Limonov
Javier Marìas, Domani nella battaglia pensa a me

lunedì 4 marzo 2024

Oliver Stone, Cercando la luce (Autobiografia)


Per il sottoscritto (stavo per scrivere per quelli della mia generazione, ma non ne sono così sicuro) Oliver Stone è stato il primo regista, tra i contemporanei, di vero culto. Nel periodo che va dal 1986 (Platoon) al 1995 (Nixon) seguivo ogni suo passo artistico, anche grazie a quella che all'epoca mi sembrava (e allora forse lo era) la condivisione di un'aderenza ideale nel perlustrare e mettere in luce gli anfratti più polverosi e celati della controversa storia americana.
Con queste premesse le quasi seicento pagine di Cercando la luce non potevano per me rappresentare un ostacolo, al contrario erano un invito ad una rimpatriata con un vecchio amico, quasi la chiusura di un cerchio, se non il saldo di un debito di riconoscenza.
Mi piace pensare che allo stesso Stone la scrittura sia servita ad una sorta di riconcilio con il suo passato, dato il grande spazio concesso alla narrazione della vita dei suoi genitori (papà militare che durante la seconda guerra mondiale conosce la mamma in Francia), delle loro debolezze, delle assenze, dei tradimenti, fino al divorzio.

Il giovane Stone passa da un'esperienza "estrema" all'altra fino alla svolta di arruolarsi per il Viet-Nam, decisione che, come noto, condizionerà pesantemente la sua vita fino a quando, tornato a casa, non deciderà di tentare, inizialmente come sceneggiatore, la strada del cinema. 
Anche qui, molte sono le pagine dedicate ai suoi primi tentativi, fino alle affermazioni degli script di Fuga di mezzanotte, Conan il barbaro e Scarface che fecero di Oliver uno degli sceneggiatori più ricercati di Hollywood, e, pur tuttavia, i soggetti a cui lui più teneva, Platoon e Nato il quattro luglio, restavano imprigionati in un limbo di false speranze e cocenti delusioni in merito alla loro realizzazione, passando da un produttore (sono al vetriolo le parole usate dal regista nei confronti di Dino De Laurentis) all'altro senza riuscire mai a vedere la luce. 
Nel frattempo Stone esordisce come regista con l'atipico horror La mano e, soprattutto, inizia il primo dei suoi set realmente pericolosi e avventurosi, rappresentato da Salvador, film che a lungo andare ottiene un buon riscontro. 

Finalmente, dopo più di una peripezia, con risorse economiche incerte e più volte sforate, usando un cast di (all'epoca) perlopiù semi-sconosciuti, Oliver riesce a realizzare il suo sogno, ovvero portare sullo schermo, con Platoon, la sua personale esperienza in Viet-Nam, romanzandola e rendendola più brutale nella caratterizzazione di qualche personaggio (il tragico dualismo Dafoe/Berenger) per meglio esprimere la classica dicotomia tra bene e male.
L'ossessione per questo film è il fulcro dell'autobiografia, ma è anche il suo limite. O almeno lo è per me, che cerco, in queste operazioni letterarie, analisi, racconti, storie dietro la realizzazione di opere con cui sono cresciuto, per certi versi mi sono formato. Qui non mancano davvero, ma solo per i primi titoli (l'esperimento di Seizure, La mano, Salvador e, appunto Platoon). Il libro si chiude in quella fase storica, con i successi e gli Oscar, lasciandomi a bocca asciutta per tutto ciò che il regista realizzerà a seguire: Wall Street, Nato il quattro luglio, The Doors, JFK, Nixon, ma anche i "minori" Talk Radio e Tra cielo e terra, il controverso (per le polemiche con Tarantino) e schizoide Natural born killers, il gran colpo di coda di Ogni maledetta domenica.

Ad ogni modo lettura senza dubbio consigliata ai cinefili, nel personale auspicio di un seguito.