mercoledì 31 dicembre 2014

MFT, dicembre 2014

MUSICA

Ultimo giorno dell'anno, tempo di bilanci. Mi soffermerò più in là, nel post sui migliori dischi dell'anno, sulle ragioni che mi hanno portato ad ascoltare, nel corso del 2014, un numero di album nettamente inferiore alla media degli ultimi anni. Oggi mi limito alla consueta lista di ascolti del mese, segnalando l'interessante elenco di uscite annunciate per le prime settimane del 2015, che vedono tra gli altri: Gang, Sangue e cenere (nuovo full lenght di inediti dopo quattordici anni); Blackberry Smoke, Holding all the roses; Steve Earle, Terraplane; Waterboys, Modern blues; Decemberist, What a terrible world, what a beautiful world; Bob Dylan, Shadows of the night (composto da cover di Frank Sinatra!); Thunder, Wonder days.
Insomma dài. Ci sarà di che fremere ed appassionarsi.

Blackberry Smoke, New honky tonk bootlegs
Blackberry Smoke, The Whippoorwill
AC/DC, Rock or bust
Ben Vaughn, Road trip
Garth Brooks, Man against machine
Mariachi el Bronx, III
John Mellencamp, Plain Spoken
Pierpaolo Capovilla, Obtorto collo
Lucinda Williams, Down where the spirit meets the bone

VISIONI

Dopo la conclusione della saga Sons of Anarchy e della prima di Les Revenants ho tirato un po' il freno dei serial, accantonando la quarta di Homeland e la terza di Mad men. Mi piacerebbe recuperare e chiudere con I Soprano e The Wire, autentici masterpiece dei quali mi mancano solo le stagioni conclusive. Avrei voluto tenerle da parte ancora un po' e gustarmele nei periodi di magra, ma è troppa la preoccupazione di incappare in spoiler.

LETTURE

Grandi soddisfazioni dall'ottimo The sound of the beast, di Ian Christie che traccia la parabola dell'heavy metal dagli esordi dei sessanta ai giorni nostri.



lunedì 29 dicembre 2014

Garth Brooks, Man against machine


Stavo per tediarvi con una breve cronistoria di vita e carriera di Garth Brooks, poi per fortuna mia e vostra mi sono reso conto che l'avevo già scritta qui, perciò se vi va andate a leggerla e una volta tanto saltiamo i convenevoli. 
Diciamo soltanto che in un periodo, gli anni novanta, in cui i miei gusti erano agli antipodi rispetto al country, Brooks mi ci ha fatto avvicinare e ancora oggi che di redneck music ne ascolto invece a vagonate, resta lui l'unico artista mainstream che seguo. Attendevo dunque con una certa eccitazione il suo ritorno sulle scene, dopo il lungo esilio volontario (l'ultimo disco è del 2001) per stemperare le tensioni con il music business e godersi seconda moglie (la collega Trisha Yearwood) e figli.
Le cicatrici delle sue battaglie contro major e file sharing si prendono comunque la scena con l'apertura di Man against the machine, titolo dell'album e della prima omonima traccia, deputata ad introdurre l'opera. Brooks sceglie non a caso di ripresentarsi sulle scene attraverso un brano non country ma venato di soul bianco, corredato da un lirismo drammatico e avvalendosi di un arrangiamento che, nonostante danzi in pericoloso equilibrio con il farsesco per l'uso di campionamenti di soldati in marcia, risulta convincente.
Sono necessari invece più ascolti per convivere con la scelta dell'artista di mettere da parte i pezzi più tirati e concentrarsi sulle atmosfere maggiormente introspettive e sulle ballate, nelle quali comunque la classe superiore di Garth emerge cristallina, come in She's tired of boys (interpretata in coppia con la Yearwood), nella spettacolare Cold like that o in Mom, l'immancabile (in ambito country) dedica alla madre. Il disco va su di giri unicamente con Rodeo and Juliet, honky tonk che riporta ai bei tempi di Ropin' the wind, per poi tornare a farsi riflessivo con Cowboys forever, Send'em down the road, You wreck me o il country-blues Tacoma.
L'album, uscito a novembre,  non ha spaccato le classifiche americane come erano solito fare le precedenti produzioni di Garth Brooks, di acqua sotto i ponti, musicalmente parlando, ne è passata tanta in quasi tre lustri, ma le canzoni di Man against the machine hanno dalla loro le caratteristiche giuste per diventare dei classici moderni e l'album un buon long seller.

L'elemento più importante è che Garth sia tornato. Certo, non ha sfornato un capolavoro, ma solo una raccolta di canzoni pregiate, suonate ed interpretata con passione. E con tutta la roba usa e getta che gira a Nashville di questi tempi, va benone così. 
Speriamo solo di non dover attendere altri tredici anni per il prossimo episodio (il numero dieci) della sua discografia.

giovedì 25 dicembre 2014

I miei guilty pleasures di Natale

Quello dei dischi natalizi è un rito irrinunciabile negli Stati Uniti, dove, tradizionalmente, già settimane prima delle feste, si assiste ad una vera e propria eruzione di album a tema. Da noi la cosa è ancora considerata abbastanza kistch e solo ultimamente artisti di varia levatura (a memoria mi sovvengono Irene Grandi, Baglioni e... Valerio Scanu) hanno provato a cimentarsi con questa prova.
Devo confessare che lo sconfinato amore che nutro per la musica e il fascino un pò infantile che ancora subisco per il Natale mi ha fatto, nel tempo, apprezzare qualcuna di queste opere. Da qui l'idea di dedicare il post natalizio ad una succinta playlist di quei dischi a tema (suddivisi per genere) un pò guilty pleasures ma tutto sommato anche no.

Country
Il country è probabilmente il genere che più di ogni altro "ha dato" al fenomeno christmas records. La lista di artisti che hanno sfornato dischi natalizi è pressochè infinita, e contiene i massimi esponenti del genere (incluso Johnny Cash), gli outsiders e i cantanti più commerciali.
La mia preferenza va a Martina McBride, il cui White Christmas, uscito per la prima volta nel 1998, è stato più volte ristampato con tracks aggiuntive (l'ultima re-release è dell'anno scorso).


Soul
Phil Spector, A Christmas gift for you from Phil Spector. Grande groove nelle versioni  degli standards stagionali ad opera di Ronettes, Crystals e Darlene Love

Album A Christmas Gift For You From Philles Records cover.jpg


Boogie woogie/Rock and Roll/Big Orchestra sound
Brian Setzer, Christmas rocks! The best of collection. Eccone un altro che sul tema ha detto molto (almeno tre dischi). Questa dovrebbe comunque essere l'opera definitiva: venti tracce che sferzano i classici con la verve rockabilly che ci si aspetta da Setzer, ma anche con suite orchestrali di pezzi di musica classica, come lo Schiaccianoci, o jazz, come My favorite things.



Heavy Metal
Twisted Sister, A twisted Christmas. Non poteva mancare, in questo sunto natalizio dei miei generi di riferimento, l'hard rock. E allora sotto con l'imprevedibile lavoro della band di Dee Snider, uscito nel 2006. Irriverenza e divertimento garantiti.

E buon Natale in musica ai lettori di Bottle of Smoke.

mercoledì 24 dicembre 2014

John Mellencamp, Plain spoken


A pochi mesi dalla pubblicazione del suo primo disco dal vivo (l'eccellente Live at Town Hall) arriva nei negozi (perlopiù quelli online, purtroppo) Plain spoken, il ventesimo album di John Mellencamp. E a confermare la trance agonistica degli ultimi tempi e l'ottimo stato di ispirazione del nostro, anche questa volta si tratta di un eccellente prodotto. Ostico se vogliamo, perchè a fronte di una manciata di melodie dalla presa immediata ne contiene altre che pretendono la giusta sedimentazione, ma eccellente.
In ogni caso, dopo la recente esperienza di No better than this, album frettolosamente accantonato per poi essere incondizionatamente amato, il sottoscritto non si fa più fregare e concede al vecchio Coguaro tutto il tempo che necessita per imporre stile e pezzi nuovi. Tanto lo avete capito da tempo che non è su questo blog che dovete cercare le recensioni agli album appena usciti o addirittura che ancora devono farlo.

L'inizio di Plain spoken è perfetto nel suo presentarsi rassicurante e confortevole, al pari di una casa riscaldata da un grande camino nella quale si viene invitati dopo aver trascorso una giornata al gelo. Troubled man, Sometimes there's God e The isolation of Mister ci mostrano un Mellencamp al suo apice di scrittura e, sopratutto, di interpretazione, grazie ad una voce sempre più dolente e ferita, ma più che mai evocativa. Il pattern è quello rurale degli ultimi anni, cioè l'essenzialità fatta melodia: violini e chitarre acustiche a competere con delicatezza con il cantato.
Con The company of cowards siamo invece in presenza di un reggae sui generis che viene, come il blues dell'album Trouble no more, reinventato attraverso la strumentazione della band, che lo suona come se appartenesse non ai rasta jamaicani ma alla provincia rurale americana di inizio secolo.

Le tematiche affrontate nell'album, oltre a coinvolgere gli aspetti sociali tradizionalmente cari all'artista, si inoltrano per una volta dentro i sentimenti più intimi e personali di Mellencamp. Così Tears in vain riflette le emozioni del cantante in merito alla fine, dopo vent'anni, del matrimonio con la prima moglie, accusata velatamente ma non troppo di tradimento. Le considerazioni sui pessimi tempi che viviamo deflagrano invece rumorosamente nel New Orleans blues di Lawless time, che chiude come meglio non potrebbe il lavoro.

La critica illuminata può dire quello che vuole di John Mellencamp: che è diventato autoreferenziale, retorico, paternalistico o prevedibile, ma se vi interessa la mia opinione è esattamente in questo modo che dovrebbe invecchiare uno che al genere americana o heartland ha dato così tanto. Scavando nelle radici di quella musica, portandola a nuovi ascoltatori, traghettandola nel futuro. Facendolo peraltro attraverso composizioni inedite quasi sempre coerenti col proprio ingombrante passato, a dimostrazione che quando l'ispirazione scorre fluida non servono arrangiamenti ridondati o produzioni sofisticate per far emergere le Canzoni. 
Un esempio, una scelta di vita artistica che farebbe bene, ne sono sicuro, anche a un certo Bruce Springsteen.


lunedì 22 dicembre 2014

AC/DC, Rock or bust


Le premesse alla recensione vera e propria di un nuovo album degli AC/DC rischiano sempre di diventare la parte più corposa del pezzo. Ma come si può sorvolare sull'unicità di questo gruppo, che dal 1974 è riuscito nella solo apparentemente semplice impresa di fendere prog, disco, punk, new wave, metal, glam, grunge ed ogni altro genere e sottogenere abbia monopolizzato l'attenzione degli ultimi otto lustri di storia musicale americana, armato solo di un sound che nel tempo ha oscillato dal blues all'heavy metal e dagli inconfondibili ricami di boogie rock generati dalla Gibson di Angus Young?
Facile sostenere che suonino sempre gli stessi due-tre pezzi, se fosse così banale sopravvivere al tempo, agli acciacchi, alle sciagure e ai cali di ispirazione, riuscendo quasi sempre a fornire prodotti all'altezza della propria storia, la band di Young e Johnson oggi sarebbe in buona compagnia, invece di godersi la propria mitologica solitudine.

E comunque in Rock or bust gli AC/DC non si limitano a confezionare la "solita" manciata di canzoni trascinanti ma prevedibili (rientrano appieno in questa categoria sicuramente la title track e Play ball), ma tornano in maniera convincente alle origini con l'incipit in pieno mood jump blues di un pezzo come Baptism by fire, flirtano addirittura con Dazed and confused dei Led Zeppelin con l'ottima Rock the house, ci regalano un midtempo (sottovalutata specialità della casa) memorabile che risponde al titolo di Dogs of war. Insomma, quello che, anche per le recenti defezioni del membro fondatore nonchè fratello di Angus Malcom Young (per gravi motivi di salute) e Phil Rudd (guai grossi con la giustizia), potrebbe essere l'ultimo disco degli AC/DC si presenta senza nessuna malinconia ma con gli stessi, consueti, fuochi d'artificio sparati a cannonate nei concerti durante la festa finale di For those about to rock
Un disco che stupisce. Anche se ti dà esattamente quello che ti aspettavi.

lunedì 15 dicembre 2014

Foo Fighters, Sonic Highways


In tutta onestà, sulle prime, dopo aver letto le recensioni degli amici blogger Ale e Filo ed essendomi del tutto riconosciuto nelle loro considerazioni, mi è parso inutile sforzarmi di dire qualcosa di mio in relazione a Sonic highways dei Foo Fighters. 
Se ho successivamente cambiato idea è solo perchè mi sembrava giusto segnalare anche da queste pagine un disco tra i più importanti ed attesi dell'anno, le cui canzoni non s'impongono istantaneamente ma richiedono tempo e pazienza per emergere. 
Proprio come i veri classici.
Proprio come i Foo Fighters, che sono cresciuti esponenzialmente album dopo album, divenendo, verrebbe da dire loro malgrado, uno dei più importanti punti di riferimento della musica rock americana. A differenza di altre band però, quella di Dave Grohl appare totalmente consapevole del ruolo ereditato e nel caricarsi il pesante onere sulle spalle non perde la bussola ma compie un'operazione ambiziosa (senza apparire pretenziosa o megalomane) tracciando una traettoria che collega otto città degli states ad altrettanti storie, raccontate attraverso documentari da un'ora ciascuno diretti dallo stesso Grohl e dalle otto tracce che compongono la release.
Purtroppo al momento di scrivere sono riuscito a vedere solo tre dei documentari (sono trasmessi dalla HBO con cadenza settimanale) che accompagnano i pezzi, ma mi sembra di poter affermare che il rischio agiografia è stato elegantemente superato e che l'attenzione del regista si concentra su territori e artisti determinanti per la crescita musicale americana e su come essi abbiano influenzato se stesso e la sua band.
Tornando al disco, anche qui si percepisce un respiro più ampio, un affrancarsi dal rock più diretto e stadaiolo del passato, senza però rinunciare all'empatia e alla tradizionale, contagiosa energia  del gruppo.
Something for nothing, che apre il lavoro, in virtù di un inizio lento e della deflagrazione del ritornello solo nella parte conclusiva, coniuga efficacemente vecchi e nuovi Foo Fighters, che comunque poco più avanti si riappropriano della loro piena identità in Congregation (ospite Zac Brown), all'interno della quale fa bella mostra un break strumentale alla Deep Purple mark II. 
I miei pezzi preferiti una volta tanto sono anche quelli più lunghi, ed arrivano in coda all'album: i quasi quindici minuti di melodia e accelerazioni di Subterranean e I am a river condensano in maniera emozionante vent'anni di passione in musica, ponendo il sigillo a quello che di certo è un punto d'arrivo e ripartenza importante per una band rigorosa che ha sempre dato l'impressione di raggiungere i suoi enormi traguardi con naturalezza e senza sforzo. 
Di certo non è così, ma anche questa è una caratteristica dei grandi.


sabato 6 dicembre 2014

MFT, novembre 2014

MUSICA

Blackberry Smoke, Leave a scar: live North Carolina
Blackberry Smoke, The Whippoorwill
AC/DC, Rock or bust
Ben Vaughn, Road trip
Garth Brooks, Man against machine
Foo Fighters, Sonic highways
Deep Purple, Perfect strangers live
Angel City, Face to face
Mariachi el Bronx, III
John Mellencamp, Plain Spoken
Pierpaolo Capovilla, Obtorto collo
Taimi Nailson, Dynamite!

VISIONI

Sons of Anarchy, stagione conclusiva
Homeland, quarta
Mad Men, terza
Les Revenants, prima

LETTURE

Sound of the beast, Ian Christe



lunedì 1 dicembre 2014

Blackberry Smoke, Leave a scar: live North Carolina


Normalmente non mi piace cominciare ad approcciare band che non conosco attraverso dischi dal vivo, preferisco costruire prima una certa conoscenza dei lavori in studio per arrivare preparato al fatidico momento del live album. Quella dei Blackberry Smoke è la classica eccezione che conferma la regola. Li ho scoperti proprio grazie a questo Leave a scar: live North Carolina per poi andare all'indietro, ripercorrendo gli album che ne hanno costituito l'ossatura. 
La band nasce ad Atlanta nei primi anni zero e subito si contraddistingue per l'intensa attività concertistica. Propone un southern rock legato alla solida tradizione di quelle parti, ma ha dalla sua la capacità di tramandarlo attraverso un valido songwriting e pezzi che sembrano già nascere con il marchio dei classici. 
Dal 2004 ad oggi pubblicano tre soli album ma suonano dal vivo qualcosa come duecentocinquanta giorni l'anno, consolidando un buono zoccolo di fans, tra i quali figura anche Zac Brown. 
Era giunto dunque il momento di elaborare un documento che testimoniasse i chilometri e il pubblico accumulato in tutti questi anni e la band lo fa in grande stile, con un doppio cd (accompagnato da un dvd) da ventidue tracce, nel quale l'alchimia tra southern e country, specialità della casa, emerge in tutta la sua scintillante meridionalità.
Grande spazio è concesso all'ultimo disco pubblicato, quel The wippoorwill, con il quale il combo ha annusato per la prima volta le charts americane. A partire da Shakin' hands with the holy ghosts che apre la tracklist, passando per Six ways to sundays, One horse town, Lucky seven, Pretty little lie la più recente opera dei BBS è rappresentata nella sua sostanziale interezza. Con Son of the bourbon e Lesson in a bottle trova buono spazio anche l'EP country New honky tonk bootlegs che i cinque georgiani hanno pubblicato nel 2008 a ribadire la stretta vicinanza con l'altro genere imperante da quelle parti degli States. 
Se vogliamo identificare attinenze e differenze con la band di riferimento di ogni southern rocker che si rispetti, vale a dire i Lynyrd Skynyrd, laddove ad esempio la matrice dei pezzi è molto identificabile con quella dei fratelli Van Zant, lo è molto meno il fattore jam band che porta a dilatare i pezzi dal vivo ben oltre il consentito. In questo Leave a scar solo una traccia, Sleeping dog, lascia andare la briglia dell'improvvisazione oltre i dieci minuti di timing, per il resto è quasi tutto dentro i limiti dei quattro-cinque minuti. 

Nonostante il southern rientri solo saltuariamente tra i miei generi preferiti, devo ammettere che ho preso una bella sbandata per i Blackberry Smoke, i cui dischi resistono in buona rotazione sui miei impianti al punto che la band si candida ad essere la miglior (mia) scoperta del 2014. 
Tra l'altro, per i primi mesi del 2015 è prevista l'uscita di Holding all the roses, nuova release dei BBS prodotta da niente di meno che da Brendan O' Brien. 
Sperando che il noto produttore non condizioni troppo il sound della band, attesa e curiosità sono già a livelli adolescenziali. 
Buon segno.