lunedì 30 gennaio 2017

Jake Clemons, Fear and love


Avete presente la voce baritonale di Clarence Clemons, quella che ci mandava in sollucchero ogni volta veniva chiamata in gioco per pronunciare la sua epocale linea di testo "and kid you better get the picture" da Tenth avenue freeze out? Beh, dimenticatela. 
Jake, nipote del mitologico Big Man, che dal 2012 calca le assi dei palcoscenici di tutto il mondo con la E Street Band meritandosi l'immediato affetto del popolo sprinstiniano, dello zio ha sicuramente ereditato la stazza, ma non il timbro vocale, sottile come un filo che sembra sempre in procinto di spezzarsi, ma forse più versatile.
Il musicista arriva a questo suo primo album con una istruzione musicale di tipo jazzistico e con buone esperienze trasversali (oltre a Bruce, ad esempio anche Roger Waters e i Roots) che in qualche modo si riversano tutte in Fear and love, tipico lavoro di formazione che fugge da rigide classificazioni di genere.
Si passa infatti dal pop elegante e d'atmosfera delle prime tracce, tra le quali spiccano Janine e Burning, per poi, superata la boa di metà disco, all'altezza della title track, passare a Sick, broke and broken: un torrido rock blues rafforzato da chitarre sferzanti e ritmiche muscolari. 
Personalmente ho molto apprezzato il non volere, da parte del piccolo Clemons (si fa per dire, vista la taglia), sfruttare la scia della popolarità del suo ruolo da E Streeters affrancandosi dal suono di quella band e seguendo le sue direttrici musicali. Perciò, se volete ascoltarlo suonare il sax, dovete aspettare i due terzi del disco (A little bit sweet; Just stay). Come dire: questa è roba differente, è la mia roba.

Insomma, Fear and love si rivela essere un disco inaspettato e divertente. Un esordio che incuriosisce e fa ben sperare. 

giovedì 26 gennaio 2017

I migliori dischi del 2016

Sono in totale otto gli album che ho estrapolato dai miei ascolti del 2016 per poi suddividerli su un podio dai canonici tre piazzamenti, assecondando la prassi consolidata degli ultimi anni.
 
POSIZIONE NUMERO TRE
 
Volbeat, Seal the deal and let's boogie


Pur con qualche ombra nel meccanismo fin qui perfetto della band di Poulsen, la luce dei Volbeat è comunque ancora forte ed inconfondibile.
 
 
Brian Fallon, Painkillers


Esordio solista del leader dei Gaslight Anthem. Tra richiami del passato e tentativi di affrancamento, il futuro del romanticismo rock potrebbe passare da qui.
 
 
Sturgill Simpson, A sailor's guide to earth


A differenza del vascello immortalato sulla splendida copertina del disco, la nave di Sturgill Simpson ha idee chiarissime sulla rotta musicale da tenere: un porto differente ad ogni approdo.


POSIZIONE NUMERO DUE
 
 
Wayne Hancock, Slingin' rhythm

Wayne "The Train" fa sempre lo stesso album? Speriamo non smetta mai...
 
 
Metallica, Hardwired...To self destruct
 

I migliori Metallica possibili (nell'anno domini 2016, a quasi sette lustri dagli esordi).

 
POSIZIONE NUMERO UNO
 

Gojira, Magma
 
Come nascere nel calderone thrash/death ed evolversi maturando in tecnica, songwriting e autostima, senza smarrire la propria identità.
 
 
Hayes Carll, Lovers and leavers

Mio caro Hayes, ne è passata di acqua sotto i ponti da quando condividevamo salame, taleggio e Valcalepio in una località sperduta della bergamasca. Il tizio scanzonato e irriverente ha lasciato oggi il posto ad un uomo e allo sfoggio delle sue bellissime cicatrici.
 

Afterhours, Folfiri o folfox

Mi ripeto: che ne arrivino altre cento di partecipazioni a talent-show televisivi, se in cambio Agnelli ci restituisce album della profondità di Folfiri o Folfox!

martedì 24 gennaio 2017

La nuova Resistenza Americana

Lo so, crescendo siamo diventati più aridi e cinici. Valori e ideologie sono andati a carte quarantotto. Ne consegue che sopportiamo a fatica tutti questi artisti milionari che prendono posizione in politica, nelle guerre, nei temi enormi e irrisolvibili come fame e carestia di oltre metà globo, che arrivano a fare gli ambasciatori dell'O.N.U.. Non ci fidiamo. 
Cosa mi rappresenta esporsi pubblicamente, quando si è ricchi sfondati e affermati se non l'ennesima ricerca di ribalta e riflettori?
Beh, insomma dipende. Spesso l'autenticità dell'impegno è conseguenza inevitabile della storia personale di chi lo propugna. Lo capisci dall'intensità di uno sguardo. Dall'onestà intellettuale. Dalle parole usate. E quando un artista come Bruce Springsteen parla di sè stesso e della sua Band come parte della nuova Resistenza Americana contro Trump, beh, sarò anche doppiamente schierato (sia per Springsteen che contro Trump), ma non posso che mettere da parte tutta la normale diffidenza (anche per un artista che qualche sbandamento dopo l'undici settembre forse l'aveva avuto) e avere un moto d'orgoglio per quest'uomo che usa una parola forte, forse spropositata visto che si riferisce comunque ad una grande democrazia qual è quella USA, come inequivocabile dichiarazione d'intenti: perchè non ci siano dubbi su quale sia la parte per la quale lui parteggia
"Con i miei musicisti siamo qui to witness and to testify" (a testimoniare e documentare) afferma Bruce. Questo è il ruolo che ci consegna la storia, è il sottotesto. Questo possiamo fare, e questo faremo, non certo candidarci in politica (offerta com'è noto più volte avanzata a Springsteen dai democratici e sempre rifiutata) o perpetrare inutili sfilate a favore di camera.
L'assidua frequentazione del catalogo di Woody Guthrie, Pete Seeger e Bob Dylan, ne sono certo, tornerà di nuovo utile.



lunedì 23 gennaio 2017

Aspettando la classifica di fine 2016

Con il consueto ritardo che mi ha contraddistinto negli ultimi anni, sono pronto per la classifica del migliori dischi del 2016. Arrivo lungo a fine gennaio non per un capriccio o per distinguermi dalla massa (quando mai!), ma semplicemente perchè dicembre mi coglie puntualmente impreparato sulla tabella di marcia e immancabilmente resto indietro di qualche recensione di valore che devo assolutamente scrivere prima di archiviare l'anno.
Che anno è stato, il 2016, da un punto di vista delle release musicali? Buono direi: molti dischi sopra la media, ma senza l'album killer che si staglia nettamente sugli altri. E' stato un anno nel quale, pur ascoltando i "soliti" sessanta/settanta dischi nuovi, sono riuscito a recensirne meno della metà. Quasi sempre i dischi non recensiti avrebbero comunque ricevuto critiche negative, per cui dovendo fare i conti con la sempre scarsa risorsa del tempo, non mi ci sono nemmeno messo.
Nel 2016 sono tornati molti dei miei vecchi e nuovi beniamini, curiosamente tutti dell'ambito country-folk-roots. Hanno infatti timbrato il cartellino Austin Lucas, Steve Earle, Hayes Carll, Wayne Hancock e Matt Woods: per tutti loro pollice in su.
E' stato forse il primo anno nel quale le nuove uscite metal hanno sorpassato nei miei ascolti quelle vintage. Megadeth, Death Angel, Metallica, Gojira, Brujeria, Volbeat, Sixx:A.M. hanno tutti pubblicato lavori in un range che va dalla ampia sufficienza all'eccellenza e avranno una loro dignitosa rappresentanza nel lotto dei migliori. Come da tradizione, ho continuato imperterrito ad ascoltare le cose che piacciono a me, spesso lontano dai riferimenti più citati dalle altre classifiche di riviste, siti e blog amici. Anche qui: non si tratta di atteggiamento aristocratico, semmai il contrario, e cioè di una sorta di limitatezza musicale alla quale ormai ho preso gusto a rassegnarmi.

Per dire di come tutto sia ancora da organizzare, al momento di scrivere questo post non so ancora di quante posizioni sarà composta la classifica (meno di dieci credo) e quando riuscirò a pubblicarla, se in settimana o lunedì prossimo.
Vabè. Tanto non c'è il rischio che quei pochi che seguono il blog trattengano il respiro nell'attesa...


giovedì 19 gennaio 2017

Cody Jinks, I'm not the devil


Nel corso del 2016 ho recensito diversi dischi che in qualche modo avevano a che fare con il country (vado a memoria: Hayes Carll, Steven Tyler, Matt Woods, Sturgill Simpson) senza che questo genere fosse però davvero predominate rispetto alla cifra stilistica complessiva di quei lavori. Ecco, se cercate un album hundred per cent country, senza prefissi aggiuntivi che non siano i rigorosi "pure" o "traditional", dovete necessariamente orientarvi verso I'm not the devil di Cody Jinks.
Questo artista texano, che, tra la fine dei novanta e i primi anni zero, musicalmente nasce metal-thrasher (con una band chiamata Unchecked Aggression) è diventato una delle più luminose speranze per tutti gli appassionati di country che non sopportano le derive pop ormai assunte da questo genere e che, al contrario, sono sempre alla ricerca di opere nuove ma ben piantate nel terreno della tradizione.

Ci arriva bello carico, il signor Jinks, all'appuntamento con il suo quinto lavoro di studio, lanciando già dall'artwork di copertina un chiarissimo il messaggio riguardo la natura revivalista della sua musica. La voce calda, tipicamente sudista, la steel guitar, le atmosfere confidenziali sono il baricentro attorno al quale si dipana, allargandosi in cerchi concentrici, I'm not the devil. Che si parli della dolorosa fine di una relazione (The same), di religione (No guarantees), di vita matrimoniale (No words), si riprenda un classico di Merle Haggard (The way I am) o si acceleri improvvisamente nell'honky tonk (Chase that song), per l'intero elenco di titoli della tracklist a prevalere è quella spietata sincerità che fa tutta la differenza del mondo tra un'opera autentica e una prodotta in serie, concetto questo distillato in tutta la sua essenza nella toccante title track.

Non è un caso se negli ultimi anni gli artisti più interessanti e genuini del country arrivino da fuori Nashville, Tennessee e da quell'omologazione che sta svuotando di valori e significato questo genere musicale. Il Texas sta giocando un ruolo fondamentale in questa ridistribuzione del talento sudista, anche grazie a personaggi come Cody Jinks, che continuano imperterriti a fare una musica orgogliosamente tenace e resistente, dotata di un fascino pericoloso, e per questo non accessibile a tutti. 
Questo è I'm not the devil. Disco country dell'anno (scorso).

lunedì 16 gennaio 2017

Afterhours, Folfiri o folfox


L'interesse per una nuova uscita discografica risente molto del desiderio che ho, in quel preciso momento, di ascoltare materiale nuovo di quel determinato artista. Perciò, se nel corso del 2016 sono stato forse più magnanimo del dovuto con le release di Ben Harper e Metallica è solo perché quei dischi mi hanno fatto i grattini proprio dove musicalmente mi prudeva.
Al contrario, quando a giugno è uscito Folfiri o folfox, l'ultimo lavoro degli Afterhours, non avevo alcuna voglia di immergermi nelle insidiose atmosfere di Manuel Agnelli, nonostante il mio affetto sconfinato e la mia imperitura gratitudine nei confronti di questa band.
Non ha aiutato di certo venire a sapere che l'album sia stato ispirato dalla morte del padre di Agnelli e che il titolo dello stesso riprendesse il nome di alcune tipologie di trattamento chemioterapico. Non ha aiutato infine l'ascolto della traccia d'apertura, Grande, che, tra liriche traboccanti e struggente interpretazione vocale, ho trovato troppo dolorosa per proseguire anche solo con la canzone successiva.
Se ho superato questo blocco quasi psicologico e da oltre un mese mi sono immerso nelle note di questo doppio CD , bisogna ringraziare (è proprio il caso di dirlo) le indirette insistenze del mio blogger di riferimento Jumbolo, nonchè di altri amici con i quali da anni ormai scambio via web impressioni e suggerimenti musicali.

Ebbene sì. Folfiri e folfox vale tutta l'attenzione richiesta per entrare in un opera non torrenziale dal punto di vista della durata (per essere un doppio, si attesta comunque sotto i settanta minuti), ma sicuramente impegnativa per i diversi mood dai quali è attraversata. Il lavoro non è solo l'elaborazione di un lutto atteso ma non meno destabilizzante, comunicato in maniera quasi epidermica da composizioni come Grande o L'odore della giacca di mio padre. Gli Afterhours riescono infatti nell'impresa di tornare a realizzare inni generazionali sghembi, così come gli riusciva negli anni di maggiore creatività, ma con la lucida consapevolezza della raggiunta maggiore età, come avviene magistralmente per Il mio popolo si fa.
Ma dicevamo dei diversi umori stilistici che attraversano il disco. Attraverso le diciotto tracce assistiamo come ad un excursus dell'intera carriera della band, che passa agevolmente da suoni acidi, a pezzi quasi improvvisati, a brani in linea con la tradizione cantautoriale italiana, alle tipiche pop songs di casa fino a rimandi ai settanta più sperimentali che richiamano l'ultimo Padania
Più di ogni altra cosa, Folfiri o folfox contiene Le Canzoni. Oltre a quelli già citati, pezzi come Non voglio ritrovare il tuo nome, Qualche tipo di grandezza, Fa male solo la prima volta o Se io fossi il giudice, a differenza degli ultimi lavori in studio (mi riferisco in particolare a I milanesi ammazzano il sabato e Padania), hanno tutte le carte in regola per acquisire la longevità dei pezzi storici della band.

Credo che tra i gruppi italiani protagonisti di una decade (quella dei novanta), irripetibile per intraprendenza, coraggio e trasversalità della proposta artistica (Marlene Kuntz, Subsonica, Mau Mau, Modena City Ramblers, 99 Posse solo per citare i primi che mi sovvengono), gli Afterhours siano probabilmente gli unici ad essere ancora in grado di competere con la qualità delle composizioni di quegli anni. Al netto di tutte le polemiche (che considero insincere e ipocrite) per le scelte mainstream di Agnelli. 

In fin dei conti la risposta migliore a quanti hanno puntato il dito contro l'ultima partecipazione di Manuel a X-Factor in qualità di giudice, è proprio un disco totalmente indipendente e senza compromessi come Folfiri o Folfox.

lunedì 9 gennaio 2017

Wayne Hancock, Slingin' rhythm


Partiamo per una volta dalla coda. Dalla conclusiva traccia numero dodici per la precisione, che si intitola Slingin' rhythm intro. Per quale ragione una intro è piazzata negli ultimi istanti di un disco e non nei primi? Semplice e per certi versi geniale. Perchè questa traccia di pochi secondi altro non è che l'improvvisazione della title track che apre il lavoro, nella quale Wayne Hancock dà le ultime disposizioni alla band prima dell'incisione definitiva della canzone. Se il vostro lettore CD, come il mio, al termine dell'ultima traccia suonata riparte dalla prima ecco che si realizza un effetto "circolare" che permetterebbe di tenere per ore in loop questo album.
Intendiamoci, non è solo per questa divertente intuizione che l'ultimo lavoro di Wayne "The Train" Hancock gira ininterrottamente da giorni sui miei vari devices, ma perchè gli album dell'artista texano sono diventati col tempo un piacere irrinunciabile, accresciuto dall'attesa sempre significativa tra un titolo e l'altro (The ride era del 2013).
Divorzio (rievocato in Divorce me C.O.D. di Merle Travis) e grave incidente in moto non hanno fermato l'irresistibile, languido juke joint swing marchio di fabbrica di Wayne, che viene ancora una volta esplicato in dodici episodi in bilico tra texas swing e rockabilly dentro i quali, a differenza di altri singer che si muovono su coordinate analoghe, non c'è solo spensieratezza retrò, ma anche testi che potrebbero essere presi dal songbook di Johnny Cash, come Killed them both, sulla quale punterei i pochi centesimi che ho in tasca in merito ad una reinterpretazione di Hank III (che di Wayne è un estimatore della prima ora, avendo già ripreso 87 Southbound e Thunderstorms and neon lights), semmai dovesse mai uscire dal suo lungo iato artistico.
E a proposito di famiglia Williams, se l'immenso Hank Williams senior fosse ancora in giro di sicuro celebrerebbe (o denuncerebbe per plagio...) Hancock per una Thy burdens are greater than mine che commuove per quanto rievochi lo stile del più grande cantante country di tutti i tempi.

The Train keep rollin'.

lunedì 2 gennaio 2017

Matt Woods, How to survive


Siccome sono un tipo sentimentale, non posso dimenticare come With love from Brushy Mountain di Matt Woods mi abbia risollevato nel periodo forse più drammatico, dal punto di vista del mestiere che mi sono scelto, degli ultimi anni. In questi tempi tecnologicamente avanzati esprimo la mia gratitudine taggando idealmente questo artista a vita e cercando di stare dietro alle sue produzioni, visto che non sono esattamente dischi di cui si parla nei talk show italiani. Solo in questo modo mi sono potuto avvedere di questa sua nuova produzione, che arriva a due anni di distanza da quella vera propria folgorazione.
How to survive riprende già dal titolo le linee guida delle composizioni di Woods, che incorniciano una filosofia di vita outlaw priva di enfasi e iperbole a uso e consumo dei clichè del sotto genere musicale. Non si raggiungono i picchi del suo predecessore (dimenticavo: disco dell'anno 2014), ma solo perchè ripetersi su quei livelli di ispirazione è impresa quasi impossibile per qualunque artista.
In compenso questo lavoro mette in fila dodici episodi di un folk-country dall'autenticità cristallina e dal mood malinconico, che fotografano con un focus asciutto la parabola discendente della provincia americana, tra fallimenti personali (Bound to lose, scritta ed eseguita insieme a Jeff Shepherd) e amnesie della società (The american way).
L'album, interamente scritto e prodotto dallo stesso Woods, si avvale del contributo di una squadra coesa di musicisti, tra i quali spiccano ex componenti di Lucero, Whitey Morgan and the 78's, oltre ai cameo di Shepherd e dell'emergente singer Adam Lee (su Love in the nuclear age).

Chiunque fosse interessato a seguire le tracce della più genuina musica del sud degli states, che si muove su coordinate folk,country,americana e roots deve necessariamente fare tappa qui, perchè, citando un commento giornalistico: America hurts and Matt Woods howl for her.