lunedì 31 dicembre 2018

2018: un consuntivo musicale (niente classifiche)

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Torno a postare sul blog dopo un paio di settimane di inattività causato da un periodo di ferie in cui ho fatto altro (soprattutto girare di casa in casa di parenti a mangiare come non ci fosse un domani, oltre a qualche lavoretto domestico) ma, devo ammetterlo, anche per un calo di stimolo creativo.
E allora il modo migliore per riprendere la penna in mano è affrontare subito quello che, storicamente, è sempre stato un obiettivo per me irrinunciabile, al quale mi approssimavo con una tale solennità da mandarmi in fibrillazione già da novembre e fino alle prime settimane dell'anno nuovo: la classifica dei migliori dischi dell'anno.
Nel 2018 è successo però qualcosa di diverso, ma tutto sommato inevitabile.  
Nell'equazione degli ascolti musica nuova/musica stagionata, si è verificato il sorpasso della seconda sulla prima.
Sarà che alla fine "la questione generazionale" ha prevalso (in questo senso il traguardo dei cinquanta ha un significato non solo simbolico) ma, pur prestando l'orecchio a tante, tante, new releases, non ne ho approfondite (che per me significa ascoltarle per un orizzonte temporale minimo di un paio di settimane) poco più di una ventina, e pertanto non aveva molto senso stabilire il disco dell'anno dentro un lotto così limitato di titoli.

L'avessi fatto, il podio sarebbe probabilmente andato ex aequo a Jack White, con il suo spiazzante Boarding house reach e, anche per un'intensa forma d'affetto, a Lindi Ortega, con l'album della rinascita Liberty.
Scelte queste che però non avrebbero rispecchiato il reale mood degli ascolti, che ha visto una prevalenza metal (ben rappresentata dal sorprendente Firepower dei redivivi Judas Priest) oltre a, anche se nel blog non ne esiste praticamente traccia, molto rap/hip hop dei novanta (NWA, 2pac, Wu Tang Clan, Nas, Eminem), in una gratificante sinergia di influenze col mi figliolo.
Da qui la scelta liberatoria di procedere, per la prima volta, a non stilare la top dell'anno.
Che sia questa la futura linea editoriale, o solo un'opzione estemporanea, solo il tempo lo dirà. 
Intanto, nei prossimi mesi, dovrò misurarmi con l'inizio di un nuovo percorso del mio mestiere. Un percorso che un pò mi spaventa, che aumenta il carico di responsabilità e che potrebbe sottrarmi ulteriore tempo ed energie mentali per scrivere delle mie abituali amenità sul blog. 
Que sera, sera. Per il momento, buon 2019 a tutti!

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giovedì 20 dicembre 2018

Nel nome del male (2009)


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Con l'opinione pubblica ancora scossa dall'atroce vicenda di cronaca delle cosiddette Bestie di Satana (gli omicidi compiuti dal gruppo nella zona di Varese si svolsero in un arco temporale che andava dal 1998 al 2004, e la sentenza di condanna definitiva per i colpevoli arrivò nel  2007), Sky commissiona un instant tv-movie in due parti sul tema "satanismo".
I rischi in questi casi sono del pastrocchio perbenista e paternalistico, ma il regista Alex Infascelli evita il trappolone portando a casa un lavoro estremamente valido, che, per confezione e messa in scena, sarebbe stato più che meritevole del passaggio su grande schermo.

Giovanni Baldassi (Fabrizio Bentivoglio) è il classico imprenditore del nord est che si è fatto da solo e che ha raggiunto un ottimo livello di agio e ricchezza per se e la propria famiglia, composta da moglie (Michela Cescon) e due figli. 
Dietro questa patina da famiglia del Mulino Bianco, tutta casa, lavoro e chiesa, si nascondono però profonde crepe, una delle quali rappresentata dal figlio Matteo (Pierpaolo Spollon), sedicenne taciturno ed inquieto che una sera non torna a casa, gettando nel panico i genitori.
Gli inquirenti locali minimizzano l'accaduto, riconducendolo a comportamenti di ribellione adolescenziale, mentre Giovanni non si dà pace e comincia ad indagare per conto proprio, incurante della crisi che si apre nel rapporto con la moglie.

Nel nome del male è un opera che si muove efficacemente dentro un argomento che, come detto, non è semplice da maneggiare in maniera credibile. Infascelli è molto abile nel fotografare la realtà superficiale ed ipocrita della provincia italiana (veneta nel caso specifico), dove l'apparenza conta più di ogni altra cosa e il marcio viene tenuto occultato agli occhi della "gente", persino se si tratta di attività delittuose. 
Lo script evita miracolosamente quasi tutti i clichè del genere thriller/horror (giusto qualche incappucciato di troppo e magari la fine preannunciata di un testimone che vuole spifferare ciò che sa, ma di contro, il tema musica black-metal non è buttato lì a cazzo), conducendo Giovanni dentro una spirale di allucinata disperazione dentro la quale, più di una volta, rischia di andare alla deriva. 
Bentivoglio interpreta in maniera esemplare il dramma di un padre devastato dai sensi di colpa, che vede il suo mondo, quello per cui ha lavorato una vita, andare in mille pezzi. L'attore lavora, come lui e solo pochi altri sanno fare, per sottrazione. Con poche linee di dialogo, le emozioni sono veicolate più da sguardi, espressioni, linguaggio non verbale.
Altro elemento apprezzabile nella trama è rappresentato dalle indagini che Giovanni compie autonomamente, infatti, diversamente da altre opere simili, il protagonista non riesce mai ad andare oltre la superficie delle cose (il satanismo), venendo continuamente depistato dai personaggi che trova sul suo cammino, che lo manipolano, senza che lui se ne avveda, fino alla drammatica conclusione. 
La fredda fotografia dei paesaggi locali (girati tra la provincia di Trieste e quella di Torino) è estremamente coerente con la cifra stilistica, e, assieme ad essa, alcune sequenze, realmente disturbanti, permeano il film di una tensione, un senso di angoscia e di catastrofe incombente che non ti lascia mai. 
Se poi guardi Nel nome del male da genitore di un figlio con l'età dello sfortunato protagonista Matteo, e rifletti su quanto davvero puoi sapere di tuo figlio adolescente, il mix emotivo diventa dirompente.

Di recente, Sky l'ha rimesso in rotazione. A mio avviso è senz'altro da recuperare.




martedì 18 dicembre 2018

Bloodbath, The arrow of Satan is drawn

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I Bloodbath sono un superguppo che raccoglie elementi della scena svedese per dare forma e sostanza ad un death-metal decisamente old school.
Contrariamente a quanto succede per molte operazioni di questa natura, i Bloodbath sono attivi da oltre quindici anni, periodo nel quale sono stati sfornati cinque dischi in studio più un paio di, rispettivamente, EP e testimonianze dal vivo.
Ad oggi sono della partita, chitarra e basso dei Katatonia (Anders Nystrom e Jonas Renkse), la batteria degli Opeth (Martin Axenrot), la seconda chitarra, dei Craft (Joakim Karlsson) e il mitologico Nick Holmes dei Paradise Lost alla voce.
Personalmente li avevo approcciati con il precedente Grand morbid funeral del 2014, ma è con questo The arrow of Satan is drawn che ci ho preso veramente gusto.
Potrebbe valere il discorso fatto per il recente I loved you at your darkest dei Behemoth, vale a dire che è l'elemento accessibilità dentro un'opera di metal estremo a fare breccia nel gusto di uno che normalmente bazzica poco il marciume sonoro (e che per il ragionamento inverso lascia indifferenti i fan integralisti del genere), a fare la differenza, tuttavia, anche qualora pezzi quali Deader, Levitator, Fleischmann o Bloodicide (che vede la gradita ospitata di Jeff Walker dei Carcass, John Walker dei Cancer e Karl Willets dei Bolt Thrower) sgorghino più dal mestiere che dall'urgenza comunicativa, il piacere nel suonare e risuonare il disco resta immutato.
Nel giudizio complessivamente positivo rientra anche l'apprezzamento per la copertina, elegante e disturbante al tempo stesso.

giovedì 13 dicembre 2018

Un lupo mannaro americano a Londra (1981)

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Avevo visto per la prima ed unica volta Un lupo mannaro americano a Londra in televisione, a metà anni ottanta, qualche tempo dopo la sua uscita al cinema. 
Riguardando in questi giorni il film di John Landis (su un dvd ricco di extra, che hanno aggiunto fascino alla magia della pellicola) c'è ancora da rimanere sbalorditi da quanto grandiosa sia quest'opera.
In pratica mi sono accorto che della mia visione giovanile (parliamo di oltre trent'anni fa...) ricordavo solo l'ancora oggi insuperabile sequenza della trasformazione in licantropo dello studente David Naughton (David Kessler) e l'amarissimo finale. 
Capiamoci, tanta roba già così, ma che piacere rituffarmi nelle atmosfere della brughiera inglese, nello sconfinato godimento per una sceneggiatura esemplare, nei dialoghi perfetti, in un bilanciamento inedito tra toni leggeri, dramma e horror e in almeno mezza dozzina di scene memorabili (come le conversazioni del protagonista con le sue vittime, post mortem), senza parlare dei tempi perfetti e di una messa in scena da scuola di cinema.
Piacere nel piacere, la possibilità, oggi, di apprezzare la scelta delle canzoni inserite nella colonna sonora, tutte a rigoroso tema lunare, con la parte del leone rappresentata dallo standard Blue moon (originariamente composto da Rodgers e Hart) proposto in tre differenti versioni interpretate da Bobby Vinton, Sam Cooke e The Marcels, ma anche dai Creedence di Bad moon rising e dal Van Morrison di Moondance.
Geniale poi la scelta del mitologico John Landis di accompagnare gli ultimi istanti del film accostando ad un finale drammatico e unhappy l'allegra e spensierata versione doo-wop che i The Marcels fecero proprio di Blue moon.

Non aggiungo altro se non: capolavoro!

lunedì 10 dicembre 2018

U.D.O., Steelfactory

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Se ci fosse una graduatoria dei più improbabili fisici da metal singer, Udo Dirkschneider la vincerebbe a mani basse. Il sessantacinquenne ex frontman degli Accept non è mai ricorso a nessun tipo di intervento estetico per mitigare gli effetti del passare del tempo sulla sua immagine. Basso, tarchiato, con una pancia da birra di tutto rispetto, sembra più un pensionato che ha passato quarant'anni a fare il fabbro ferraio, piuttosto che una rockstar.
Ma forse è proprio questo l'elemento che me lo rende più vicino e simpatico. Al motto di "bando alle ciance e ai look elaborati, if you want heavy metal, you've got it", il buon Dirkschneider assieme alla sua ormai fidata band U.D.O. ha dato da poco alle stampe il suo diciassettesimo album in trent'anni.
E, beh, non serve che mi dilunghi troppo sullo stile di Steelfactory: classici riffoni che vanno giù dritti, ritornelli intonabili anche dopo averli ascoltati mezza volta e nessuna paura di cadere nel kitsch, al punto da inserire, durante il guitar solo di una traccia (Blood on fire), un classico fraseggio da tango di balera.

Insomma, via col lissio. Pardon, col metal.

giovedì 6 dicembre 2018

Il boss (1973)

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Con Il boss, Fernando Di Leo, dopo Milano Calibro 9 e La mala ordina, chiude la sua trilogia del milieu consegnando alla storia del cinema di genere (e non solo) italiano (e non solo) un capolavoro secondo solo al primo capitolo del trittico di film.
Rispetto alle prime due pellicole, l'azione si sposta da Milano a Palermo ma ancora una volta la narrazione si apre con una grande sequenza iniziale: vediamo infatti un uomo (Lanzetta, interpretato da Henry Silva) introdursi nella sala proiezione di un piccolo cinema e fare fuoco con un lanciagranate sul pubblico presente, composto per intero dalla famiglia mafiosa Attardi.
La mattanza, eseguita su commissione di Daniello, boss di Lanzetta, è l'inizio di una vera e propria guerre da famiglie mafiose siciliane, nel quale si inserisce il calabrese Cocchi (Pier Paolo Capponi), scheggia impazzita della mala,  che per ritorsione fa rapire l'unica figlia di Daniello.
Referente di tutte le famiglie e "capo dei capi" è Don Corrasco (Richard Conte), il quale è chiamato ad intervenire per appianare gli attriti e riportare l'ordine in Sicilia, anche su pressione dello Stato, con il quale si intuisce avere un accordo di lunga e reciproca collaborazione. Anche le forze dell'ordine sono allertate, ma in questo caso le complicazioni aumentano perchè il questore (Vittorio Caprioli) deve guardarsi dal commissario Torri (Gianni Garko), al soldo della mafia.

Se l'impronta politica di Milano Calibro 9 era orientata alla disamina sociale, con riferimenti alla repressione degli studenti, alla criminalizzazione degli immigrati meridionali e all'orientamento politico di destra di prefetture e questure, con Il boss Di Leo affonda con precisione il colpo della denuncia delle connivenze tra Stato e mafia con una sceneggiatura e, soprattutto, dei dialoghi coerenti e credibili. L'avvocato Rizzo (Corrado Gaipa) che tiene i rapporti con i boss mafiosi per conto dello Stato è in questo senso una figura centrale, si rivolge a Don Corrasco con deferenza ma anche con fermezza e sciorina i conti in merito a quanto voti porta la mafia e in quanti parlamentari queste preferenze si traducano. Il film ci mostra una mafia radicata ovunque: istituzioni, governo, forze dell'ordine e persino nella Chiesa. La verosimiglianza degli eventi all'epoca andò di traverso a qualcuno, se è vero che un ministro presentò querela per diffamazione , provocando un iniziale sequestro della pellicola. 

Ma anche se ci limitassimo alla qualità dell'intreccio noir il film è solido come una roccia, con svariati twist e scene di azione non banali. Le interpretazioni sono di livello, con attori magari monoespressivi, ma perfetti alla bisogna (mi riferisco ovviamente ad Henry Silva) assieme ad altri che invece, attraverso un'interpretazione convinta, donano spessore ai propri personaggi, come Pier Paolo Capponi/Cocchi e uno strepitoso Vittorio Caprioli nei panni di un questore onesto ma disilluso, che usa il sarcasmo per sottolineare tutta la sua impotenza e le stridenti contraddizioni di quella terra.
Discorso a parte per i personaggi femminili, anche qui tratteggiati  in una modalità che oggi si definirebbe misogina, attraverso la parte di Antonia Santilli (Rita, la figlia di Don Daniello) raffigurata come un'odiosa  ragazzina viziata, ninfomane e decerebrata.
La messa in scena, al solito, pur nella povertà dei mezzi (ma la sequenza iniziale rimane straordinaria facendo passare in secondo piano l'evidente l'uso di manichini in luogo dei cadaveri), è spettacolare. Di Leo, che oltre alla regia firma soggetto (tratto dal romanzo Il mafioso, di McCurtin) e sceneggiatura, si muove con disinvoltura dentro il genere, regalandoci anche qui sequenze memorabili e scene plastiche.

Il film si chiude dopo uno dei tanti colpi di scena della storia e con la scritta "continua", chissà se Di Leo avesse effettivamente in mente di dare un seguito alla narrazione, magari accarezzando l'idea di una saga in più capitoli, o se quella scritta fosse una sorta di epitaffio al film con il monito che comunque quelle dinamiche "di fantasia" sarebbero continuate imperterrite nella vita reale.

Un fulgido esempio di come lo stile popolare del cinema di genere poteva graffiare allo stesso modo, se non più, di quello di impegno civile. Con la differenza che, essendo il genere privo di connotazioni ideologiche, imprimeva ad un elevato numero di spettatori "indifesi" un messaggio politico ben chiaro ed orientato.

lunedì 3 dicembre 2018

Salmo, Playlist

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Anche se Bottle of smoke ha tutt'altro orientamento musicale, seguiamo con una certa attenzione la scena rap italiana, soprattutto quella parte che potremmo definire old school e che esula dalle fenomenologie del momento (trap e compagnia bella).
E' pertanto bizzarro essere arrivati solo ora ad approfondire la musica di uno dalla forte personalità come Salmo, che, con Playlist, è arrivato al quinto lavoro in sette anni.

In ritardo o meno, è già un paio di settimane buone che questo album è in alta rotazione nei miei ascolti senza che sia venuto a calare interesse e voglia di metterlo su da capo.
Diciamo che condivido con l'artista sardo (all'anagrafe Maurizio Pisciottu) la critica verso quell'ostentazione dell'eccesso, tema costante dei colleghi di rime cafoni arricchiti, che Salmo mette alla berlina nelle tracce Ricchi e morti e Dispovery channel. 
Tuttavia, oltre questo aspetto, Playlist si è guadagnato la mia attenzione anche in virtù di altre tracce dirette e potenti, quali 90min o Stai zitto (feat. il Fibra nazionale che nel suo pezzo "assolve" la trap sostenendo che "a 18 anni mica scopi se ascolti gli Slayer"). 
Restando nei fenomeni giovanili, totalmente evitabile  il featuring con Sfera Ebbasta, una sorta di coalizione in polemica risposta con la rivista Rolling Stone, che aveva messo un pò artificiosamente l'uno contro l'altro. Il brano in questione (Cabriolet), anche se si sente canticchiare in ogni dove, è a mio avviso debolissimo, soprattutto rispetto alla media del disco.
Verso la fine della tracklist Salmo si toglie anche lo sfizio di inserire Tiè, un breve pezzo strumentale nel quale torna al suo primo amore, la batteria.

Sarebbe facile per me definire Playlist disco rap italiano dell'anno, visto che non ne ho ascoltati altri. 
Mi limito allora ad affermare che con questo album ho appagato la mia personale esigenza del genere, per l'anno 2018.

giovedì 29 novembre 2018

La bestia uccide a sangue freddo (1971)

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Ormai affermatosi come sceneggiatore (decine di script, tra i quali Per un pugno di dollari e Per qualche dollaro in più, di Sergio Leone) e reduce dai buoni riscontri ottenuti da I ragazzi del massacro, a Fernando Di Leo viene commissionato un thriller-horror che, seguendo una modalità tipica del cinema di genere, replicasse il fenomeno del momento, nello specifico il successo fatto registrare dai primi film di Dario Argento.
Si narra che Di Leo non avesse nessun trasporto artistico per un'operazione di questo tipo ma che, vuoi per pagarsi l'affitto, vuoi perchè ai tempi si girava di tutto senza stare troppo a sottilizzare, accettò.

Il risultato è un film che, già dalle prime sequenze, dove ci viene mostrato il classico killer mascherato di nero vestito che si muove goffo ed ansimante, sembra una parodia. La sensazione non cambia nello sviluppo della storia, con la clinica psichiatrica di lusso nella quale si svolge la narrazione che più inverosimile di così non si potrebbe. Fra le mura di questo antico castello, destinate ad internare personalità disturbate anche violente, si trova infatti un vero e proprio arsenale appeso come ornamento ai muri: spade, mazze, bastoni, asce, antichi oggetti di tortura (una vergine di ferro) oltre che, distribuite nei corridoi, diverse armature.
Ma l'aspetto più incredibile de La bestia uccide a sangue freddo è che, nel 1971, Di Leo realizza in pratica un film porno, tra clichè di ninfomani, scene lesbo spinte e intense masturbazioni femminili realizzate talmente nei più piccoli dettagli anatomici da fare effetto anche oggi, quasi quarant'anni dopo. Non oso immaginare la reazione del pubblico nelle sale dell'epoca.
Dopo tanti dialoghi inutili e sequenze (inconsapevolmente?) surreali e noiosamente prolungate (su tutte, quella delle fighissime infermiere che giocano a croquet con le fighissime pazienti), da salvare la mattanza finale ad opera della "bestia", che, e qui forse la vera zampata d'autore, non viene fermata prima di aver ritinteggiato di rosso sangue le pareti della clinica.

Opera da vedere per curiosità e completismo. 
Ci resterà sempre il dubbio se il Maestro abbia voluto vendicarsi dei committenti, perculandoli con un film assurdo, oppure se facesse sul serio. 
Io opto per la prima ipotesi, considerando che da lì a pochi mesi avrebbe realizzato il capolavoro Milano Calibro 9.

lunedì 26 novembre 2018

Dee Snider, For the love of metal

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Gli appassionati di metal di lunga data, che, oltre ad ascoltare questo genere, non hanno mai smesso di leggerne le gesta su riviste, libri e, ovviamente, la rete, hanno fatto il callo all'incoerenza dei propri beniamini. 
Non si indignano più se cambiano idea più spesso di quanto si lavino i capelli (per quelli che ancora ne hanno). Niente di scandaloso quindi se il mitologico Dee Snider, dopo aver seppellito i Twisted Sister, e dopo aver dichiarato di volersi affrancare dal metal, abbia rilasciato un disco dal titolo... For the love of metal.
Le perplessità semmai possono emergere dall'ascolto dei brani dell'album, scritto e prodotto da Jamey Jasta degli Hatebreed (in pratica in buon Dee si è limitato a raggiungere gli studi di registrazione per interpretare le dodici tracce), visto il sound pompato e modaiolo delle composizioni, che rimanda, oltre agli stessi Hatebreed, ai Five Finger Death Punch e alla roba che tanto piace alle moderne piattaforme musicali, siano esse televisive o social.
Un lavoro questo nel quale è praticamente impossibile rintracciare l'identità artistica di Snider, annullata in favore di un mood totalmente spersonalizzante. 
Le canzoni possono anche essere piacevoli ad un ascolto distratto, ma, ad eccezione dell'intensa Dead Hearts (love the enemy), il cui testo verte sul bullismo, cantata assieme ad Alissa White-Gluz degli Arch Enemy, si ha sempre l'impressione di trovarsi davanti ad un prodotto usa-e-getta, mentre noi dall'icona Dee Snider ci aspetteremmo sempre qualcosa di più.

giovedì 22 novembre 2018

L'uomo sul treno (2018)

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Cosa saresti disposto a fare se venissi licenziato a sessant'anni da un lavoro ben retribuito, con lo spettro di non poter fare fronte a due mutui e alle spese universitarie di tuo figlio? 
Probabilmente qualunque cosa. Ecco perchè quando al brav'uomo Michael MacCouley (Liam Neeson), seduto al suo posto sul treno che prende tutti i giorni da dieci anni per l'itinere casa-lavoro, si presenta la distinta e affascinate Joanna (Vera Farmiga) con una proposta bizzarra: cercare tra i pendolari abituali un passeggero che non lo è e mettere un gps nella sua borsa, in cambio di centomila dollari, di cui 25k in anticipo, sale forte la tentazione di accettare. 
Nemmeno il tempo di uno scrupolo di coscienza e la faccenda diventa più grave di quanto paventato, con i propri cari tenuti sotto minaccia e cadaveri disseminati tra i vagoni.

Il giudizio su questa pellicola va a mio avviso separato in due. Molto buona la prima ora di film, con una costruzione anche tecnica affascinate (l'incipit nel quale in pochi istanti il regista Jaume Collet Serra riesce a condensare il trascorrere del tempo dentro la routine di tanti pendolari), oltre che per un plot avvincente che richiama, anche per i momenti di tensione, atmosfere hitchcokiane, accompagnato però da una parte conclusiva inverosimile nella quale Neeson torna a fare il super eroe modello Taken con sequenze d'azione a mio avviso fuori luogo nel contesto.

Se facciamo media in ogni caso L'uomo del treno si guadagna un'ampia sufficienza.

lunedì 19 novembre 2018

FM, Atomic generation

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Anche gli inglesi FM hanno superato i trent'anni di attività (al netto di una iato di una decina d'anni, a cavallo tra la metà dei novanta e degli zero), alla faccia di chi considerava l'elegantissimo hard rock marchio di fabbrica della band londinese come superato dai tempi.
Atomic generation è l'undicesimo album della loro discografia, ed è davvero un gioiellino che riporta le lancette indietro agli anni in cui l'AOR statunitense, con gruppi come Toto, Foreigner o Reo Speedwagon, asfaltava le programmazioni radio e svettava nelle charts di genere e generaliste.
La band del singer Steve Overland si muove in questo ambito musicale con grazia e un gusto per le armonie che un mucchio di gruppi giovani revivalisti darebbero un braccio per avere.
Le irresistibili melodie e i refrain di queste undici canzoni riescono a coniugare presa immediata e buona longevità, la tracklist, una volta entrata in circolo, è destinata a dominare il repertorio che cantiamo sotto la doccia quando pensiamo che nessuno ci ascolti.
Black magic, Killed by love, Do you love me enough o l'imprevedibile, arioso pop soul di Playing tricks on me, solo per citarne alcune, sono quanto di meglio l'AOR possa offrire oggigiorno.
Unico rischio, l'eccesso di melassa e good vibrations, ma con gli FM vale la pena correrlo.

giovedì 15 novembre 2018

Cliff Westfall, Baby you win

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Tipo interessante, questo Cliff Westfall. Born and raised in Kentucky, patria del blugrass, quando inizia a suonare si orienta al cowpunk, prima di lasciare la terra del whiskey e trasferirsi a New York, dove finalmente riesce a pubblicare il suo debutto Baby you win.
Cosa aspettarsi da un musicista del sud con precedenti in formazioni punk,  che si sposta nella grande mela e si avvale di un produttore (Bryce Goggin), abituato a lavorare con l'indie dei Pavement e il punk dei Ramones (ma anche con Anthony and the Johnsons)?
La risposta, imprevedibile, è un classicissimo album di honky tonk country, dalle melodie tradizionali e i testi rispettosi della grammatica richiesta, capace di rinverdire un genere tanto popolare quanto sputtanato.
Funziona tutto dentro questo album, dall'approccio vocale di Westfall, alle atmosfere fifties che rimandano a Wayne Hancock, al lavoro chitarristico, pulito e preciso, di Scott Metzger (Shooter Jennings, Phil Lesh), fino alla qualità sopraffina del songwriting, costante nei dodici pezzi della tracklist.
Se la copertina old fashioned ci introduce adeguatamente al mood del disco, i suoni languidi di It hurt her to hurt me ci confermano la cifra stilistica del lavoro, consolidata traccia dopo traccia (Till the right one comes along, una More and more che è lì in attesa di essere ripresa da Raul Malo), con passaggi che sconfinano nell'errebì alla Bo Didley (l'incipit di Off the wagon) e nel country 'n' roll (The end of the line).
Insomma, un debutto che deve far rizzare le antenne a tutti gli amanti del country.

lunedì 12 novembre 2018

Raven, All systems go!

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Il ruolo di opener per il recente concerto dei Saxon mi ha dato modo di conoscere meglio una band che non poteva che essermi nota, essendo pioniera della NWOBHM, ma che, per una ragione o l'altra, non avevo mai approfondito. I Raven si formano nell'operaia Newcastle nel 1974 su impulso dei fratelli John (basso e voce) e Mark Gallegher (chitarra) , ma esordiscono discograficamente solo sette anni dopo, nel 1981 con Rock until you drop
Il loro è un power trio dotato di uno stile rozzo ed essenziale, riff colesterolici che girano intorno al boogie, ritornelli adatti ai pub o ai dopolavoro (che sono i posti dove i Raven si sono fatti le ossa), insomma un tanto al chilo e via andare. Li nota l'etichetta locale Neat Records che li mette sotto contratto. Sono quelli gli anni più importanti nella carriera della band, che dal 1981 al 1983 sforna un disco all'anno (oltre al già citato debutto, Wiped out e All for one), poi il passaggio ad una major che, come spesso accade, coincide con il declino.
Questa raccolta del 2002 riassume in venti tracce quel frenetico ed irripetibile triennio, quando i Raven, tuttora in attività discografica, misero insieme il 90% del repertorio che ancora oggi farcisce le loro setlist.
Parlo di pezzi come Don't need your money, Hell patrol, Rock until you drop, Live at the inferno, Tyrant of the airways, Faster than the speed of light e via discorrendo.
Risentito oggi, lo stile del singer John Gallegher non può che strappare qualche sorriso, con quegli acuti assurdi da palle strizzate (sentitevi il lancinante urlo prolungato in Hell patrol!), che diventa però rispetto verso una coerenza stilistica da working class, figlia dei lavori di fatica che spezzavano le schiene in quel di Newcastle, e di composizioni schematiche ma ancora oggi solide, sostenute da refrain indelebili e un indemoniato lavoro di chitarra del fratello Mark.

Provare per credere.

giovedì 8 novembre 2018

Behemoth, I loved you at your darkest

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Non c'è recensione, soprattutto recente, dei Behemoth, che si astenga da una lunga descrizione sulla complessa personalità del carismatico leader Nergal (al secolo Adam Michal Darski, nato nel 1977 a Gdyna, città portuale polacca che si affaccia sul mar baltico). Effettivamente non si può fare a meno di concentrarsi su questo personaggio, che, nonostante sia nato così geograficamente lontano dai riflettori del music business, in quasi un quarto di secolo di attività è riuscito a portare la sua creatura sul podio più alto del metal estremo e la propria immagine ad una visibilità ancora più ampia, praticando una tale diversificazione commerciale da far storcere il naso a tanti puristi del metal. Ha fatto di tutto, Nergal, da un deep endorsement con bibite energetiche (Demon energy), ai biscotti per cani (collegati al brano God = Dog), al giudice del talent The voice polacco, al conseguimento di lauree in storia e latino che lo qualificano come curatore di musei. E' "riuscito" anche, Adam, ad ammalarsi gravemente di leucemia e a guarire solo grazie alla compatibilità con un donatore (evento abbastanza raro).

In tutto questo la sua vena artistica non si è mai affievolita. Undici album dal 1995 ad oggi sono lì a dimostrarlo in un crescendo di consensi inarrestabile che l'hanno visto affrancarsi dal blackened black metal delle origini fino a giungere ad un'ampia contaminazione che è andata di pari passo con l'allargamento della sua fanbase. Se The satanist del 2014 aveva messo abbastanza d'accordo critica (per molti un capolavoro) e pubblico, questo I loved you at your darkest, a partire dal titolo, permeato di poesia, oscurità e in sintonia con le opere di Poe, rischia di far definitivamente deflagrare la popolarità della band. Dico rischia perchè, inevitabilmente, quando i suoni, pur restando ostici, trovano la chiave per allargare la platea di ascoltatori, ecco subito alzarsi il ditino degli integralisti pronti a scagliarsi contro il venduto di turno.

Da parte mia, che ascolto roba marcia a piccole dosi alternandola rigorosamente a mood più solari, questo è un gran bel disco. Nergal non rinuncia al suo spiccato anti clericalismo (vi bastano titoli come il già citato God=Dog - impreziosito da un video "pittorico" -  o Ecclesia diabolica catholica o ancora If crucifixion was not enough?) e nemmeno a violentissimi blast beat in pieno stile black (Angels VIII; Wolves of Siberia), ma il tradizionale monolite distruttivo previsto dal genere è intervallato da break acustici, canti gregoriani, cupi rallentamenti, potenti refrain, cori fanciulleschi. Il tutto all'insegna del gotico e del malsano, ma, e qui sta a mio modo di vedere la grandezza della band, servito dentro una portata accessibile anche a fruitori "normali" (certo, pur sempre avvezzi a sonorità aspre).

Facendo le debite proporzioni, I loved you at your darkest mi ricorda, come operazione, il black album dei Metallica, disco che impose un certo tipo di metal di nicchia (il thrash, per quanto edulcorato) a tutto il mondo. 
E questo per me è un complimento, se fosse facile l'avrebbero già fatto tanti altri.

A gennaio saranno a Milano. Un pensierino è doveroso.

lunedì 5 novembre 2018

Nemico pubblico (1931)

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Pietra miliare del gangster movie americano, Nemico pubblico, per l'epoca in cui fu proiettato (1931), si fece subito la fama di film brutale e violento, anzi, per dirla tutta, fu il caparbio regista William A. Wellman a concepirne una messa in scena di questa natura, per uscire dai clichè di quello che era un genere molto amato (per capirci negli stessi mesi uscivano Piccolo Cesare e Scarface).
Inutile sottolineare che molto del successo è dovuto alla presenza di James Cagney, villain hollywoodiano per antonomasia, che in questo film doveva interpretare un ruolo di spalla al protagonista e che invece, per intuizione proprio di Wellman, fu assegnato alla parte principale di Tom Powers. E questa intuizione fu decisiva per Cagney, che qui si guadagnò un'incredibile spinta propulsiva per la sua carriera.
Sono diverse le sequenze memorabili di Nemico Pubblico. A partire dai titoli di testa, dove emerge il retaggio con il cinema muto, per passare al rapporto tra Cagney/Powers e le donne, trattate con cinismo e cattiveria, fino al culmine della scena del pompelmo schiacciato con disprezzo sul viso della malcapitata Mae Clark e per finire con la scena conclusiva del film, ancora oggi impressionante (non oso immaginare l'effetto sugli spettatori dell'epoca). 
L'assoluta modernità del film emerge anche da un sottotesto pacifista, viene infatti mostrato il fratello di Tom che torna dalla guerra (gli eventi del film si svolgono a cavallo della prima guerra mondiale) psicologicamente a pezzi, in una specie di shock post traumatico in anticipo sui tempi.
Un paio di curiosità: prima dei titoli di coda scorre sullo schermo un testo nel quale si vuole imporre una morale superiore alla storia, affermando in sostanza che i delinquenti sono tutti destinati alla fine di Tom Powers, e la particolarità della data di uscita in Italia: a causa della censura fascista infatti, il film vide le nostre sale solo trent'anni dopo la sua release, nel 1963.

giovedì 1 novembre 2018

MFT settembre ottobre

ASCOLTI

N.W.A., Straight outta Compton
Lindi Ortega, Liberty
Old Crow Medicine Show, Volunteer
The Dead Daisies, Burn it down
Hardcore Superstar, You can't kill my rock 'n roll
Monster Truck, True rockers
Cliff Westfall, Baby you win
Nashville Pussy, Pleased to eat you
Eminem, Kamikaze
Deicide, Overture of blasphemy
Eric Church, Desperate man
Behemoth, I loved you at your darkest
Raven, All systems go!
Anna Calvi, Hunter
Manilla road, Crystal logic
Neneh Cherry, Broken politics
Austin Lucas, Immortal americans
Cody Jinks, Lifers
Wade Bowen, Solid ground
Little Steven, Soulfire live!
The Chieftains, Water from the well
John Carpenter, Anthology: Movie themes 1974/1988
Greta Van Fleet, Anthem of the peaceful army
Tom Morello, The Atlas underground

VISIONI

Scappa! Get out
I trasgressori
Slither
Elle
L'uomo di bronzo (1937)
La fratellanza
La decima vittima
Convoy
Autoreverse
Tower Heist - Colpo ad alto livello
Insospettabili sospetti
Moonwalkers
Get on up!
The code
Il seme della follia
Venom
La furia umana (1949)
Sabotage
Unstoppable - Fuori controllo
Moon
Kingsman, Il cerchio d'oro
The Bourne identity
The Bourne supremacy
The Bourne ultimatum
Effetti collaterali  (S. Soderbergh)
Mad Max - Fury road
Nemico pubblico (1931)
Millennium - Quello che non uccide


Oz, stagioni 3,4
Justified, 4 e 5

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LETTURE

Keith Richards, Life
Roberto Saviano, Zero zero zero
Roberto Saviano, La paranza dei bambini

lunedì 29 ottobre 2018

Nashville Pussy, Pleased to eat you

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I Nashville Pussy hanno imparato bene la lezione dell'immobilismo musicale. E' inutile affannarsi ad evolvere il proprio sound per soddisfare afflati artistici o, come più spesso accade, alla ricerca di maggiori fortune commerciali. Se si riesce ad essere credibili e coerenti e resistere nel tempo, prima o poi le gratificazioni, o perlomeno il rispetto incondizionato, arriveranno.
Ecco perchè questo Pleased to eat you, settimo full lenght di inediti in vent'anni di carriera discografica non contiene novità di rilievo rispetto alla consolidata cifra stilistica della band guidata dalla chitarrista Ruyter Suys e dal marito, il cantante/chitarrista Blaine Cartwright: punk-hard rock, con echi southern e blues.
Come sostengo sempre, a fare la differenza non è lo stile, ma la forza delle canzoni. E qui dentro, come tradizione, di forza ce n'è a pacchi, a partire dall'incipit in stile Motorhead dell'opener She keeps me coming and I keep going back, accompagnata da un video che ricalca quello realizzato dalla band di Lemmy per God save the queen.
Da qui un susseguirsi di tracce adrenaliniche intervallate da rivisitazioni blues (Woke up this morning) o la imprevedibile ma azzeccatissima cover di CCKMP (Cocaine Can I Kill My Pain) di Steve Earle (dall'album I feel alright), vero e proprio apice del disco.

Nessuna novità, nessun rilievo da muovere. Avanti così.

giovedì 25 ottobre 2018

John Corabi, Live 94 - One night in Nashville

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No, il blog non è diventato una fanzine di John Corabi. Tocca premetterlo visto le recenti recensioni dei Dead Daisies (qui, qui e qui) . D'altra parte, un pò la mia particolare vicinanza ai veri losers del rock, un pò un'insana vena compulsiva che ti spinge a non mollare un osso quando l'hai afferrato, mi hanno portato ancora una volta ad affondare il colpo con il cantante/chitarrista di Philadelphia.
L'ennesima occasione è questo disco dal vivo di recente uscita, ma inciso nel 2017 al The Basement di Nashville, nel quale l'ex Scream, per la prima volta, suona, insieme ad una band che nulla ha a che vedere coi Dead Deasies (e di cui fa parte anche il figlio Ian, batterista), l'intero album Motley Crue del 1994 che lo vedeva alla voce al posto dello storico frontman Vince Neil. 
Pare che il buon John covasse da tempo questa rivincita personale, visto che, nonostante le lodi di molta critica che ha considerato quel disco il migliore di sempre dei Crue, la reazione del pubblico fu invece disastrosa, con un tour cancellato dopo poche date per scarsissima prevendita. Corabi invece ha sempre dichiarato di amare quel lavoro, nonostante abbia rappresentato per lui solo un'illusoria occasione di successo.

E si capisce dalla grinta con la quale, quasi un quarto di secolo dopo, propone quell'intera tracklist (con l'aggiunta di 10.000 miles, presente come bonus track solo in alcune particolari edizioni del cd), riservandosi uno spazio (traccia #7) per raccontare il momento in cui ricevette quella telefonata da Tommy Lee che gli cambiò la vita.
Riascoltando si capisce benissimo come queste canzoni non potessero avere nessuna chance con una fanbase come quella dei Crue, allevata a testi misogini e melodie glam metal (io stesso adoro i Crue, ma probabilmente sono di vedute più ampie).
Qui si fa sul serio, hard-rock settantiano con radici blues e derive lisergiche. Peccato che all'epoca non abbiano apprezzato nemmeno i fan del grunge, che in questi elementi ci sguazzavano.
Qui sta tutta la sfiga di Corabi: proporre il genere giusto, al momento giusto ma dentro la band sbagliata. Un inciampo dal quale ha rischiato di non alzarsi più.

E questa, assieme alla sua coerenza artistica, è la ragione per la quale gli si continua a volere un gran bene.

lunedì 22 ottobre 2018

Get on up (2014)

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I feel good, l'autobiografia di James Brown, recensita qualche settimana fa, è un lettura obbligatoria non solo per ogni autentico appassionato di musica, ma anche per chiunque voglia approfondire storia un pezzo di storia americana. 
Dall'entusiasmo di quella lettura alla curiosità di vedere la sua trasposizione cinematografica, il passo, per me, è stato breve.

Get on up esce nelle sale cinque anni fa, con esiti non certo deflagranti (in pratica, alla fine, pareggia l'investimento dei produttori, tra i quali Mick Jagger) e sceglie di mettere in scena la vita di James Brown attraverso diverse linee temporali che si intrecciano intervallandosi, dal James bambino che vive in totale indigenza, abbandonato prima dalla madre (una viola Davis sempre come sempre estremamente convincente) e poi dal padre (Lennie James) ed accudito dalla zia, al primo periodo con la band soul dei The Famous Flames, al grande successo, al funk, al ruolo paterno del manager Ben Bart (Dan Akroyd) fino alla fase di calo che coincide anche con i suoi comportamenti più violenti e coi problemi con le forze dell'ordine.

Get on up non riesce ad evitare la trappola dell'agiografia, chi scrive ritiene che James Brown per la cultura nera abbia rappresentato, per almeno due-tre lustri,  un punto di riferimento assoluto che andava ben oltre l'aspetto artistico, e che la persona fosse dotata di una personalità, un temperamento, una vena artistica ed un'autostima sconfinate, ma con altrettanta onestà che avesse un lato oscuro, originato probabilmente dai drammi subiti durante l'infanzia, che non emerge a dovere, così come restano solo accennati i suoi terrificanti scoppi d'ira.
Come spesso succede è invece estremamente positiva la prova del protagonista Chadwick Boseman, che fa un lavoro strepitoso nell'impersonificazione di Mr Dynamite, dalla parlata (il film va visto in lingua originale!) alle caratteristiche movenze sul palco, al punto che si fa fatica a riconoscere lo stesso attore nel ruolo che lo ha visto protagonista del recente Pantera Nera
Ricorrente anche la dinamica narrativa del perdono. Esattamente come mostrato in Straight outta Compton, anche qui viene rievocata una pace postuma (anno 1991) tra Brown e il suo storico sodale di palco  e amico Bobby Byrd. Fa molto buoni sentimenti ma chissà quanto verosimiglianza.

In sintesi Get on up non è nulla per cui strapparsi i capelli, ma tra il vederlo e il lasciarlo andare io sono per la prima opzione.


lunedì 15 ottobre 2018

Venom

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I fan dei fumetti (io per primo) proprio non ne vogliono sapere di rassegnarsi e giudicare una trasposizione cinematografica sulla base del suo valore, slegando il giudizio dal confronto con le strips. Continuo a ripetermelo visto il trattamento riservato al film su Venom. Il famoso simbionte nasceva infatti a metà anni ottanta, in una saga Marvel chiamata Secret Wars, nel quale all'Uomo Ragno, ridotto a brandelli il canonico costume rosso e blu, veniva consegnata una tuta nera, di provenienza aliena. E' questa la ragione per la quale gli occhi di Venom ricordano così da vicino quelli della classica maschera di Spidey. Nel tempo il personaggio acquisisce una sua indipendenza e, con un alter ego diverso da Parker, (prima Eddie Brock, poi altri, tra i quali Flash Thompson) percorre la propria strada fumettistica.
La pellicola diretta da Ruben Fleischer (Benvenuti a zombiland; Gangster squad) traccia una linea e riparte da zero. L'azione si svolge a San Francisco, dove Eddie Brock (Tom Hardy) è un giornalista d'assalto che per sputtanare il losco di turno non esita a rovinare anche il rapporto con la fidanzata e, in un'azione sul campo, ad essere infettato dal simbionte che lo tramuterà in Venom.
La pellicola segue pedissequamente le liturgiche fasi del film supereroistico, senza trovare l'irriverenza di un Deadpool o i i dialoghi di un (inarrivabile) I guardiani della galassia, che sono riusciti ad innovare dentro dinamiche classiche.
Peccato perchè la particolare follia del personaggio (un alieno affamato di esseri viventi che dialoga con il suo involucro umano) poteva tradursi in uno splatter con venature comiche, sulla falsariga dei due cinecomics citati in precedenza. E invece neanche Tom Hardy (uno dei miei preferiti della seminuova generazione di attori) riesce più di tanto a nobilitare il character e, onestamente, assistere ancora oggi ad una lotta all'ultimo cazzotto scandita dallo scorrere di un conto alla rovescia (in questo caso per il lancio di un razzo) getta nel più profondo sconforto.
Nella sequenza post titoli di coda ci viene anticipato il prossimo villain, che sarà Carnage, interpretato - ottima notizia - da un Woody Harrelson, che indossa però - notizia nefasta- capelli rossi posticci al limite della denuncia penale. 
Ad ulteriore testimonianza che la lontananza dal fumetto originale è solo l'ultimo dei problemi di questo film.

lunedì 8 ottobre 2018

Saxon, con FM e Raven, al Live Club di Trezzo (5 ottobre 2018)

Per essere un concerto riservato a pochi attempati metallari, l'esterno del Live Club di Trezzo regala un colpo d'occhio mica male: lunghe file davanti all'ingresso e bagarini che comprano biglietti (chiaro segnale di sold-out).
Dunque si difendono ancora bene i Saxon, il cui debutto di trentanove anni fa contribuiva alla nascita della mitologica New Wave of British Heavy Metal, e che da allora, tra alti e bassi, non ne hanno mai voluto sapere di mollare.
Ma andiamo per gradi. Entro giusto in tempo per assistere all'esibizione dei Raven, che hanno appena attaccato Destroy all monsters, tratto dal loro ultimo, dodicesimo album, ExtermiNation (2016). 

Devo ammettere che per me è stata una grande opportunità vedere dal vivo questo trio di Newcaslte, da sempre a sgomitare nelle seconde linee del metal, con vendite inesistenti, ma sorretti dal grande affetto di un manipolo di fan e da una encomiabile resistenza. I due membri storici della band si presentano rigorosamente in nero, John Gallagher(basso e voce)  con la sua bella pancia da birra e Mark Gallagher (chitarre) con la sua stazza che sfiora i due metri per, ipotizzo, almeno centocinquanta chili di peso. Non fossero sopra un palco potreste tranquillamente incontrarli in qualunque pub della provincia inglese davanti a qualche dozzina di pinte vuote. Ma on stage si trasformano, soprattutto il chitarrista sfida la sua massa e la forza di gravità con un'insospettabile agilità, non sta fermo un momento, salta, fa il funambolo, si rivolge in continuazione al pubblico, durante i solos si produce nelle classiche smorfie facciali che tanto andavano di moda una vita fa. Alla fine del set (sei pezzi), durante il quale sono stati acclamati a gran voce e sostenuti da pubblico (Hell patrol e On and on sugli scudi), Mark e John salutano stremati, ma, sembrerebbe, anche emozionati e soddisfatti. Gran bella gig in onore di un periodo irrimediabilmente morto e sepolto.



In perfetto orario sulla tabella di marcia, e di questo bisogna complimentarsi, oltre che con la professionalità delle band, anche con la perfetta organizzazione del Live Club, salgono sul palco gli FM, probabilmente il gruppo inglese più americano nella loro proposta AOR. Dovevano esserci gli Y & T in quella posizione del bill, ma un non specificato problema ha provocato, a pochi giorni dal concerto, il cambio tra i due gruppi. Niente di male, gran bel combo anche questi FM, non fosse che vederli dopo i brutti, sporchi e proletari Raven fa un pò specie, con il loro look elegante, lo stile AOR da radio americane anni ottanta, i suoni puliti e gli strumenti che suonano come su disco. Il cantante Steve Overland (una vaga somiglianza con Enrico Bertolino) è a suo agio e rilassato, prende tutte le note con una naturalezza impressionante e la band sciorina i suoi pezzi più noti (That girl, All or nothing, Tough it out), racchiudendoli, all'inizio e alla fine, da due soli pezzi dall'ultimo, eccellente, Atomic generation (Black magic e Killed by love). 
Setlist da nove brani per oltre quarantacinque minuti, e adesso l'attesa per gli headliner si fa frenetica. 



Mi guardo un pò in giro realizzando che questo è probabilmente il concerto con il più bizzarro miscuglio di tipologie di pubblico a cui abbia mai partecipato. Oltre a numerosi coetanei, che si distinguono da lontano per via della zazzera bianca o la crapa pelata, magari bilanciata da sontuosi basettoni,  e che per l'occasione hanno ripescato dal fondo dei cassetti le loro t-shirt nere coi loghi delle più disparate bands, vedo anche numerosi giovani che, come ricorderà Biff, quando i Saxon hanno suonato nel 1980 per la prima volta a Milano non erano nemmeno nati, fino a personaggi fuori tempo massimo, come la coppia di settantenni davanti a me, a pochi metri dal palco, rimasta ferma ed impassibile per tutta la durata del concerto, ma senza cedere di un centimetro dalla posizione.


Alle 21:30 spaccate si spengono le luci e vengono diffuse le note di It's a long way to the top (if you wanna rock and roll) degli AC/DC, cantata a gran voce da un pubblico ormai carico a pallettoni, e poi ecco arrivare la band, con Biff Byford bardato nel suo ormai inconfondibile cappotto di tipo militare. Il pezzo che apre il concerto è Thunderbolt, deputato anche ad introdurre l'ultimo, omonimo, album
Caduto l'ultimo drappo che nascondeva una porzione di palco, fa bella mostra di sè l'immancabile "muro di Marshall" marchiato con l'aquila stilizzata, simbolo degli inglesi.
Si capisce subito che Byford non avrà alcun problema a comandare le operazioni, con una mobilità non certo dinamica, ma del tutto rispettabile, accompagnata da qualche headbanging e, soprattutto, da una voce che non ha perso un grammo della sua potenza e versalità. 
C'è spazio, com'è fisiologico che sia, per i pezzi più recenti (Sacrifice, Battering ram, Nosferatu, Sons of Odin, The secret of flight, Predator, con il bassista Nibbs Carter a fare il controcanto in growling che su disco era di Johan Hegg degli Amon Amarth), ma va da sè che sono le canzoni mitologiche a far tremare le fondamenta del locale: Strong arm of the law, Solid ball of rock, Power and the glory, 747 (Strangers in the night), Princess of the night, oltre alla nuova They played rock and roll, dedicata a Lemmy e ai Motorhead, suonata immediatamente prima di And the bands played on, che invece è l'autocelebrazione dei Saxon stessi. 
Dal vivo la band suona bella potente, con un tiro superiore a quello che emerge dai dischi, lo storico batterista Nigel Glocker spazza via ogni dubbio sulla compatibilità tra la sua età (65 anni) e il ruolo di heavy metal drummer, pestando come un fabbro ferraio, potente e preciso, infilato dentro una batteria enorme, a due casse. E' lui l'unico componente che Biff ogni tanto cerca, ignorando invece del tutto i restanti soci (tra i quali il co-fondatore Paul Quinn, che invece dimostra tutti i 67 anni con una prestazione pulita ma molto poco empatica).
Su Byford che dire? A quasi sessantotto anni sembra aver trovato una seconda giovinezza, la mobilità, come dicevo, è limitata, ma il suo è un modo di stare sul palco che è diventato molto più magnetico, autorevole, quasi sciamanico, il gesto più abusato è quello di allargare le braccia, come per esercitare un controllo totale sul pubblico, oltre a chiamarlo in continuazione al botta e risposta, con un portamento che si è fatto aristocraticamente britishResta il fatto che continui a non risparmiarsi, visto il timing del concerto, tendente alle due ore di esibizione.



Su Wheels of steel però anche il tradizionalista inglese si lascia prendere la mano dalla tecnologia, estraendo dalla tasca il proprio iphone per registrare un brevissimo video destinato al profilo Facebook della band.
Si chiude con Denim and leather, durante la quale i Saxon si fanno lanciare dalle prime file i classicissimi gilet di jeans con le toppe delle band (pare siano tornati di moda) e, una volta indossati, portano alla fine canzone e  show.

E' fatta, il cerchio è chiuso. Sono stato introdotto alla musica metal nei primi ottanta con tre dischi, tutti rigorosamente registrati da amici e compagni di classe su cassetta: Shout at the devil dei Crue, Stay hungry dei Twisted Sister e The eagle has landed, primo live dei Saxon.
Se per i Twisted Sister pare non ci siano più speranze di vederli dal vivo, visto il recente ritiro dalle scene (anche se... mai dire mai nel rock business), dopo i Crue, anche coi Saxon ho pagato il mio debito di riconoscenza per un modo di fare rock che, a quattordici anni, mi ha regalato emozioni talmente indescrivibili da lasciare una scia indelebile per oltre tre decenni.
L'anno prossimo i Saxon saranno di nuovo in Italia per la celebrazione dei loro primi quarant'anni di carriera e non è una previsione azzardata ipotizzare per loro il medesimo bagno di folla e di affetto che gli ha tributato qualche sera fa il Live Club.



giovedì 4 ottobre 2018

Lindi Ortega, Liberty

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Dopo una difficile fase della vita che probabilmente ha rappresentato una sorta di catarsi, Lindi Ortega, tornata nella natia Toronto, torna a fare quello che le riesce meglio, vale a dire esprimersi assecondando le sue influenze, etniche (essendo lei figlia di genitori messicano-irlandesi), e artistiche (l'amore per il country folk). 
E ben vengano allora tutti i peggiori struggimenti esistenziali, se, a dimostrazione della teoria che l'Artista crea le sue cose migliori nei periodi più bui, il risultato è un disco bellissimo, forse il migliore della sua carriera.
La ragazza dai piccoli stivali rossi (Little red boots, titolo del suo debutto su major) , dopo un EP che è servito a rimetterla splendidamente in pista, assembla un 15 tracks nel quale fa confluire, assieme al suo stile ormai consolidato, splendide e sognanti atmosfere western, prendendo in prestito melodie morriconiane (per Through the dust, strumentale diviso in tre parti, all'inizio, a metà e a fine disco) o la lingua spagnola (le struggenti Pablo e Gracias a la vida, classico cileno di Violeta Parra già ripreso da Joan Baez e molte altre, persino Gabriella Ferri).
Ovviamente il core business dell'album è un elegantissimo e delicato country folk, su musica e testi firmati dalla stessa Linda, che confermano i livelli di eccellenza raggiunti come musicista a tutto tondo. Canzoni evocative e profonde, come Afraid of the dark, Til my dyin day, Lovers in love non lascerebbero indifferente nemmeno un frigorifero, e il rock di frontiera Darkness be gone fa faville con il contrasto tra liriche western e musiche ariose sulla strada polverosa consumata prima di lei da Marty Stuart. Bene anche la liason con il pop folk dell'orgogliosa You ain't foolin' me.

Un ritorno che fa la felicità di quanti cercano l'autenticità da una musica tanto sputtanata quanto ancora viva e palpitante, se ad interpretarla c'è gente come Lindi Ortega.

lunedì 1 ottobre 2018

Roberto Saviano, Zero zero zero (2013)

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Nel 2013, sette anni dopo la pubblicazione di Gomorra, con tutto quello che il successo del libro ha comportato per il suo autore, Saviano tornava a riempire gli scaffali delle librerie con un volume inchiesta che aveva come protagonista assoluto il business della cocaina.
In largo anticipo su quella che sarebbe (tristemente) divenuta una tendenza di serie televisive e film che hanno celebrato i grandi narcotrafficanti della storia, Saviano puntava i riflettori su Colombia e Messico, patrie dei più importanti cartelli della droga, rimettendo in fila gli eventi storici che li hanno portati al centro della mappa del narcotraffico, ma anche sulle evoluzioni del mercato, che hanno allargato l'asse del business ad altri paesi del mondo (Italia, Russia, Nigeria).
Alcuni passaggi del libro riprendono vicende note in quanto entrate ormai nella storia recente e nella cultura popolare, ma molti altre sono vere e proprie scoperte, a volte sconvolgenti, come l'emersione di personaggi italiani totalmente sconosciuti alla massa, ma autentici deus ex machina del trasporto della droga, dalla produzione al consumatore.
E in un mercato nel quale i soldi sono così tanti dal dover essere "pesati e non contati", le nuove abilità richieste sono quelle logistiche, il come e dove far viaggiare la roba, per evitare controlli e sequestri. E' impressionante scoprire quanta coca viaggi da una parte all'altra del mondo e come una nuova modalità di spedizione, una volta scoperta, venga rimpiazzata da altre sempre più fantasiose. Di certo, la lettura di Zero zero zero fa nascere una nuova attenzione e sensibilità verso l'argomento, spesso ormai relegato, quasi con rassegnazione, in fondo alle notizie dei tiggì.

E' notizia recente che anche da questo libro di Saviano, dopo Gomorra e, pare, la Paranza dei bambini, sarà oggetto di una serie televisiva diretta dall'ormai lanciatissimo (anche a Hollywood) Sollima.

giovedì 27 settembre 2018

The Dead Daisies, Burn it down

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Quando ho saputo che i Dead Daisies avrebbero registrato il nuovo album a Nashville ho temuto fortemente la svolta country. No, non sono impazzito, adoro il country fatto bene, e proprio per questo devo constatare che purtroppo l'approccio di chi viene da altri generi a questo stile è quasi sempre di tipo mainstream. Fortunatamente, nel caso delle Margherite Morte la scelta della location per gli studi di registrazione è stata invece di natura esclusivamente pragmatica: le tariffe più basse e la vicinanza con la casa del produttore Marti Frederiksen hanno giocato un ruolo decisivo nella scelta.
Dal punto di vista più prettamente musicale, c'è da registrare come la band, in passato vero e proprio porto di mare per uno svariato numero di musicisti che ruotavano attorno alla figura di David Lowy (chitarra ritmica ma anche pilota di aerei e CEO di una grossa azienda), si sia cristallizzata con un nucleo di artisti, acquisendone in coesione e autostima.
E che artisti, verrebbe da aggiungere. Il massimo in ambito hard rock melodico: John Corabi alla voce, Doug Aldrich alla chitarra, Marco Mendoza al basso e Deen Castronovo, unico nuovo innesto, alla batteria. Con un parterre così, è difficile confondersi sull'orientamento dello stile musicale, così come sul tiro del disco. E infatti Burn it down pesta giù magnificamente in ambito sleaze/hard rock, in maniera anche più efficace del precedente Make some noise.
Sugli scudi Corabi, che sembra aver sconfitto le sfighe della sua carriera con un elisir di immortalità per la sua fantastica voce, ma è tutto il gruppo a suonare coeso e convinto, da vera band, al punto che Burn it down si potrebbe tranquillamente suonare in modalità random, senza incappare brani deboli o filler. 
Da veri appassionati di rock poi la soluzione che i Dead Daisies propongono  all'eterno conflitto Beatles o Rolling Stones: una cover ciascuno e tutti contenti. 
Per la cronaca il tributo agli Stones (Bitch) si erge prepotentemente su quello ai Beatles (Revolution), grazie al riff granitico di Richards, che qui diventa letteralmente sconquassante.

Ormai una certezza.

lunedì 24 settembre 2018

Straight outta Compton (2015)

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La storia riscritta dai sopravvissuti. Questo è Straight outta Compton, il film che narra una stagione, cominciata nella seconda parte degli ottanta, che ha visto nascere ed affermarsi il gangsta rap attraverso l'affermazione degli N.W.A. (Niggers With Attitude),  posse composta da Dr Dre, Ice Cube, Eazy-E, MC Ren e DJ Yella. 
Sono proprio gli artisti che nel tempo hanno maggiormente consolidato il proprio status di divi (Dre e Ice Cube) a produrre l'opera, da ciò ne deriva che i loro personaggi, impersonati in maniera superba, anche per la somiglianza fisica, da O'Shea Jackson Junior (Cube) e Corey Hawkins (Dre), sono quelli che escono meglio da una fotografia storica quantomeno controversa. 
In generale il film tende a giustificare la misoginia e la violenza dei testi degli N.W.A. come urgenza comunicativa proveniente da uno strato sociale, le periferie USA, senza sbocchi, povero e repressivo unito al comportamento vessatorio della LAPD, pronta a manganellare qualunque nero sorpreso a bighellonare per strada.
Scenario questo anche verosimile, nella Los Angeles di quel periodo (non manca ovviamente il riferimento alla vicenda di Rodney King), ma diciamo che la combriccola degli N.W.A. in buona parte non era esattamente composta da stinchi di santo, tra spacciatori (Eazy), passione per le armi da fuoco anche di grosso calibro e frequentazioni con manager maneschi (il famigerato Suge Knight, interpretato da R. Marcus Taylor).
Detto questo, e prese con le dovute cautele alcune ricostruzioni dell'epoca, tra le quali il mieloso buonismo del finale, il film è anche gradevole e fa venire voglia di riprendere (l'ho fatto) in mano il disco del 1987, l'unico uscito con questa formazione leggendaria. 
Di certo l'album Straight outta Compton, piaccia o meno il messaggio divulgato, è una pietra miliare per il genere, e ha senso, in una cultura come quella americana, povera di storia e sempre alla ricerca di personaggi da mitizzare, riproporla ad un pubblico giovane.

giovedì 20 settembre 2018

Old Crow Medicine Show, Volunteer

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A quattro anni dall'eccellente Remedy tornano gli Old Crow Medicine Show con il nuovo, attesissimo, lavoro. 
E in Volunteer la formula del sestetto di Nashville, fortunatamente, non cambia: siamo ancora di fronte al miglior country-blugrass possibile, assieme a composizioni che pagano esplicitamente dazio a Dylan (fonte d'ispirazione perenne, celebrata addirittura con una riproposizione live dell'intero Blonde on blonde, pubblicata su disco l'anno scorso).
Se in questa società che viaggia veloce e superficiale come un like su di un social, la fortuna di un disco si misura dai suoi primi minuti, gli OCMS accettano la sfida, partendo con una infuocata Flicker and shine, per poi piazzare un bel country arioso come A world away e un inedito che suona come un traditional rifatto dai Creedence (Child of Mississippi). 
Catturata l'attenzione anche di quelli affetti dalla forma più grave di deficit dell'attenzione, la band non molla più la presa: Shout mountain music è la canzone manifesto non solo del disco, ma della filosofia artistica (e di vita) di Critter Fuqua e soci e di quanto il combo non voglia saperne di ammorbidire il proprio suono per diventare maggiormente mainstream.
Ancora brividi con l'old time The good stuff e con la più dylaniana di Dylan Old Hickory.
Disco della madonna, di nuovo. 
Imperdibile per tutti gli amanti dell'autentico sound redneck senza compromessi ne cedimenti. 
Dieci, cento, mille Old Crow Medicine Show.